giovedì 13 Novembre 2025
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Indonesia, inondazioni a Bali: almeno 12 morti

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L’isola indonesiana di Bali, una delle maggiori mete turistiche del Paese, è stata colpita da una forte ondata di piogge, che ha causato diverse inondazioni. Le piogge sono iniziate nella sera di ieri, martedì 9 settembre, e hanno causato il crollo di due edifici nella capitale dell’isola, Denpasar, uccidendo almeno quattro persone. I soccorritori sono a lavoro per cercare eventuali superstiti sotto le macerie. In totale, l’inondazione ha causato la morte di 12 persone.

Soldati israeliani in vacanza in Italia: il governo chiamato a rispondere in Parlamento

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L’Italia continua a essere meta dei soldati israeliani, che sin dal 2024 giungono nella Penisola per “decomprimere” dopo lo stress derivato dal genocidio palestinese. Stando a quanto si apprende da fonti di stampa e dai gruppi parlamentari di opposizione, i militari avrebbero scelto come mete la Sardegna e le Marche, dove sarebbero presenti in mera veste di turisti. Eppure, i membri dell’IDF giunti nel nostro Paese sarebbero “monitorati” da agenti della DIGOS, che ne registrerebbero gli spostamenti per evitare eventuali attacchi alla loro persona, fungendo di fatto come loro scorta. Di fronte alle proteste della società civile, il Movimento 5 Stelle – seguito a ruota da AVS e dal PD – ha annunciato la presentazione di interrogazioni parlamentari: il governo è chiamato a spiegare se e in quale misura abbia avuto ruolo nell’organizzazione, nell’accoglienza o nella tutela di queste trasferte.

Secondo le ricostruzioni, non si tratterebbe di episodi isolati, ma di una pratica consolidata almeno dal 2024, proseguita anche nell’anno corrente. I militari, in gruppi di decine di persone, vengono ospitati in resort di lusso, come il Mangia’s resort a Baia Santa Reparata in Sardegna, o in case private nelle Marche, tra località come Sirolo, le Grotte di Frasassi e Porto San Giorgio. Fonti informate, citate dall’agenzia ANSA, hanno precisato che non esiste una «tutela di gruppi o delegazioni di militari israeliani in quanto tali», ma un monitoraggio di «turisti che potrebbero essere soggetti a minacce» perché considerati sensibili nel contesto del conflitto e delle mobilitazioni pro-Palestina. L’Italia sarebbe stata scelta come meta perché considerata «Paese amico e sicuro». La scoperta dei soldati israeliani in vacanza in Italia ha scatenato immediate proteste da parte di attivisti locali, come il gruppo Lungoni per la Palestina, che hanno organizzato sit-in davanti ai resort. Consiglieri regionali sardi hanno inviato una lettera alla Geasar, gestrice dell’aeroporto di Olbia, chiedendo la sospensione del volo per Tel Aviv, spiegando che non si possono concedere attività turistiche a un governo «che deve rispondere di crimini di guerra e violazioni del diritto internazionale».

Il primo gruppo politico a sollevare la questione in entrambi i rami del Parlamento è stato il M5S. «Ho depositato un’interrogazione parlamentare urgente per chiedere al governo come sia possibile la presenza regolare di tali militari in vacanza sul nostro territorio – ha scritto sui propri canali social la deputata pentastellata Stefania Ascari – Esistono degli accordi tra il Governo italiano e lo Stato terrorista Israele? C’è qualcuno che li protegge? Ospitare questi soldati colpevoli di crimini di guerra e contro l’umanità, per cui la Corte Penale internazionale ha emesso mandati di arresto verso chi li ordina, è di una gravità inaudita». Le ha fatto eco la senatrice M5S al Senato Alessandra Maiorino, che ha annunciato il deposito di una interrogazione parlamentare a Palazzo Madama «per fare chiarezza su quanto riportato dalla stampa e capire chi ha spalancato le porte a questa oscena operazione, mentre a Gaza continua il genocidio e si continua a morire di fame e di sete». Anche PD e AVS si sono uniti al coro, chiedendo conto dell’ennesimo presunto tassello della «complicità politica e morale» tra Roma e Tel Aviv e censurando i «tentennamenti» di Palazzo Chigi sulla questione.

