giovedì 13 Novembre 2025
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Gaza: dopo due anni di genocidio il parlamento UE prende posizione, senza dire quasi nulla

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«Il Parlamento chiede aiuti per Gaza, il rilascio degli ostaggi e giustizia»; è questo il titolo del comunicato con cui l’Eurocamera ha annunciato una delle sue prime mozioni sulla Palestina. Il contenuto della risoluzione aggiunge poco più di quanto anticipato dal titolo: i deputati «esprimono seria preoccupazione» per la situazione a Gaza, condannano il blocco degli aiuti da parte di Israele e chiedono agli Stati membri di «valutare» il riconoscimento della Palestina. La mozione arriva il giorno dopo la prima proposta di contromisure verso Israele da parte della Commissione, che chiederebbe l’imposizione di sanzioni verso estremisti israeliani, e la sospensione parziale del commercio con Israele. Se la proposta di von der Leyen è «troppo poco», come commentato dalla Relatrice Speciale ONU la Palestina, Francesca Albanese, quella dell’Eurocamera è sulla stessa linea. La mozione è una delle prime a essere approvata dagli eurodeputati e arriva dopo due anni di massacri, crimini di guerra e violazioni del diritto internazionale, la cui responsabilità viene in ultima istanza ancora attribuita ad Hamas.

La mozione per Gaza è stata votata oggi, giovedì 11 settembre. Il testo della risoluzione è stato approvato con 305 voti favorevoli, 151 contrari e 122 astensioni. In sede di votazione, il governo italiano si è spaccato: Forza Italia è andata contro quanto è solita professare in patria, approvando la mozione; Fratelli d’Italia si è astenuta e la Lega ha votato contro. Anche i partiti di opposizione hanno votato disgiuntamente: il PD ha votato a favore, i Cinque Stelle e i Verdi hanno votato contro e Ilaria Salis, esponente di Sinistra italiana, si è astenuta. Nonostante il testo della mozione non sia ancora disponibile integralmente, il comunicato stampa del Parlamento ne illustra dettagliatamente il contenuto. La chiave di lettura con la quale l’Eurocamera inquadra la situazione a Gaza è evidente sin dal primo paragrafo della risoluzione. “Diritto di Israele all’autodifesa”; dopo 68mila uccisioni dirette e centinaia di migliaia di possibili morti indirette, insomma, la priorità è la condanna ad Hamas: gli ostaggi, si legge nella mozione, devono essere rilasciati «incondizionatamente» e il gruppo va sanzionato.

Dopo avere parlato dei «crimini barbari» di Hamas, la mozione accoglie le proposte della presidente della Commissione von der Leyen, mostrandosi aperta a muovere sanzioni contro coloni e ministri estremisti israeliani (in particolare contro il ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir e il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich) e a sospendere «parzialmente» l’accordo UE-Israele in materia commerciale. L’annuncio di von der Leyen era stato duramente criticato dalla Relatrice Speciale ONU per i Territori Palestinesi Occupati, Francesca Albanese: «Troppo poco, troppo tardi, intollerabilmente insufficiente secondo il diritto internazionale», ha commentato la relatrice. «Gli Stati dell’UE devono imporre un embargo totale sulle armi, sospendere il commercio (incluso HorizonEU), perseguire i presunti criminali e inviare una flotta per rompere l’assedio. Niente di meno». Nessuno di questi temi è davvero affrontato nella mozione parlamentare, così come non è stata fatta menzione del mandato d’arresto contro il primo ministro Netanyahu, che è stato ignorato dall’Ungheria, e che molti altri Stati hanno annunciato che non avrebbero rispettato.

