domenica 6 Luglio 2025
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Ascoli Piceno, fornaia identificata per aver esposto uno striscione antifascista

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A raccontare tutto è la stessa titolare della panetteria tramite i propri social: Lorenza Roiati, titolare del panificio Assalto ai Forni, è stata identificata dalle forze dell’ordine per aver esposto uno striscione antifascista in occasione delle celebrazioni del 25 aprile, recante la scritta «25 aprile buono come il pane, bello come l’antifascismo». Secondo quanto da lei stessa dichiarato, gli agenti si sono presentati due volte all’ingresso dell’attività per chiederle se «c’entrasse qualcosa con l’affissione» e se si «assumesse la responsabilità» di quanto scritto sopra. La notizia si è diffusa rapidamente tanto che è stata già annunciata un’interrogazione in Parlamento dai deputati di AVS: «Non è un Paese sicuro quello in cui a venire identificati sono gli antifascisti» ha dichiarato Ilaria Cucchi.

L’intervento delle forze dell’ordine è stato filmato per intero da Roiati, la cui attività è molto conosciuta anche al di fuori di Ascoli Piceno. Un uomo identificatosi come commissario della polizia locale si presenta in panetteria insieme ad altri due agenti, tutti in borghese, interrogando la titolare sul contenuto dello striscione. Una volta confermato che fosse lei l’autrice, le sono stati chiesti i documenti d’identità. Roiati sottolinea allora che si tratta già del secondo intervento di quel genere avvenuto nel giro di poco: «è stato già fatto un accertamento da parte della polizia che si è fermata e ha avuto una telefonata di circa 10 minuti con i superiori, in cui è stato raccontato il contenuto incredibile di questo manifesto, profondamente sovversivo» sottolinea, con ironia. Quando il commissario insiste per avere le generalità, risponde «Lorenza Roiati, nipote di partigiani». Alla domanda in merito a quali fossero le violazioni riscontrate, l’agente ha risposto che verranno fatti «gli accertamenti d’ufficio che ci competono» e «se ci sarà qualche contestazione», questa arriverà in un secondo momento.

I fatti sono avvenuti nel pieno dei festeggiamenti di un 25 aprile già ampiamente segnato dalle polemiche, dopo l’invito del governo a celebrazioni «sobrie» per via della morte di Papa Francesco, i cui funerali si sono celebrati stamattina. Molti Comuni hanno cancellato le celebrazioni, anche se, in molti casi, i divieti imposti (come quello di cantare Bella Ciao) sono stati disattesi dalla cittadinanza. La deputata di AVS Ilaria Cucchi ha annunciato un’interrogazione in Parlamento in merito a quanto avvenuto ad Ascoli, mentre messaggi di sostegno sono giunti da buona parte dei gruppi di opposizione.

Wisconsin, giudice arrestata con l’accusa di aver protetto immigrato irregolare

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A Milwaukee, nello Stato del Wisconsin, la giudice Hannah Dugan è stata arrestata con l’accusa di aver ostacolato l’applicazione delle leggi sull’immigrazione, dopo aver permesso a un uomo senza documenti di fuggire dall’aula attraverso l’uscita riservata ai giurati. È il primo caso di arresto di un giudice da quando l’amministrazione Trump ha inasprito le politiche migratorie. Dugan è stata rilasciata dopo un’udienza preliminare. L’episodio ha scatenato proteste e riacceso il dibattito sugli arresti federali nei tribunali statali, che molti giudici ritengono danneggino la fiducia nel sistema giudiziario.

Dl Sicurezza, anche i magistrati contestano la legittimità costituzionale

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Non sono più soltanto gli avvocati di persone alla sbarra a esprimere dubbi in merito alla costituzionalità del Decreto Sicurezza approvato dal governo Meloni. Per la prima volta, infatti, anche un organo dello Stato – nello specifico la Procura di Foggia – ha deciso di sollevare davanti al Tribunale della città pugliese una questione di legittimità costituzionale concernente due nuove aggravanti introdotte dal testo. Si tratta, nello specifico, di quelle previste per la consumazione di un reato in prossimità di una stazione ferroviaria e per aver opposto violenza a pubblici ufficiali durante l’esercizio delle loro funzioni, che vengono considerate dai pm in contrasto con i principi fondamentali della Costituzione italiana.