A Berlino il sabotaggio del complesso militare ha causato un grande blackout

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Ieri un blackout ha paralizzato per diverse ore la zona meridionale di Berlino. L’incendio — doloso secondo le prime ricostruzioni della polizia — di due tralicci dell’alta tensione ha lasciato case e negozi senza corrente, per un totale di 40mila utenze. È stato costretto a fermarsi anche il complesso militare-industriale situato nel quartiere Adlershof, tra i più grandi parchi tecnologici d’Europa. Il sabotaggio è stato presto rivendicato da «alcuni anarchici» che hanno firmato una lettera-comunicato pubblicata su Indymedia, dove si legge: «Chiediamo ai residenti che ne sono stati colpiti di essere indulgenti, non era affatto nostra intenzione. Tuttavia, consideriamo questo danno collaterale giustificabile, in contrasto con la distruzione della natura e la sottomissione spesso mortale delle persone, di cui molte delle aziende con sede qui sono responsabili giorno dopo giorno».

Dalle tre del mattino di martedì migliaia di case e negozi berlinesi sono rimasti senza corrente, con disservizi segnalati per buona parte della giornata. Con semafori e tram fuori uso il traffico è andato presto in tilt, rendendo difficile la circolazione. Per diverse ore ha smesso di funzionare il parco tecnologico di Adlershof, nella zona meridionale della capitale tedesca. Il complesso militare-industriale si estende su un’area di 4,6 chilometri quadrati, contando al suo interno più di 1300 aziende e istituti di ricerca impegnati in diversi settori, tra cui IT, robotica, biotecnologia, aerospaziale, IA e armi. A quanto pare, il parco tecnologico di Adlershof sarebbe finito al centro di un sabotaggio compiuto da anarchici, i quali hanno rivendicato l’incendio dei due tralicci che ha causato il blackout a Berlino. «I loro slogan pubblicitari di innovazione, sostenibilità e progresso — si legge nella lettera firmata da «alcuni anarchici» e pubblicata su Indymedia — non sono altro che una manovra fuorviante per distrarre dal fatto che in realtà costruiscono strumenti di morte e distruzione. Ogni modello di business presente nel parco tecnologico di Adlershof funziona come stabilizzante del sistema ed è, tra l’altro, un prodotto di interessi militari. Le loro tecnologie sono la garanzia della sopravvivenza della macchina capitalista della morte. Pertanto, sono tutti l’obiettivo della nostra azione». La polizia tedesca ha confermato la natura dolosa dell’incendio e indaga su quanto dichiarato dagli anarchici.

Il sabotaggio del complesso militare-industriale berlinese non è un caso isolato. In Europa aumentano i casi simili, soprattutto a sostegno del popolo palestinese e contro Israele, che continua a ricevere armi dai partner europei, tra cui la Germania, capofila nel continente e seconda soltanto agli Stati Uniti per carichi militari venduti allo Stato ebraico.

Per la prima volta è stata fotografata la nascita di un pianeta

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Ha preso forma a 56 volte la distanza tra la Terra e il Sole, scavando un varco all’interno di un disco di polvere e gas attorno ad una giovane stella: è WISPIT 2b, ritenuto il primo pianeta in formazione mai fotografato all’interno di una lacuna di un disco protoplanetario multi-anelli. A rivelarlo, un nuovo studio guidato dall’astronomo Laird Close dell’Università dell’Arizona e da Richelle van Capelleveen dell’Osservatorio di Leida, sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista The Astrophysical Journal Letters. Di fondamentale importanza la combinazione di telescopi e tecnologie d’avanguardia tra cui il sistema di ottica adattiva estrema MagAO-X installato al Telescopio Magellano in Cile, senza la quale gli autori difficilmente sarebbero riusciti nella scoperta. «Molti hanno dubitato che i protopianeti possano creare queste lacune, ma ora sappiamo che in realtà è possibile», ha commentato Close, aggiungendo che fino ad oggi, infatti, i pochi protopianeti osservati si trovavano nelle cavità interne dei dischi, mentre nessuno era mai stato visto nelle lacune tra gli anelli, dove solo le teorie prevedevano la loro presenza.