La mozione del Parlamento, infine, impegna l’UE a muoversi per implementare la cosiddetta soluzione dei due Stati, e invita i Paesi membri a valutare un eventuale riconoscimento dello Stato di Palestina. Anche in questo caso, le parole usate da Albanese per commentare la proposta von der Leyen sembrano puntuali: lo Stato che l’Eurocamera invita a riconoscere, infatti, è una Palestina «completamente smilitarizzata», e governata dall’Autorità Nazionale Palestinese. Essa, insomma, non sembra differire in alcun modo da quella Palestina che il presidente francese Macron ha annunciato che avrebbe riconosciuto in occasione dell’apertura del prossimo ciclo dell’Assemblea Generale dell’ONU: uno Stato, come suggerito dallo stesso presidente dell’ANP, Mahmoud Abbas, disarmato e soggetto a riforme orientate dall’esterno e alla supervisione politica e militare di terzi. Il Parlamento UE, insomma, ha invitato a riconoscere la Palestina senza fare nulla per farla esistere; eppure, la sua posizione risulta ben più impegnata di quella dell’Italia, che dopo due anni di genocidio non ha ancora fatto menzione di possibili sanzioni, di un eventuale riconoscimento della Palestina, o della possibilità di interrompere i rapporti commerciali con Israele, preferendo continuare a fare affari con lo Stato ebraico.

I gruppi americani pro Israele hanno fatto causa a Francesca Albanese

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Il Centro Nazionale di Difesa Ebraica (National Jewish Advocacy Centre, NJAC), organizzazione non governativa che si occupa della difesa legale contro l’antisemitismo, ha citato in giudizio Francesca Albanese per diffamazione. Nel mirino del NJAC vi è l’ultimo rapporto della relatrice speciale ONU per la Palestina, il quale colpisce al cuore l’economia USA elencando tutte le aziende (per la maggior parte statunitensi) complici di Israele e del genocidio a Gaza.

Nel rapporto di Albanese, Dall’economia di occupazione all’economia di genocidio, sono finite aziende come Caterpillar e Lockheed Martin, ma anche IBM, HP, Microsoft, Alphabet, Amazon, AirBnb, Palantir e numerose tra le più importanti nel panorama economico statunitense – oltre ad aziende straniere come Leonardo, Maersk, Booking.com e Carrefour, solo per citarne alcune. Tutte sono accusate di giocare un ruolo centrale nel finanziamento dell’occupazione illegale della Palestina e del genocidio in corso a Gaza, entrambi portati a termine da Israele. Di fatto, il rapporto spiega nel dettaglio che il genocidio prosegue per una ragione molto semplice: è redditizio per molti.

Tra le organizzazioni citate vi è anche la Christian Friends of Israeli Communities, accusata di aver inviato milioni di dollari in Israele per progetti a sostegno delle colonie. Insieme a Christian for Israel USA, l’organizzazione ha quindi contattato la NJAC per portare Albanese in tribunale, accusandola di antisemitismo e di «diffamazione commerciale e ingerenza illecita». Albanese è anche accusata di aver rilasciato dichiarazioni nelle quali «accusava e minacciava sanzioni» come «l’inserimento in liste nere, procedimenti giudiziari e altre ritorsioni». Le informazioni contenute nel report di Albanese, che accusano «organizzazioni benefiche di crimini di guerra e altri atti efferati» sarebbero, infatti, «del tutto infondate».

Avendo colpito il sistema al suo cuore pulsante (ovvero quello economico), il rapporto di Francesca Albanese ha avuto grandi ripercussioni dopo la sua pubblicazione, incluso sulla vita della relatrice. Gli Stati Uniti – principale alleato di Israele – hanno infatti immediatamente annunciato sanzioni contro di lei, accusandola di aver «vomitato» supporto al terrorismo con la sua denuncia. Le sanzioni, di natura principalmente economica, hanno avuto un impatto enorme sulla vita della relatrice, che oltre a non potersi recare nel suo ufficio presso la sede ONU di New York nè aprire un conto in banca, con tutte le problematiche che ne conseguono – oltre che per lei, anche per i suoi famigliari.

Le persecuzioni ad personam dirette contro Francesca Albanese hanno incontrato il silenzio del governo italiano. Ad oggi, nessun membro dell’esecutivo si è pronunciato in merito a quanto sta accadendo a una sua cittadina illustre mentre svolgeva l’incarico lavorativo, scegliendo di non interferire con le politiche degli alleati statunitense e israeliano. Il tutto nonostante le voci di solidarietà in favore della relatrice si siano sollevate in tutto il mondo, da ONG come Amnesty e Human Rights Watch ad altri relatori e personalità delle Nazioni Unite.