Il caso di specie riguarda un procedimento penale in cui una serie di imputati sono accusati di resistenza a pubblico ufficiale e lesioni personali nei confronti di agenti della polizia ferroviaria in servizio presso la stazione di Foggia. Secondo il parere della Procura, però, le aggravanti delineate dall’art. 61 n. 11 decies c.p. e dall’art. 337 co. 3 c.p., introdotte dal nuovo decreto – approvato in fretta e furia dal governo a inizio aprile dopo che il testo si era incagliato in Parlamento -, sollevano «seri dubbi di compatibilità» con gli articoli 3, 25, 27 e 77 della Carta costituzionale. I pm ritengono infatti che le norme in esame non rispondano ai requisiti di ragionevolezza e di coerenza, creando al contrario una disparità di trattamento per fatti analoghi. I magistrati puntano il dito anche sul metodo, sostenendo che l’introduzione di tali aggravanti tramite decreto-legge – riservato a casi di “straordinaria necessità e urgenza” – sarebbe ingiustificata, anche per il lungo iter parlamentare precedente all’approvazione del testo da parte dell’esecutivo. Essa avrebbe, secondo i magistrati, compresso le prerogative del Parlamento nel percorso di definizione delle scelte di criminalizzazione, così come – a causa dell’assenza di un consono periodo di vacatio legis – la conoscibilità delle norme da parte dei cittadini. La decisione del giudice è attesa nel mese di giugno.

Nel frattempo, la scorsa settimana, a sollevare la questione di costituzionalità del DL Sicurezza sono stati anche due avvocati. In occasione di un processo per direttissima, i legali Eugenio Losco e Mauro Straini hanno infatti chiesto al Tribunale di Milano di rinviare alla Consulta il testo. Il procedimento vede imputato un ragazzo che non si è fermato a un posto di blocco, per poi avere una discussione con le forze dell’ordine. Il reato contestatogli è quello di resistenza a pubblico ufficiale, aggravata dalla fattispecie inserita nella norma. Anche in questo caso, gli avvocati contestano che al decreto manchino le ragioni di “necessaria e straordinaria urgenza” che dovrebbero contraddistinguere i Decreti Legge. In passato, la Consulta aveva considerato costituzionalmente illegittimo un DL proprio perché mancava di tali criteri. La giudice del Tribunale di Milano dovrà ora esaminare la richiesta dei legali e sarà chiamata a sciogliere la riserva il prossimo 26 maggio, per poi eventualmente passare la palla alla Corte Costituzionale.

Dopo mesi di proteste da parte delle opposizioni e della società civile, con un colpo di mano in Consiglio dei Ministri il governo Meloni aveva approvato il “Pacchetto Sicurezza”, trasformato in un decreto legge e dunque sin da subito applicabile, lo scorso 4 aprile. Il provvedimento, rispetto alla versione al vaglio delle Camere, era stato ridimensionato dopo i rilievi avanzati dal Capo dello Stato circa la smaccata incostituzionalità di una serie di punti. Sono però rimaste intatte molte misure-bandiera della maggioranza, tra cui il carcere fino a due anni per i blocchi stradali, il divieto di vendita e consumo di cannabis “light”, il nuovo reato contro le occupazioni abusive, l’aumento del tetto al rimborso delle spese legali per i membri delle forze dell’ordine che affrontano il processo e la possibile autorizzazione agli appartenenti ai servizi segreti a partecipare e dirigere associazioni terroristiche o mafiose.