I dischi protoplanetari sono enormi strutture di gas e polveri che circondano le stelle appena nate e che rappresentano il materiale da cui si formano i pianeti. Osservati grazie a telescopi come l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (ALMA) o il Very Large Telescope (VLT), si tratta di dischi che mostrano spesso un aspetto a più anelli, separati da lacune scure. Per decenni, spiegano gli autori, gli scienziati hanno ipotizzato che proprio quelle zone “vuote” fossero il segno della nascita di pianeti, che agiscono come veri e propri spazzaneve cosmici, ripulendo la loro orbita. Tuttavia, mancavano prove dirette: solo tre pianeti in accrescimento erano stati fotografati in precedenza e tutti si trovavano in cavità più interne, non nei varchi tra gli anelli. La chiave della scoperta, spiegano gli autori, risiede nei metodi utilizzati: grazie all’uso dell’idrogeno alfa – o H-alfa, una particolare radiazione luminosa prodotta dal gas quando cade su un pianeta in formazione e viene riscaldato fino a diventare plasma e con MagAO-X – un sistema capace di compensare le distorsioni atmosferiche e restituire immagini nitidissime – il team ha cercato proprio questa firma luminosa, riuscendo a distinguere il debole segnale del pianeta dalla luce accecante della stella madre.

Il sistema WISPIT 2 visto dal Telescopio Magellano in Cile e dal Large Binocular Telescope in Arizona. Il protopianeta WISPIT 2b appare come un puntino viola in una cavità priva di polvere tra un anello di polvere bianca e brillante attorno alla stella e un anello esterno più debole, in orbita a circa 56 volte la distanza media tra la Terra e il Sole. L’altro potenziale pianeta, CC1, appare come l’oggetto rosso all’interno della cavità priva di polvere e si stima che si trovi a circa 15 distanze Terra-Sole dalla sua stella madre. Credit: Laird Close, Università dell’Arizona

Le osservazioni hanno rivelato non solo WISPIT 2b, ma anche un secondo candidato pianeta, denominato CC1, situato più vicino alla stella ospite WISPIT 2, simile al nostro Sole. Secondo le stime, CC1 avrebbe circa nove volte la massa di Giove e orbiterebbe a 14-15 unità astronomiche – la distanza media Terra-Sole, usata come riferimento – quindi una posizione paragonabile a quella tra Saturno e Urano se fosse nel nostro sistema solare. WISPIT 2b, invece, con circa cinque masse gioviane, si troverebbe molto più lontano, a 56 unità astronomiche, oltre l’orbita di Nettuno. «È un po’ come apparivano i nostri Giove e Saturno quando erano 5.000 volte più giovani di adesso», ha osservato Gabriel Weible, studente dell’Università dell’Arizona e coautore della ricerca, aggiungendo che le immagini mostrano un sistema straordinario, con due pianeti, quattro anelli e altrettante lacune, un laboratorio naturale per osservare la formazione planetaria. «Una volta attivato il sistema di ottica adattiva, il pianeta ci è saltato addosso», ha raccontato Close, ricordando l’emozione del momento. «Per osservare i pianeti nel breve periodo della loro giovinezza, gli astronomi devono trovare sistemi a disco giovani, cosa rara, perché è l’unico momento in cui sono davvero più luminosi e quindi rilevabili», aggiunge van Capelleveen, concludendo che la scoperta di WISPIT 2b conferma dunque che le lacune dei dischi non sono solo strutture enigmatiche, ma autentiche culle planetarie e apre una finestra unica sul processo che 4,5 miliardi di anni fa diede origine anche al nostro sistema solare.