La Bielorussia ha rilasciato 52 prigionieri

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Con la mediazione statunitense, la Bielorussia ha rilasciato 52 prigionieri, che ora sono diretti verso la Lituania assieme alla delegazione di Washington che ha negoziato l’accordo. Lo ha annunciato il presidente lituano. L’accordo prevede la liberazione dei prigionieri in cambio della revoca delle sanzioni alla compagnia aerea nazionale Belavia, che ora potrà acquistare aerei di manifattura statunitense. In generale, sostiene l’inviato speciale di Trump John Coale, gli USA avrebbero intenzione di normalizzare i rapporti con il Paese, e avrebbero in programma di riaprire l’ambasciata a Minsk.

Larry Ellison supera Elon Musk: è il fondatore di Oracle l’uomo più ricco del mondo

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Cambio al vertice nella classifica dei miliardari. Larry Ellison, cofondatore e Chief Technology Officer del colosso del software Oracle, ha sorpassato Elon Musk ed è diventato l’uomo più ricco del mondo, dopo una giornata record per la capitalizzazione di Oracle, spinta da ricavi cloud e intelligenza artificiale. L’ottantunenne imprenditore californiano ha visto il suo patrimonio salire a circa 393 miliardi di dollari, contro i 385 miliardi del patron di Tesla e SpaceX.

L’impennata è stata determinata dal rialzo record delle azioni Oracle, cresciute di oltre il 40%, in una sola seduta grazie ai risultati trimestrali superiori alle attese, portando la capitalizzazione dell’azienda da 678 a 943 miliardi di dollari. Un balzo che ha generato il più grande incremento giornaliero mai registrato in una fortuna personale, secondo il Bloomberg Billionaire Index. In Sole 24 Ore, Ellison ha guadagnato oltre 101 miliardi, un dato che rende l’idea della volatilità e della sproporzione che caratterizzano la finanza contemporanea. Solo qualche ora prima, secondo la classifica stilata da Forbes e pubblicata il 9 settembre, l’uomo più ricco d’America era ancora Elon Musk, seguito proprio da Ellison e Mark Zuckerberg.

Il successo di Oracle si lega a contratti miliardari nel segmento cloud, incluso l’accordo con OpenAI, e a una pipeline di ricavi futuri che gli analisti hanno accolto come una garanzia di crescita. L’azienda, fondata nel 1977 e per anni associata ai database aziendali, ha saputo riconvertirsi in fornitore di infrastrutture digitali per l’era dell’intelligenza artificiale. Ellison, spesso descritto come visionario e testardo, ha guidato questa transizione senza arretrare di fronte a colossi come Amazon, Microsoft e Google e i suoi successi maggiori come imprenditore tech li ha ottenuti prima ancora dell’avvento dell’era digitale. La sua ostinazione a puntare sul cloud, quando altri lo davano per spacciato, ha trasformato Oracle in uno dei protagonisti della rivoluzione tecnologica.

Ellison non è solo una figura chiave della Silicon Valley, ma anche l’incarnazione del sogno americano, fatto di visioni pionieristiche e riscatto sociale. Nato a New York nel 1944, è stato adottato a nove mesi dagli zii dopo l’abbandono da parte della madre naturale. Nel 1977 ha fondato Oracle, allora con il nome di Software Development Laboratories, imponendola progressivamente come uno dei pilastri della Silicon Valley. Pur avendo lasciato il ruolo di amministratore delegato nel 2014, è rimasto in prima linea come Chief Technology Officer, delineando la continuità del progetto. Il sorpasso su Musk, che solo fino a pochi giorni fa sembrava irraggiungibile, è anche il simbolo di questo cambio di paradigma: la ricchezza non si misura più solo con le auto elettriche o le missioni spaziali, ma con la capacità di gestire i dati e le infrastrutture digitali che alimentano l’IA.