Roma, attesi 250mila per funerali Papa: presenti diversi leader internazionali

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Inizieranno questa mattina alle 10 i funerali di Papa Francesco nella Basilica di San Pietro, per i quali sono attesi oltre 250mila fedeli. Alle esequie saranno presenti 182 delegazioni, di cui 50 capi di Stato e 10 sovrani. Le misure di sicurezza sono altissime. A Roma è sbarcato ieri con la moglie Melania anche il presidente USA Trump, il quale ha dichiarato che incontrerà “molte persone”, tra cui Giorgia Meloni, nella cornice di incontri “un po’ rapidi”, per poi ripartire per gli Stati Uniti subito dopo le esequie. Concluso il funerale, il feretro del Papa sarà trasportato alla Basilica di Santa Maria Maggiore, dove si terrà la tumulazione in forma privata.

Si infiamma la tensione tra India e Pakistan: scontri a fuoco tra i militari al confine

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Negli ultimi tre giorni, la tensione tra Pakistan e India è aumentata vertiginosamente. Tutto è iniziato dopo un attentato verificatosi nella porzione indiana del Kashmir, nel quale sono state uccise 26 persone, per lo più cittadini indiani. Dopo l’attentato, che i media stanno definendo uno dei peggiori attacchi contro civili nella storia dell’India, Nuova Delhi ha puntato il dito contro il Pakistan, accusandolo di essere dietro il gruppo islamista che ha rivendicato gli attacchi. Ha dunque varato diverse misure contro il vicino e storico rivale, interrompendo le relazioni diplomatiche, sospendendo un cruciale trattato sullo sfruttamento delle acque e ordinando ai cittadini pakistani di lasciare il Paese entro la fine di aprile. Il Pakistan non è stato a guardare e ha risposto con misure analoghe, in un’escalation di tensioni diplomatiche che ha portato, nella notte, ai primi scontri lungo il confine. Le relazioni tra India e Pakistan, entrambe potenze nucleari, sono tese da anni, e proprio il Kashmir è una regione che i due Paesi si contendono sin dalla loro nascita, tanto da avervi combattuto tre guerre.

Le recenti tensioni diplomatiche e militari

Il fiume Indo

La tensione tra Pakistan e India ha iniziato a crescere a partire dalla sera di mercoledì 23 aprile, quando Nuova Delhi ha accusato Islamabad di essere coinvolta nell’attentato verificatosi nel Kashmir (in India formalmente denominato “Jammu e Kashmir”). L’India ha parlato di presunti legami tra l’attacco di martedì e il «terrorismo transnazionale». Come prima mossa di ritorsione, il governo indiano ha espulso due diplomatici pakistani dichiarandoli persone non grate, e ha chiuso il confine di Wagah – la principale frontiera tra i due Paesi – impedendo ai pakistani di entrare in India. Successivamente, è giunta la decisione di sospendere il Trattato sulle acque dell’Indo del 1960. Con esso, India e Pakistan si spartirono il controllo delle acque provenienti dall’Indo, che sorge in territorio indiano. Il trattato garantisce al Pakistan il controllo sulle acque occidentali del fiume e all’India quello sulle acque orientali, imponendole inoltre limitazioni nello sfruttamento delle acque di competenza pakistana. Il Pakistan dipende significativamente dalle acque provenienti dall’Indo, il che implica che, se con la sospensione del trattato l’India decidesse di bloccare o deviare il flusso d’acqua, causerebbe un grave impatto sui settori agricolo ed energetico di Islamabad.

La sospensione del trattato sulle acque ha causato un forte sollevamento popolare in Pakistan. Ieri i cittadini pakistani sono scesi in piazza a Faisalabad, Gujranwala, Gujrat, Lahore, Peshawar, Rawalpindi e in altre città del Paese. Tra proteste cittadine, accuse e tensioni diplomatiche, il Pakistan ha così deciso di rispondere all’India: ha chiuso anch’esso il confine con il Paese, ha sospeso i permessi di soggiorno ai cittadini indiani, ha ridotto il numero di diplomatici indiani a Islamabad, ha impedito alle compagnie indiane di attraversare lo spazio aereo del Paese e ha sospeso i vari accordi bilaterali con l’India, chiudendo inoltre le rotte commerciali. Nuova Delhi, a quel punto, ha risposto alla ritorsione pakistana ordinando a tutti i cittadini pakistani di lasciare il Paese entro il 29 aprile.