“L’Europa deve combattere”: il discorso di von der Leyen, dal sostegno all’Ucraina a Gaza

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Il discorso di Usrula von der Leyen sullo stato dell’Unione, il quinto della sua carriera, si è aperto come un proclama: «L’Europa deve combattere». «Non si può più vivere di nostalgia», continua, perché «si profila uno scontro per il nuovo ordine mondiale basato sul potere». Ormai, per la presidente della Commissione, «L’Europa è in lotta», per l’unità, la pace, l’indipendenza e l’autodeterminazione: in poche parole, «per il nostro futuro». L’immagine che von der Leyen delinea è quella di un continente che deve diventare soggetto attivo in un contesto dominato da «ambizioni imperiali e guerre imperiali», in cui «le dipendenze vengono spietatamente trasformate in armi». Da questa diagnosi si ricava un imperativo: deve emergere una nuova Europa, non c’è spazio per la nostalgia dell’Unione com’era. Nel suo discorso, oltre a ribadire l’appoggio all’Ucraina, von der Leyen ha poi proposto sanzioni verso Israele e i coloni violenti alla luce della situazione «insostenibile» a Gaza e in Palestina.

Il linguaggio della presidente rimanda esplicitamente a un’economia di guerra: risorse da mobilitare, disciplina collettiva, sforzo permanente. È un discorso che trasforma la retorica della crisi in un atto fondativo, chiamando gli europei a un conflitto che è insieme politico, economico e culturale. Dietro la retorica della lotta si intravede un’agenda precisa. Il sostegno all’Ucraina, ad esempio, viene inquadrato non solo con un’alleanza sui droni, ma anche in termini finanziari con la proposta di un prestito di 6 miliardi di euro basato sui profitti degli asset russi congelati in Europa. Il capitale rimarrebbe intatto e l’Ucraina restituirebbe solo una volta che la Russia avrà pagato le riparazioni. È il tentativo di tradurre la guerra in uno strumento economico, di trasformare l’atto bellico in una forma di ingegneria finanziaria. Parallelamente, la Commissione annuncia l’introduzione di nuove misure commerciali per proteggere i settori strategici. In particolare, l’acciaio, che verrà tutelato attraverso un nuovo sistema di limitazioni alle importazioni, sostenuto da investimenti per la decarbonizzazione. La concorrenza globale, in questo quadro, non è più una dinamica di mercato, ma un campo di battaglia che richiede difese interne e strumenti protettivi. Al centro, resta il progetto di rafforzamento della difesa comune. Von der Leyen rilancia l’iniziativa di riarmo che potrebbe mobilitare fino a 800 miliardi di euro entro il 2030 per potenziare le capacità militari e costruire un’industria della difesa europea. L’obiettivo è un continente in grado di sostenersi senza dipendere da alleanze esterne, capace di definire la propria autonomia strategica. Sul fronte transatlantico, la presidente difende l’accordo commerciale con gli Stati Uniti, bollato da molti come una resa. Lo presenta come il miglior compromesso possibile, ma resta evidente che la percezione pubblica rimane divisa e che la fragilità della coesione interna minaccia di depotenziare l’intero impianto. Contestata dalla destra, la presidente della Commissione precisa che «Abbiamo urgente bisogno dello Scudo europeo per la democrazia, e intendiamo istituire un nuovo Centro europeo per la resilienza democratica, che unisca le capacità degli Stati membri per combattere la disinformazione e la manipolazione delle informazioni».

Non meno rilevante è il passaggio dedicato alla guerra in Medio Oriente, dove von der Leyen riconosce che «ciò che sta accadendo a Gaza è inaccettabile» e che l’Unione non può più permettersi la paralisi decisionale. Annuncia la proposta di sospendere il sostegno bilaterale a Israele, di interrompere i pagamenti nei settori governativi e di introdurre sanzioni mirate contro ministri estremisti e coloni violenti, insieme a una sospensione parziale dell’Accordo di Associazione sulle questioni commerciali. «L’UE per Gaza deve fare di più», insiste, denunciando la carestia come «arma di guerra» e descrivendo scene devastanti di madri che stringono figli senza vita e persone uccise mentre cercavano cibo. Parla di un soffocamento finanziario dell’Autorità Nazionale Palestinese, di progetti di insediamento che spezzerebbero la Cisgiordania, di dichiarazioni incendiarie dei ministri più estremisti. Tutto questo, secondo la presidente, mina in modo deliberato la prospettiva dei due Stati e la possibilità di uno stato palestinese sostenibile. In questo quadro, la sua voce assume toni di condanna etica oltre che politica, pur lasciando intendere quanto sarà difficile costruire una vera maggioranza all’interno dell’Unione.