Accanto alle performance di mercato, un altro fattore che rafforza la posizione di Ellison è il rapporto stretto con la politica americana. Ellison, repubblicano, è amico di lunga data di Donald Trump e, a differenza di Musk, ha mantenuto un rapporto stabile con il tycoon, apparendo regolarmente con lui in eventi tecnologici e beneficiando di contratti governativi. Ellison ha avuto, infatti, un ruolo di rilievo nel sostenere Trump durante la sua campagna presidenziale, e i primi decreti della nuova amministrazione repubblicana hanno mostrato segnali di riconoscenza verso le oligarchie tech che ne hanno appoggiato l’ascesa, tra cui la stessa Oracle. Con il piano di investimento dal valore di 500 miliardi di dollari, denominato Stargate, si è data vita a una joint venture tra OpenAI, Oracle e SoftBank per la costruzione di infrastrutture necessarie allo sviluppo dell’IA. L’Agenzia NATO per le Comunicazioni e l’Informazione (NCIA) ha, inoltre, avviato un progetto di migrazione dei propri carichi di lavoro IT mission-critical verso Oracle Cloud Infrastructure (OCI). L’iniziativa, annunciata da Oracle e sviluppata in collaborazione con Red Reply e Shield Reply e con l’appaltatore principale Thales, segna un passaggio strategico per la modernizzazione in sicurezza delle infrastrutture tecnologiche della NATO. Questo intreccio tra potere economico e sostegno politico contribuisce a spiegare non solo la solidità dell’impero industriale di Ellison, ma anche la capacità di cementare rapporti con lo Stato, trasformando Oracle in un attore strategico sia per l’economia digitale sia per gli equilibri geopolitici degli Stati Uniti e dei Paesi membri dell’Alleanza Atlantica.

Resta da capire quanto sia stabile questa leadership. Le classifiche dei miliardari dipendono dall’andamento azionario e, come dimostra il caso di Forbes, possono mutare nel giro di poche ore. Per mantenere il nuovo traguardo, Ellison, attraverso Oracle, dovrà mantenere il passo, consolidare i contratti e difendere la sua posizione in un mercato dominato da pochi giganti. Una delle carte più recenti giocate dall’imprenditore statunitense è il mega accordo da 300 miliardi di dollari siglato con OpenAI: un contratto pluriennale (circa cinque anni) che prevede l’acquisto da parte di OpenAI di potenza di calcolo tramite Oracle che richiederà 4,5 gigawatt di capacità energetica, all’incirca paragonabile all’elettricità consumata da circa 4 milioni di persone. Questo accordo ha avuto un effetto immediato sul titolo Oracle, che è decollato, contribuendo in modo determinante al balzo patrimoniale di Ellison. L’impegno richiesto da una simile infrastruttura è enorme: nuove capacità di data center, assunzione di costi operativi elevati, grande investimento in hardware e potenza. Musk, dal canto suo, conserva attività diversificate e una base patrimoniale che non dipende solo da Tesla: SpaceX e altri progetti restano fonti di valore. Il sorpasso di Ellison su Musk segna un momento storico, ma non una certezza assoluta. È la fotografia di un capitalismo dominato dalle aspettative più che dai flussi reali, dove un imprenditore ottantunenne diventa il volto della nuova ricchezza globale, mentre gli Stati e le economie nazionali inseguono colossi in grado di muovere capitali che superano quelli di intere nazioni.

Parlamento UE: ok a riforma fondi di coesione per aumento spese belliche

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L’Europarlamento ha approvato una riforma dei fondi di coesione per aprire all’uso dello strumento per aumentare le spese nelle armi. I fondi, precedentemente rivolti solo alle spese sociali e di sviluppo regionale, potranno ora essere impiegati per competitività, questione abitativa, gestione delle risorse idriche, transizione energetica e armi. L’iniziativa si colloca sulla scia di analoghe proposte dell’UE per aumentare le spese militari – tra le quali il fondo da 150 miliardi per il riarmo voluto da von der Leyen e la concessione ai Paesi UE di chiedere deroghe al Patto di Stabilità per generare debito da spendere nel settore.

Le proteste per la Palestina stanno ripetutamente bloccando la Vuelta di Spagna

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BARCELLONA – Ancora una volta la resistenza popolare scende in strada per esprimere il proprio dissenso contro il genocidio in corso a Gaza. In quest’occasione è l’ottantesima edizione de La Vuelta a España ad essere stata presa di mira dai manifestanti, che, fin dalle prime tappe della competizione, hanno agito affinché si potesse produrre un boicottaggio reale dell’evento sportivo.  A causare le proteste è, nuovamente, la partecipazione di squadre che rappresentano Israele all’interno di rassegne sportive o culturali, nonostante il genocidio e l’apartheid commessi quotidianamente dallo stato genocida a Gaza e in Cisgiordania. 