Alle tensioni diplomatiche sono seguite quelle militari. Nella serata di ieri, i media hanno infatti riportato che un soldato indiano avrebbe attraversato il confine e sarebbe stato catturato e detenuto dalle forze pakistane; sul web girano le foto di tale soldato, legato e imbavagliato, ma non è possibile verificarne la fonte. Nella notte, invece, si sono verificati i primi scontri sulla Linea di Controllo che separa i due Paesi. Fonti dell’esercito indiano hanno riferito ad Al Jazeera che la sparatoria è stata avviata dalla parte pakistana. Anche un funzionario governativo della porzione di Kashmir amministrata dal Pakistan, Syed Ashfaq Gilani, ha confermato a France 24  che c’è stato uno scontro a fuoco tra le truppe, ma non ha specificato chi abbia dato inizio allo scontro. In ogni caso, non sembra che la sparatoria abbia coinvolto i civili.

Le origini dei dissidi tra India e Pakistan

Il premier indiano, Narendra Modi

Da mercoledì, insomma, la situazione tra India e Pakistan è rapidamente degenerata, e arrivano costanti aggiornamenti su misure di natura diplomatica e tafferugli. I rapporti tra i due Paesi non sono mai stati dei migliori, tanto che per comprendere l’origine dei loro dissidi si dovrebbe risalire alla loro stessa nascita, avvenuta con la dissoluzione dei domini britannici nel 1947. La partizione venne effettuata su base religiosa con l’intento di separare induisti e musulmani, costringendo lo spostamento forzato di milioni di cittadini. I confini stabiliti non piacquero a nessuna delle parti, e in quello stesso anno ebbe luogo la prima guerra indo-pakistana. Essa costrinse il Maharaja del Kashmir, incerto su quale dei due Stati affiliarsi, a chiedere aiuto all’India e a federarsi a essa. Gli scontri si fermarono nel 1949, quando l’ONU divise l’area kashmira, affidando i due terzi orientali all’India e il restante terzo occidentale al Pakistan, scontentando di fatto entrambe le parti. Dopo un breve coinvolgimento della Cina, nel 1965 scoppiò la seconda guerra indo-pakistana, a cui nel 1971 seguì un terzo conflitto, che coincise con la guerra di liberazione bengalese. Alla fine di esso fu siglato l’accordo di Simla, col quale si consolidarono i confini già abbozzati nel 1949, e la Linea di controllo si affermò come tratto di demarcazione tra i due Stati.

Al centro di tutte e tre le guerre fu proprio la regione del Kashmir, che risulta ancora contesa. La Linea di controllo, infatti, non costituisce un vero e proprio confine internazionale riconosciuto, e lascia aperte le rivendicazioni unilaterali. Nel corso degli anni, l’area kashmira fu oggetto di numerosi altri scontri (interni ed esterni), che tuttavia non sono mai degenerati al punto da causare una quarta guerra indo-pakistana. La situazione apparentemente statica è tuttavia andata peggiorando nel corso degli anni, perché il Pakistan ha continuato a rivendicare il diritto sul Kashmir, e la stessa popolazione kashmira ha sviluppato sempre più un sentimento di indipendenza. Il senso di identità della popolazione del Jammu e Kashmir è avvalorato da una serie di articoli della costituzione indiana che furono oggetto di revisione nel 2019, e che fornivano una sostanziale autonomia amministrativa alla regione. Prima dell’avvento dell’attuale premier indiano, Narendra Modi, infatti, il Kashmir era dotato di una costituzione propria, garantita dall’articolo 370 della costituzione indiana, che forniva alla regione la totale libertà di delibera su qualsiasi materia, esclusi gli affari esteri, la difesa e le comunicazioni; l’articolo 370 era poi accompagnato dall’articolo 35A, che impediva la possibilità di acquistare terreni a chi non fosse del Kashmir. Tali articoli sono stati cancellati nella revisione del 2019, confermata dalla Corte Suprema nel dicembre del 2023.