Il centro del discorso resta, però, che «L’Europa deve combattere». È il passaggio in cui la retorica si fa più scoperta: non si tratta più solo di sostenere l’Ucraina o di difendere i «valori europei», ma di spingere l’intero continente verso una logica di mobilitazione permanente che prepara il terreno a un confronto diretto con la Russia. La retorica della lotta, l’invocazione all’economia di guerra e al nuovo ordine mondiale diventano strumenti per giustificare sanzioni, spese militari senza precedenti e misure straordinarie che rischiano di trascinare i popoli europei in un conflitto globale. Il discorso si chiude sul paradosso di un’Europa che dice di lottare per la pace brandendo lo slogan della guerra. Von der Leyen parla di libertà, valori e futuro, ma lo fa con un linguaggio che riecheggia il vecchio motto «Si vis pacem, para bellum». È un lessico orwelliano: proclamare la pace mentre si invoca la mobilitazione, difendere la democrazia con gli strumenti della guerra, giustificare sacrifici in nome della libertà. Così il rischio è che l’Unione non solo si prepari a uno scontro frontale con la Russia, ma si avviti in una spirale retorica che normalizza l’eccezione bellica come condizione permanente. Se il progetto europeo si riduce a questo, allora la promessa di un continente unito e libero rischia di dissolversi dietro il velo di una propaganda che chiama guerra ciò che dice di voler evitare.

Venezia, assessore Boraso patteggia 3 anni e 10 mesi per corruzione

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Renato Boraso, assessore alla Mobilità del Comune di Venezia, ha patteggiato una condanna a 3 anni e 10 mesi di reclusione e la confisca di 308mila euro per corruzione e turbativa d’asta. Già ai domiciliari, è accusato di aver favorito alcuni imprenditori nell’assegnazione di appalti in cambio di denaro, con l’aiuto di altre due persone (anch’esse condannate con patteggiamento). Boraso risulta inoltre coinvolto in un’altra inchiesta concernente la vendita di un palazzo di proprietà del comune di Venezia e di un terreno di proprietà del sindaco Luigi Brugnaro: avrebbe incassato una tangente da 73mila euro per abbassare il valore stimato del palazzo.

Truffa allo Stato e 183 milioni evasi: Elkann se la cava con qualche giorno di volontariato

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La Procura di Torino ha accolto la richiesta di “messa alla prova” presentata da John Elkann, presidente di Stellantis e amministratore delegato della holding Exor N.V., imputato per truffa aggravata ai danni dello Stato ed evasione fiscale. L’accordo, che dovrà ora essere ratificato dal giudice per l’udienza preliminare, prevede la partecipazione di Elkann a iniziative educative e formative di volontariato per una durata da 10 mesi a un anno. L’ipotesi circolata sui media in queste ore è che Elkann potrebbe presto varcare le porte di un’istituzione salesiana per svolgere lavori di pubblica utilità sulla base del programma concordato con i pm. La decisione finale spetterà al giudice, che dovrà approvare la proposta. La misura della probation, introdotta dalla legge 67/2014, sospende il processo per alcuni reati ritenuti di minore allarme sociale e sostituisce la pena con lavori di pubblica utilità sotto la supervisione dei servizi sociali. È stata applicata di rado in casi di reati economici di rilievo: il precedente più noto resta quello di Silvio Berlusconi per il processo Mediaset. Se completato senza violazioni, il percorso comporterà l’estinzione dei reati contestati: la fedina penale di Elkann resterà integra e non risulterà neppure l’imputazione, a differenza di quanto accaduto all’ex premier. Secondo la Procura, la richiesta è stata resa possibile dal versamento delle somme dovute al fisco, che ha sanato la parte tributaria della vicenda. Il procuratore aggiunto Enrica Gabetta e il pm Giancarlo Avenati Bassi hanno precisato che l’attività sociale dovrà essere concreta e verificata.