Il precedente imposto contro squadre e atleti russi ai quali, dall’inizio dell’invasione in Ucraina, è stato applicato il divieto di partecipare alle varie competizioni, se non rinunciando ai colori del proprio paese, mette in evidenza il doppio standard che in questo momento riserva, se non addirittura favorisce, ad Israele il diritto di partecipare ad ogni evento sportivo. Il paradosso è così servito: in molti casi sono le proteste o la mera presenza di bandiere palestinesi ad essere proibite.

L’invito a boicottare la Vuelta è circolato tra i vari gruppi e associazioni propalestinesi già alcune settimane prima che iniziasse la corsa. Il focus delle proteste si sta concentrando sulla partecipazione del team Israel Premier-Tech, squadra professionale israeliana che dal 2018 ha partecipato alle principali competizioni ciclistiche internazionali. Inoltre, nel corso delle settimane, la protesta si è soffermata non solo sulla presenza del team, ma anche sulle figure che finanziano e permettono la partecipazione della squadra. Tra queste spicca Sylvan Adams, imprenditore multimilionario israelo-canadese e proprietario del gruppo. Adams, che ha più volte dichiarato con orgoglio di essere sionista, è una figura vicina al premier israeliano Benjamin Netanyahu e tra i principali fautori delle politiche di softpower dello stato israeliano.

Se già durante lo svolgimento delle prime tappe nel Paese Basco la resistenza popolare aveva conseguito comunicare messaggi di sostegno alla Palestina con scritte sulla strada o attraverso l’incursione di manifestanti con bandiere palestinesi e striscioni, è durante lo svolgimento della tappa di Bilbao che la protesta ha ottenuto un risultato straordinario. Un migliaio di persone, infatti, si è radunato per le strade della città basca con l’intenzione di mostrare la propria contrarietà verso il team israeliano; la moltitudine di persone è stata tale che l’organizzazione dell’evento, quando mancavano solo venti chilometri alla fine della corsa, ha deciso di anticipare l’arrivo di tre chilometri rispetto alla meta prestabilita e lasciare così la tappa straordinariamente senza un vincitore.

Protesta anti-Israele nei pressi di una tappa de La Vuelta a España contro il genocidio e la partecipazione degli atleti israeliani alla competizione

L’occasione ha chiaramente portato a delle conseguenze: lo stesso ente organizzatore della corsa, insieme ai rappresentanti delle squadre e il sindacato dei ciclisti ha discusso a lungo sulla partecipazione della squadra israeliana. Se da un lato le motivazioni dietro all’esclusione del team possono essere motivate da ragioni di sicurezza degli atleti e dei tifosi, dall’altro indubbiamente una risposta sociale così grande non può far altro che porre sotto i riflettori una riflessione di carattere prettamente etico. Nonostante ciò, il direttore tecnico della gara, Kiko García, ha affermato che la decisione non può spettare all’organizzazione, bensì alla squadra israeliana, e che pertanto invita il team a «rendersi conto che la sua presenza non facilita la sicurezza di tutti gli altri». Se la squadra israeliana ha deciso di rimuovere la scritta “Israel” dalle maglie della squadra, per cercare di garantire la sicurezza dei propri ciclisti, la Unione Ciclistica Internazionale (UCI), principale organismo responsabile della partecipazione del team israeliano, sembra voler continuare a guardare da un’altra parte.

Il clamore mediatico scaturito dalle proteste è deflagrato alimentando il livello d’allerta da parte dell’organizzazione e delle istituzioni per le proteste previste per le tappe successive. Mentre i mezzi di comunicazione hanno iniziato ad interessarsi alle manifestazioni che si sono susseguite nei giorni seguenti, martedì 9 settembre, nella seconda tappa de La Vuelta in Galizia, intorno alla meta situata nella città di Mos la polizia ha provato a fermare con la violenza i manifestanti radunati per l’occasione.

Durante tutta la giornata si sono svolte vari cortei in più punti interessati dallo svolgimento della gara: nelle località di Poio, Arcade, Soutomaior e Baiona le associazioni propalestinesi hanno organizzato varie manifestazioni lungo il tragitto percorso dai ciclisti, per poi darsi appuntamento intorno alle 16.30 vicino al traguardo per sorprendere l’arrivo degli atleti, previsto per le 17.45. 