Alla delicata situazione nel Kashmir e alla contestata partizione del 1947 si aggiungono i dissidi relativi alla gestione delle acque, questioni di politica interna ed elementi di divisione di natura religiosa. L’India è infatti a maggioranza indù (a eccezione dello stesso Jammu e Kashmir), mentre il Pakistan è prevalentemente musulmano. Con l’avvento di Modi, che porta avanti un ampio progetto nazionalista volto a trasformare l’India in uno Stato indù, la questione religiosa è diventata ancora più centrale, a causa delle politiche repressive del premier indiano nei confronti dei cittadini di religione islamica. In generale, poi, i due Paesi si sono spesso reciprocamente accusati di finanziare gruppi ribelli e terroristici per destabilizzare i governi centrali, proprio come accaduto ultimamente nel caso degli attentati nel Jammu e Kashmir.

25 aprile, cortei in tutta Italia: 90 mila a Milano, scontri a Bergamo e altre città

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Sarebbero almeno 90 mila le persone che hanno preso parte oggi al corteo per la Liberazione a Milano, secondo quanto dichiarato dall’ANPI. «È stata una manifestazione unitaria, partecipata, pacifica e antifascista» ha dichiarato alla stampa il presidente Primo Minelli. A Roma, secondo le forze dell’ordine, sarebbero state 2 mila le persone presenti al corteo. A Bergamo sono stati registrati scontri tra le forze dell’ordine e gli attivisti pro-Palestina, così come a Trieste, mentre a Torino si sono verificati tafferugli tra polizia e manifestanti alla fiaccolata di giovedì sera. La maggior parte degli eventi in tutta Italia si è comunque svolta in maniera pacifica, con molti manifestanti che hanno disatteso i divieti imposti dai Comuni – come quello a cantare “Bella Ciao”.

La Spagna annulla un contratto di forniture militari con Israele

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Il presidente del governo spagnolo Pedro Sanchez ha annullato un contratto di forniture militari con un’azienda israeliana firmato dal ministero dell’Interno, in contraddizione con la linea politica tenuta dal governo di Madrid, molto critica sulla campagna militare israeliana a Gaza. La questione, insieme alla recente polemica sull’aumento delle spese militari, ha suscitato aspre tensioni all’interno della maggioranza e ha richiesto l’intervento diretto del presidente dell’esecutivo per risolvere la crisi e rescindere unilateralmente il contratto. Nello specifico, il ministero dell’Interno aveva formalizzato un contratto da 6,6 milioni di euro per acquistare 15,3 milioni di proiettili per la Guardia Civil spagnola da Imi Systems, azienda israeliana attiva nella produzione di armamenti. Il contratto, firmato in un periodo di festività, è stato definito dalla coalizione di sinistra Sumar – parte del governo Sanchez – come una manovra «unilaterale» del Partito socialista operaio spagnolo (Psoe). La rescissione del contratto, concordata dalla Presidenza, sotto la guida di Félix Bolaños, è stata particolarmente significativa se si considera che l’accordo era già stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dello Stato giovedì 24 aprile.