Le indagini della Guardia di Finanza hanno preso avvio nel 2022, a seguito di segnalazioni legate alla successione di Marella Caracciolo di Castagneto, vedova di Gianni Agnelli, deceduta nel 2019. Al centro, la dichiarazione di residenza in Svizzera della donna, ritenuta dagli inquirenti fittizia. Secondo la Procura, quella residenza avrebbe consentito agli eredi di sottrarre al fisco italiano circa un miliardo di euro di patrimonio e 248,5 milioni di redditi non dichiarati. Per ricostruire i flussi, i finanzieri hanno svolto perquisizioni, acquisito documenti da studi legali e fiduciari, e ottenuto informazioni tramite rogatorie internazionali in Svizzera e in Lussemburgo. L’analisi ha permesso di mappare una rete di trust e società estere che gestivano capitali e beni della famiglia. Le contestazioni fiscali hanno portato a un confronto serrato con l’Agenzia delle Entrate. Nel 2024, gli Elkann hanno versato 183 milioni di euro, somma comprensiva di imposte evase, interessi e sanzioni. Il pagamento ha estinto la posizione tributaria, ma ha lasciato aperto il fascicolo penale, oggi avviato verso la definizione con la messa alla prova. I pm hanno qualificato la condotta come “truffa aggravata ai danni dello Stato”, sottolineando come la residenza svizzera di Marella fosse priva di effettivi legami di vita. Le prove raccolte – contratti, utenze, presenze effettive – indicherebbero che la vedova Agnelli trascorreva la maggior parte del tempo in Italia. Oltre a John Elkann, erano indagati anche i fratelli Lapo e Ginevra, nonché il notaio svizzero Henry Peter von Grünigen, che aveva curato parte delle pratiche ereditarie. Per tutti la Procura ha chiesto l’archiviazione, ritenendo che le condotte non integrassero responsabilità penale diretta. Diverso l’esito per Gianluca Ferrero, commercialista torinese e attuale presidente della Juventus, che ha concordato un patteggiamento.

Il procedimento penale si intreccia con il lungo contenzioso civile avviato da Margherita Agnelli, madre di John, Lapo e Ginevra. Margherita contesta il patto successorio del 2004, stipulato in Svizzera, che l’ha esclusa da asset fondamentali della famiglia, tra cui quote di Exor e beni patrimoniali di grande valore. Le sue azioni legali mirano a ottenere la nullità di quegli accordi, sostenendo che fossero lesivi dei suoi diritti ereditari. Le cause sono tuttora pendenti sia in Italia sia in Svizzera. In questo contesto, la decisione della Procura di concedere la messa alla prova a John Elkann definisce il fronte penale, ma lascia aperto quello civile, destinato a proseguire per anni nei tribunali. Per i legali di Margherita Agnelli aver chiesto la messa alla prova è una conferma della condotta illecita di John Elkann, mentre per l’avvocato del presidente di Stellantis, Paolo Siniscalchi, «non comporta alcuna ammissione di responsabilità». Per John Elkann, la prospettiva è chiara: dieci mesi di attività sociali a Torino, controllate dai servizi sociali e certificate dai responsabili della struttura su cui ricadrà la scelta. Va rilevato che, qualora la messa alla prova si svolgesse presso una struttura salesiana, come suggerito in queste ore dai media, esistono rapporti consolidati e un vero e proprio legame storico e collaborativo tra i Salesiani e la famiglia Agnelli: l’Istituto Edoardo Agnelli di Torino, in particolare, ha beneficiato nel tempo di contributi e finanziamenti riconducibili alla Fondazione Agnelli. Nel caso, invece, della Scuola Media Salesiana “Don Bosco” di Valdocco, situata proprio accanto al Santuario di Maria Ausiliatrice, di cui è stato fatto il nome, non risultano evidenze di finanziamenti diretti, pur essendo documentate collaborazioni e iniziative condivise. L’eventuale svolgimento della messa alla prova proprio in una struttura sostenuta economicamente dalla famiglia Agnelli solleverebbe evidenti profili di conflitto di interessi, sebbene al momento si tratti solo di speculazioni dei media: manca ancora il piano preciso e nessuna istituzione salesiana ha confermato di aver preso accordi. Parallelamente, la battaglia civile con la madre continuerà a svilupparsi su un terreno distinto, ma inevitabilmente collegato a una vicenda che ha già segnato la storia giudiziaria ed economica della più nota dinastia industriale italiana.