Nel frattempo, l’organizzazione aveva già deciso di anticipare la meta di tre chilometri, come quanto avvenuto nella tappa bilbaina, anche se in questo caso eleggendo un vincitore. Nonostante ciò, decine di agenti in assetto antisommossa della Policia Nacional e della Guardia Civil hanno raggiunto le migliaia di manifestanti con l’intenzione di liberare il passaggio (nonostante fosse già nota la decisione di non far percorrere ai ciclisti la meta finale). 

Rapidamente gli agenti hanno iniziato a caricare le persone radunate per la protesta, le quali, nonostante le manganellate e le decine di arresti, hanno creato una catena umana e sono riusciti a far retrocedere, e successivamente allontanare, le forze dell’ordine.

Le proteste segnano un momento di climax per i movimenti impegnati contro il genocidio in corso a Gaza: i due attacchi in acque tunisine alle imbarcazioni della Global Sumud Flotilla, l’invasione delle IDF del nord della città di Gaza, l’attacco israeliano alla delegazione di Hamas in Qatar e le misure insufficienti annunciate dal presidente spagnolo Pedro Sánchez contro il genocidio stanno rapidamente alimentando il fuoco della protesta.

L’attenzione mediatica adesso è posta sulle tappe finali dell’evento, che si terranno nella Comunità di Madrid. Numerose associazioni hanno già organizzato varie manifestazioni per impedire lo svolgimento dell’ultima tappa, che si chiuderà domenica 14 settembre nella capitale spagnola. In merito alle proteste le reazioni non si sono fatte attendere: lo stesso vincitore della tappa galiziana, il danese Jonas Vingegaard, si è pronunciato affermando che queste proteste «avvengono per una ragione, quello che sta succedendo è terribile». Alcuni esponenti della politica basca, tra cui Arnaldo Otegi, coordinatore generale del partito indipendentista Euskal Herria Bildu ed ex portavoce del braccio politico di ETA, Batasuna, ha dichiarato che «il popolo basco ha dimostrato ancora una volta di essere un referente su scala mondiale della lotta per i diritti, la solidarietà e la libertà di tutti i popoli». Diametralmente opposto è il parere del sindaco di Madrid, José Luis Almeida, figura notoriamente vicina a Israele, che ha assicurato lo svolgimento della gara nella capitale e ha promesso «tolleranza zero verso i disturbi e gli incidenti violenti».

Ancora una volta le proteste in Spagna fanno sentire il loro dissenso contro la partecipazione di Israele negli eventi culturali e sportivi. Mentre in questi giorni le squadre israeliane continuano a competere indisturbatamente nel campionato europeo di basket e nelle qualificazioni dei mondiali di calcio, l’ottantesima edizione della gara ciclistica spagnola sta mettendo in evidenza il potere della protesta. Il 14 settembre si svolgerà la tappa finale de La Vuelta, ma questa volta non si parlerà soltanto della squadra vincitrice.

Uno studio quantifica l’impatto ambientale definitivo delle mascherine anti-Covid

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Durante la pandemia di Covid-19 erano ovunque in quanto, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), avrebbero dovuto ridurre i contagi. Oggi, uno studio ne dimostra l’impatto sull’ambiente: le mascherine facciali rilasciano microplastiche, additivi chimici e interferenti endocrini, contribuendo all’inquinamento di suolo e acque. La ricerca è stata condotta dal Centro per l’Agroecologia, l’Acqua e la Resilienza della Coventry University, sottoposta a revisione paritaria e pubblicata sulla rivista scientifica Environmental Pollution. Analizzando tramite tecniche di laboratorio avanzate le sostanze rilasciate dalle mascherine, i ricercatori hanno scoperto che, anche senza essere indossate o sottoposte a movimento, queste rilasciano centinaia di particelle di microplastica, per lo più inferiori a 100 micrometri (ovvero lo spessore di un capello umano). «Non possiamo ignorare il costo ambientale delle mascherine monouso», avverte la coordinatrice dello studio Anna Bogush, aggiungendo che «dobbiamo sostenere lo sviluppo di alternative più sostenibili e fare scelte consapevoli per proteggere la nostra salute e l’ambiente».