L’intervento di Sanchez è stato necessario non solo per stemperare le crescenti tensioni politiche e le pressioni mediatiche, ma anche per salvaguardare la coerenza dell’azione di governo, uno dei pochi in Europa a riconoscere lo Stato di Palestina e ad aver condannato con fermezza le azioni del governo israeliano a Gaza. Lo Stato iberico, inoltre, ha dichiarato di aver sospeso la compravendita di armi con Israele in solidarietà alla Palestina dall’inizio della campagna militare israeliana, ma secondo quanto emerge da uno studio del Centre for Peace Research, in realtà Madrid avrebbe assegnato 46 contratti all’industria militare israeliana per un valore complessivo di 1.044.58,555 euro dal 7 ottobre 2023. Yolanda Díaz, ministra del Lavoro e capo di Sumar, nonché seconda vicepresidente, ha descritto l’accordo siglato furtivamente dal ministero dell’Interno come «una flagrante violazione» del diritto e del commercio internazionale, soprattutto nel contesto di quello che ha definito «un vero e proprio genocidio a Gaza». La stessa aveva anche negato che fosse in corso una crisi di governo, dichiarando che erano «concentrati sull’annullamento di un contratto che non sarebbe mai dovuto esistere». Particolarmente dura la reazione del coordinatore federale di Sinistra Unita (uno dei principali partiti aderenti a Sumar), Antonio Maíllo, il quale ha denunciato l’operazione come «un atto di irresponsabilità politica» e ha accusato il Psoe di agire in modo unilaterale chiedendo perfino le dimissioni del ministro dell’Interno Fernando Grande-Marlaska se non fosse stata trovata una soluzione. Da parte sua, il Partito Popolare, che guida l’opposizione parlamentare, ha dichiarato oggi che denuncerà la decisione del governo di rescindere il contratto alla Corte dei conti.

Sul piano giuridico legale, fonti governative hanno riferito al quotidiano “El Pais” che l’Avvocatura dello Stato, insieme ai ministeri competenti, starebbe analizzando le possibili contromosse legali da parte di Imi Systems, che potrebbe richiedere un risarcimento pari all’importo totale del contratto, a causa dell’avanzata fase della procedura dello stesso. Sul piano politico internazionale, invece, la Spagna è uno dei pochi Paesi che sta mantenendo un’indipendenza riguardo alla crisi israelo-palestinese e all’aumento delle spese militari richieste dalla NATO. Tuttavia, proprio l’attuale vicenda di rescissione di un contratto con un’azienda israeliana e la polemica sull’aumento delle spese per la difesa stanno mettendo alla prova l’unità del governo Sanchez, evidenziandone le fragilità interne. Proprio questa settimana, il capo del governo spagnolo ha fatto marcia indietro sul proposito di raggiungere il target NATO di destinare il 2% del PIL alle spese militari entro il 2029, anticipandolo, invece, all’anno in corso. Cosa che ha indotto i partiti che compongono il Sumar a convocare una riunione di emergenza per analizzare la situazione. Allo stesso tempo però l’esecutivo spagnolo ha mostrato anche la capacità di risolvere le fratture interne evitando crisi politiche più gravi: dopo la rescissione del contratto con Imi Systems, infatti, fonti governative hanno escluso una rottura con Sumar e hanno fatto appello al «rispetto reciproco» all’interno del governo, riconoscendo la necessità di «comprendere le diverse sensibilità». Il Palazzo della Moncloa ha sottolineato che sia il Psoe che il Sumar sono “fermamente impegnati nella causa palestinese e nella pace in Medio Oriente”.

Autobomba in Russia: ucciso un ufficiale militare

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Un’esplosione di un’auto nella città di Balashikha, vicino a Mosca, ha ucciso Yaroslav Moskalik, Vice Capo della Direzione Generale delle Operazioni dello Stato Maggiore delle Forze Armate russe. A dare la notizia è la portavoce del Comitato Investigativo Russo Svetlana Petrenko, ripresa dall’agenzia di stampa governativa russa TASS. L’esplosione, si legge nel comunicato, è stata causata da un «ordigno improvvisato». Il Comitato Investigativo Russo ha avviato un procedimento penale sull’incidente.