Attacco in Qatar, Hamas: uccisi 5 funzionari, squadra negoziale illesa

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I media ufficiali di Hamas hanno rilasciato il bilancio degli attacchi israeliani condotti ieri in Qatar contro la propria delegazione diplomatica: Israele avrebbe ucciso cinque funzionari, tra cui il capo ufficio e il figlio di Khalil Al-Hayya e tre funzionari minori. Khalil Al-Hayya è un membro della squadra negoziale ed era uno dei principali obiettivi dell’attacco; sia lui che il resto dei membri della squadra sono sopravvissuti all’aggressione. Ucciso anche un membro delle Forze di sicurezza interna del Qatar. Nel frattempo il presidente degli USA Trump ha affermato che era a conoscenza dell’attacco, che tuttavia sarebbe stato organizzato e condotto solo da Israele; Trump aveva avvisato anche il Qatar dell’operazione.

Droni violano lo spazio aereo polacco: 10 abbattuti, l’UE accusa la Russia

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Il primo ministro polacco Donald Tusk ha annunciato che l’esercito del Paese ha abbattuto una decina droni che avevano invaso lo spazio aereo nazionale, sostenendo fossero russi. Tusk ha definito il sorvolamento dei droni «un atto di aggressione» da parte di Mosca, annunciando che le ricerche dei detriti erano in corso; da parte del Cremlino, non è ancora arrivato nessun commento. Dopo l’annuncio di Tusk, il Paese ha chiuso il proprio spazio aereo e interrotto i voli in tutti gli aeroporti. Dalle basi militari sono partiti diversi aerei per monitorare la situazione, tra cui figurano anche aerei da ricognizione italiani Awacs. L’UE ha subito fatto fronte comune con la Polonia, condannando l’invasione dello spazio aereo nazionale sostenendo con certezza granitica che dietro ai fatti ci fosse la Russia; una certezza che tuttavia vacilla quando si tratta di violazioni attribuibili con lo stesso grado di sicurezza a Israele, come nel caso dei due attacchi con droni incendiari alle imbarcazioni della Global Sumud Flotilla, su cui le autorità comunitarie non hanno ancora speso una parola.

La Polonia ha registrato la violazione del proprio spazio aereo nella notte tra ieri e oggi, mercoledì 10 settembre. Secondo le informazioni provenienti da fonti polacche, le uniche in questo momento disponibili, l’esercito avrebbe rilevato tra i dieci e venti droni non identificati, e avrebbe così deciso di abbatterli. Alcune indiscrezioni riportano che anche i sistemi di difesa NATO sarebbero stati impiegati nelle operazioni di difesa. Dopo il loro abbattimento, sono iniziate le operazioni di ricerca, e prima ancora che venisse trovato qualcosa, Tusk ha accusato la Russia di avere «aggredito» il Paese. L’accusa di Tusk arriva sulla base di precedenti analoghi, in cui la Polonia ha accusato la Russia di essere transitata dal proprio spazio aereo per condurre attacchi contro l’Ucraina, o di avere mobilitato droni poi schiantatisi in territorio polacco. Quella di oggi, tuttavia, è la prima volta in cui Varsavia abbatte tali velivoli.