Durante il picco della pandemia, l’uso globale di dispositivi di protezione individuale – cioè gli strumenti impiegati per ridurre l’esposizione a rischi per la salute – aveva raggiunto cifre impressionanti. Secondo le stime dell’OMS, servivano ogni mese circa 89 milioni di mascherine mediche per il solo settore sanitario, mentre ricerche indipendenti hanno calcolato un consumo globale di 129 miliardi di pezzi al mese. Il tutto nonostante esistessero un numero discreto di dubbi e critiche sulla loro efficacia – e che, col passare del tempo, hanno trovato sempre più riscontro con l’evidenza scientifica. Inoltre, si tratta di prodotti realizzati in gran parte con plastiche come polipropilene, polietilene, poliestere o nylon: materiali che, come spiegano gli autori della ricerca, non erano riciclabili con i metodi convenzionali e si sono accumulati come rifiuti in discariche, strade, spiagge e corsi d’acqua. Diversi studi avevano anche già mostrato come i processi di degrado – esposizione al sole, abrasione meccanica, variazioni di temperatura o di pH – favorissero il rilascio di microplastiche, particelle di dimensioni inferiori a cinque millimetri che possono penetrare negli ecosistemi e negli organismi viventi. La novità dello studio della Coventry University, invece, è aver quantificato in modo comparativo quanto inquinante può fuoriuscire dalle diverse tipologie di mascherine anche senza tali condizioni esterne. Per farlo, i ricercatori hanno immerso mascherine nuove in contenitori di acqua ultrapura per 24 ore, filtrando poi i liquidi e analizzandoli con tecniche avanzate come la spettroscopia infrarossa e la spettrometria di massa, controllando attentamente le possibili contaminazioni.

I risultati hanno mostrato che ogni mascherina rilascia microplastiche già dalla fase di produzione. Le chirurgiche standard ne emettono in media circa 250 particelle, mentre le FFP2 arrivano a oltre mille, con dimensioni variabili tra 10 e 2.082 micrometri, ma con una predominanza netta di frammenti inferiori a 100 micrometri. La composizione è risultata per lo più in polipropilene, con percentuali comprese fra l’82 e il 97%, ma nei facciali filtranti sono state individuate anche quantità maggiori di altre plastiche, come polietilene, poliestere e PVC. Oltre alle particelle solide, le analisi hanno evidenziato la presenza di diverse sostanze chimiche, tra cui in particolare il bisfenolo B, considerato un interferente endocrino capace di alterare il funzionamento degli ormoni, e 1,4-bis(2-etilesil) solfosuccinato, un composto usato come additivo industriale. Secondo le stime, la massa enorme di mascherine prodotte durante la pandemia avrebbe comportato il rilascio nell’ambiente di 128-214 chilogrammi di bisfenolo B. «Non possiamo ignorare il costo ambientale delle mascherine monouso, soprattutto quando sappiamo che le microplastiche e le sostanze chimiche che rilasciano possono avere effetti negativi sia sulle persone che sugli ecosistemi. Mentre andiamo avanti, è fondamentale sensibilizzare l’opinione pubblica su questi rischi, sostenere lo sviluppo di alternative più sostenibili e fare scelte consapevoli per proteggere la nostra salute e l’ambiente», concludono gli autori.

La Polonia annuncia restrizioni del traffico aereo

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Il Comando Operativo delle Forze Armate polacche ha annunciato che il Paese ha introdotto restrizioni al proprio traffico aereo lungo i suoi confini orientali con Bielorussia e Ucraina. Da quanto spiega in un comunicato, i voli nella zona soggetta alle restrizioni saranno vietati dall’alba al tramonto, per tutti gali aerei a eccezione degli aeromobili dotati di transponder che mantengono aperta una comunicazione bidirezionale con le autorità aeree, e di alcuni voli militari e speciali. La scelta di limitare il proprio traffico aereo sul confine, arriva il giorno dopo una invasione dello spazio aereo nazionale da parte di droni non identificati che la Polonia sostiene essere di origine russa.