WEF, Schwab indagato si dimette: subentra l’ex CEO di Nestlé che voleva privatizzare l’acqua

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«Con l’ingresso nel mio 88esimo anno, ho deciso di dimettermi dalla carica di presidente e di membro del Consiglio di amministrazione, con effetto immediato». È la fine di un’era. Klaus Schwab, fondatore e presidente esecutivo del World Economic Forum, ha annunciato ufficialmente le sue dimissioni, con effetto immediato. Al suo posto subentrerà Peter Brabeck-Letmathe, ex direttore di Nestlé, famoso per aver sostenuto che l’acqua non sia un bene pubblico, ma che vada privatizzata. La decisione di Schwab è stata comunicata al Consiglio di fondazione nel corso di una riunione straordinaria e resa pubblica attraverso una nota ufficiale del WEF. Una mossa simbolica, certo, ma anche altamente strategica, dopo l’ennesimo scandalo che sta travolgendo in questi giorni il Forum di Davos.

L’uscita di scena del Grande Vecchio avviene, infatti, nella polvere sollevata da ben due inchieste. Lo scorso anno, infatti, il Wall Street Journal aveva svelato casi di discriminazione, mobbing e abusi. Sotto la supervisione decennale di Schwab, il Forum avrebbe fatto proliferare un ambiente di lavoro tossico, ostile alle donne e alle persone afroamericane. Dopo aver risposto a una richiesta di commento da parte del Wall Street Journal, Schwab aveva deciso di lasciare la presidenza del World Economic Forum restando solo nel board.

Le indagini in corso

Ora si scopre che il World Economic Forum ha aperto un’indagine formale su Schwab, dopo aver ricevuto una lettera anonima contenente gravi accuse di natura finanziaria ed etica a carico suo e della moglie, Hilde. Il documento, inviato la scorsa settimana al Consiglio di amministrazione del Forum, denuncia un uso improprio delle risorse dell’organizzazione e una governance opaca. Le accuse parlano di prelievi di contante effettuati da dipendenti su richiesta diretta di Schwab, utilizzo di fondi del Forum per massaggi privati in hotel e viaggi di lusso camuffati da missioni ufficiali da parte della moglie. In particolare, Hilde Schwab, ex dipendente del Forum, avrebbe organizzato riunioni di facciata per giustificare viaggi personali spesati con fondi dell’organizzazione.

Schwab ha inizialmente tentato di derubricare le accuse, definendole infondate e annunciando l’intenzione di querelare gli autori della lettera e chiunque contribuisca a diffondere queste informazioni. Tuttavia, dopo una riunione straordinaria del consiglio tenutasi a Pasqua, ha deciso di rassegnare le dimissioni con effetto immediato dalla carica di presidente.

Alla notizia delle sue dimissioni, sui social qualcuno ha festeggiato: il “pifferaio di Davos” si ritira, e con lui – sperano in molti – anche il discusso progetto del Great Reset, lanciato nel 2020 nel pieno della pandemia. Con il Grande Reset, ci troviamo dinanzi a un progetto che aspira a traghettare la popolazione globale verso una “rinascita”, attraverso l’istituzione di un “nuovo ordine” tecnologico, automatizzato, “green”, in cui nessuno avrà privacy né possiederà nulla, ma sarà “felice” (citando Ida Auken). Uno scenario distopico che prevede la creazione di una “algocrazia” in cui ogni aspetto della nostra vita rischierà di essere predisposto, controllato, automatizzato e sorvegliato da un occhio ben più crudele e spietato di quello del Grande Fratello orwelliano.

La chiusura di un capitolo?

Il World Economic Forum è molto più di Schwab. È una rete globale di potere che intreccia multinazionali, banche centrali, governi, fondazioni, università e media. Il suo obiettivo? Riprogettare la governance mondiale, superando i modelli basati sulla piccola e media impresa nazionale. Una visione tecnocratica, pianificata, centralizzata che strizza l’occhio alla tesi del saggio commissionato dalla Trilaterale, La crisi della democrazia, e mira ad automatizzare la società e ad avviare quella quarta rivoluzione industriale tanto cara proprio a Schwab. Su questo, il fondatore del WEF è molto chiaro nel descrivere nel suo La quarta rivoluzione industriale uno stravolgimento globale della nostra società in una direzione post-umana che «combina diverse tecnologie, dando luogo a cambi di paradigma senza precedenti».