Dopo l’annuncio di Tusk, la polizia polacca avrebbe trovato uno dei droni, che si sarebbe abbattuto su un edificio residenziale nel villaggio di Wyryky. Il premier, intanto, ha una convocato una riunione del gabinetto di sicurezza e sembra avere analogamente chiesto consultazioni con gli alleati della NATO. Dall’UE, l’Alta Rappresentante per gli Affari Esteri comunitaria Kaja Kallas ha fatto eco alle parole di Tusk, definendo il rilevamento di droni da parte dell’esercito polacco «la più grave violazione dello spazio aereo europeo da parte della Russia dall’inizio della guerra in Ucraina», che secondo non precisate informazioni sarebbe stata «intenzionale, e non accidentale».

Sardegna, attacco incendiario contro il parco fotovoltaico: 5mila pannelli distrutti

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Nelle campagne di Viddalba, Comune di circa 1500 abitanti nella provincia di Sassari, sono stati dati alle fiamme cinquemila pannelli fotovoltaici, in un atto che le autorità hanno immediatamente identificato come doloso. I vigili del fuoco hanno impiegato alcune ore a spegnere l’incendio, che si è sviluppato in località Li Patini, nel parco energetico in costruzione della ditta locale Avru srl. Da tempo in Sardegna la popolazione insorge contro quella che è definita come “speculazione energetica”, ovvero l’assalto ai territori da parte delle aziende dell’eolico e del fotovoltaico per produrre energia che poi verrà in gran parte destinata al consumo del resto dell’Italia e all’estero.

Secondo quanto riferiscono i media locali, le telecamere di sorveglianza avrebbero inquadrato due soggetti che, dopo essere scesi da una macchina, avrebbero appiccato il fuoco in tre punti diversi del parco, dando alle fiamme anche un muletto. Se la natura dolosa dell’episodio fosse confermata, non si tratterebbe certo di un episodio singolo e isolato. Sono numerosi, infatti, gli atti di sabotaggio contro le infrastrutture energetiche installate di recente o in costruzione in tutta la Sardegna, dagli attacchi incendiari alla manomissione delle pale eoliche. Parallelamente, sono state decine le manifestazioni in tutta la Regione nell’ultimo anno e mezzo, con i cittadini che hanno organizzato marce, cortei, presidi e istituito numerosi comitati locali per chiedere alle istituzioni di fermare «l’assalto» al territorio. Durante le proteste, i comitati hanno in più occasioni lamentato l’assenza di un piano regolatore dei nuovi progetti che fermi l’apertura di nuovi cantieri e ribadito di non essere contrari all’energia rinnovabile, ma al fatto che spesso i nuovi progetti, anzichè sorgere in zone già cementificate o vecchie aree industriali, devastano il paesaggio e l’ambiente.

Le azioni si inseriscono in un contesto di generica opposizione di movimenti e cittadini contro la speculazione energetica, ovvero l’installazione di impianti rinnovabili per produrre energia in quantità superiore a quello che sarebbe il fabbisogno dell’isola. Lo scorso anno, i cittadini hanno raccolto in soli tre mesi oltre 200 mila firme (un numero incredibilmente alto per una Regione che conta 1,6 milioni di abitanti in tutto) per la proposta di legge di iniziativa popolare Pratobello 24, volta a «bloccare in maniera chiara e stabile la speculazione energetica». Tuttavia, nonostante il forte appoggio dal basso, la proposta si trova ancora ferma in Consiglio Regionale. Nel frattempo, la Regione ha però respinto il referendum di iniziativa popolare riguardante l’installazione di impianti di energia rinnovabile sul territorio e in mare, che aveva raccolto oltre 19 mila firme e chiedeva ai cittadini di esprimersi riguardo alla modificazione del paesaggio sardo mediante l’installazione di impianti eolici e fotovoltaici. Nonostante la fortissima opposizione dal basso, tuttavia, in tutta l’isola si moltiplicano i nuovi progetti.

L’assessore all’Ambiente di Viddalba, Piermario Careddu, ha definito l’accaduto un «atto ignobile» portato a termine contro una ditta locale. Analoghe le dichiarazioni dell’assessore all’Industria della Regione, Emanuele Cani, che ha espresso «forte preoccupazione» per l’accaduto.