Israele continua a bombardare tutti: adesso tocca di nuovo alla Yemen

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L’aviazione israeliana ha lanciato un attacco aereo contro il gruppo yemenita Ansar Allah, meglio noto con il nome di Houthi. I media ufficiali del gruppo riportano che le bombe israeliane avrebbero preso di mira una struttura medica, un ufficio ministeriale, e gli uffici di due quotidiani nazionali, tutti situati nella capitale Sana’a. Colpito anche il complesso governativo ad Al Hazm, principale città del Governatorato di Al Jawf. Secondo le autorità di Ansar Allah diversi missili sarebbero stati intercettati, ma l’attacco avrebbe ucciso 35 persone, ferendone altre 131. L’offensiva contro Ansar Allah arriva in una settimana di intensa attività per l’esercito israeliano, che in soli quattro giorni ha attaccato cinque diversi Stati (contando lo Yemen), ed è accusato di averne attaccato un sesto. Stamattina, in risposta al bombardamento, l’aviazione del movimento ha lanciato un missile contro lo Stato ebraico, che pare essere stato intercettato.

L’attacco allo Yemen è stato lanciato nella sera di ieri, mercoledì 10 settembre. I media israeliani e i giornali yemeniti anti-Ansar Allah riportano che per condurre l’attacco Israele avrebbe utilizzato 10 jet e 30 bombe, e che avrebbe colpito 15 obiettivi diversi. Secondo il quotidiano israeliano Ynet, gli aerei avrebbero volato per 2.350 chilometri, facendo rifornimento in volo; in termini di distanza percorsa, sarebbe l’operazione più lunga dall’escalation del 7 ottobre. L’esercito israeliano ha dichiarato di avere preso di mira un deposito di carburante, avamposti militari, e una sede del dipartimento di informazione di Ansar Allah, venendo prontamente smentito dal gruppo: il portavoce militare del movimento, Yahya Saree, sostiene che Israele avrebbe colpito prevalentemente edifici civili, tra cui le sedi dei giornali 26 Settembre e Al Yeman, uccidendo alcuni giornalisti. I due quotidiani confermano l’attacco subito. I bombardamenti sono stati scagliati contro Sana’a e Al Hazm: nella capitale, Israele avrebbe ucciso 28 persone, ferendone altre 113; nella seconda, sarebbero state uccise 7 persone, e altre 18 sarebbero rimaste ferite. I soccorritori yemeniti stanno ancora cercando eventuali superstiti tra le macerie.

L’aggressione di ieri segue un bombardamento su Sana’a di fine agosto, nel quale Israele ha preso di mira i vertici militari e politici di Ansar Allah, riuscendo a uccidere il primo ministro del gruppo, Ahmed al-Rahawi. Esso, inoltre, è solo l’ultimo di una lunga serie di aggressioni lanciate dallo Stato ebraico negli ultimi giorni. Oltre ai quotidiani massacri a Gaza e agli altrettanto frequenti assedi in Cisgiordania, solo in questa settimana Israele ha colpito anche il sud del Libano, la Siria, e il Qatar; il più recente attacco è stato scagliato proprio contro la capitale di quest’ultimo, Doha, dove Israele ha tentato di assassinare la delegazione diplomatica di Hamas. In seguito all’aggressione, Israele ha ucciso 5 funzionari palestinesi e un militare qatariota, senza tuttavia riuscire a ledere i membri della squadra negoziale. Israele è inoltre accusato dagli attivisti della Global Sumud Flotilla di avere attaccato due imbarcazioni del gruppo attraccate a Tunisi. Entrambe le navi sono state attaccate con dei droni incendiari, la prima ieri e la seconda l’altro ieri.

L’attivista statunitense di destra Charlie Kirk è stato ucciso

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Ieri sera, durante un dibattito presso l’Università dello Utah, negli USA, l’attivista politico Charlie Kirk è stato assassinato. Kirk era una personalità molto nota negli Stati Uniti, aperto sostenitore di Trump, per il quale ha fatto campagna elettorale; era solito dibattere con gli studenti negli atenei, rispondendo agli argomenti del pubblico lasciando il microfono aperto. Ancora ignoti autore e dinamiche dell’omicidio: secondo le ricostruzioni dei giornali, l’assassino avrebbe sparato a Kirk dal tetto di un edificio dell’università usando un fucile d’assalto. Trump ha espresso cordoglio nei confronti della famiglia, ordinando che in tutti gli edifici pubblici dentro e fuori dal Paese venisse esposta la bandiera a mezz’asta fino a domenica.