In foto: Il neo-presidente ad interim del World Economic Forum ed ex presidente e amministratore delegato del gruppo Nestlé, Peter Brabeck-Letmathe

A succedere a Schwab, ad interim, è un nome non meno controverso: Peter Brabeck-Letmathe, già presidente della Nestlé. Austriaco, classe 1944, è noto per le sue posizioni radicali sull’ambiente, la tecnologia e i diritti fondamentali. Tra queste, una delle più discusse: l’idea che l’acqua non sia un diritto umano, ma un bene da pagare. Nel documentario del 2005 We Feed the World, parlando di acqua, ha affermato: «La questione è se privatizzare la normale fornitura idrica per la popolazione. E ci sono due opinioni diverse sulla questione. Un’opinione, che ritengo estrema, è rappresentata dalle ONG, che insistono nel dichiarare l’acqua un diritto pubblico. Ciò significa che, in quanto essere umano, dovresti avere diritto all’acqua. Questa è una soluzione estrema. L’altra visione sostiene che l’acqua è un alimento come qualsiasi altro e, come qualsiasi altro alimento, dovrebbe avere un valore di mercato». Ha poi aggiunto: «Personalmente, credo sia meglio dare un valore a un alimento in modo che tutti siano consapevoli del suo prezzo, e poi adottare misure specifiche per la parte della popolazione che non ha accesso a quest’acqua». Un punto di vista coerente con gli interessi di Nestlé, che controlla brand come Sanpellegrino, Vera e Panna. Ma anche una visione che suscita allarme: l’idea che l’accesso a un bene essenziale come l’acqua possa diventare oggetto di speculazione finanziaria.

A seguito delle polemiche scaturite per le sue dichiarazioni, Brabeck-Letmathe si è giustificato dichiarando di credere che l’acqua sia effettivamente un diritto umano e che le sue parole erano state estrapolate dal contesto del documentario.

Non è tutto: Brabeck è un supporter della quarta rivoluzione industriale, investitore in Moderna, sostenitore degli OGM e direttore della GESDA, un ente svizzero che promuove tecnologie emergenti come l’mRNA per “il progresso dell’umanità”.

Insomma, cambia il volto, ma non la direzione. Il WEF si conferma una delle centrali di pensiero e influenza più potenti del mondo, con un’agenda che punta dritto verso una governance globale tecnocratica. Il fatto che Schwab si faccia da parte, schiacciato sotto il peso degli scandali, non significa che l’era del Great Reset sia finita. Al contrario: potrebbe solo aver trovato nuovi interpreti, nuovi frontman altrettanto autorevoli.

Non è detto che Peter Brabeck-Letmathe rimanga a lungo presidente del WEF, ma è già chiaro che chiunque siederà in quel ruolo, non si distanzierà affatto da tali posizioni. Nel grande teatro globale, i protagonisti cambiano. Ma il copione resta lo stesso.

La storia dimenticata dei nativi americani che lottarono in Italia contro il nazifascismo

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Il tenente Ernest Childers, il tenente Jack Montgomery e il tenente Thomas Van Barfoot sono tre soldati statunitensi che hanno ricevuto la medaglia d’onore al Congresso per le azioni compiute durante la seconda guerra mondiale, nel corso della Campagna d’Italia condotta dagli Alleati per liberare la penisola dal nazifascismo. Seppure possa sembrare un fatto degno di non troppo conto, la provenienza dei militari rivela un dettaglio poco conosciuto: questi tre soldati erano nativi americani, i primi dei propri popoli a ricevere la più alta onorificenza che si possa ottenere negli Stati Uniti. Ch...

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