martedì 13 Maggio 2025
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Elezioni in Abkhazia: vince il presidente ad interim

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Il presidente ad interim dell’Abkhazia, Badra Gunba, ha vinto le elezioni presidenziali della regione separatista della Georgia, considerata indipendente da Mosca. Gunba ha posizioni indipendentiste ed era il candidato piĂą vicino a Mosca. Ha vinto con circa il 55% dei voti nelle elezioni che si sono tenute ieri, sabato 1° marzo. Le elezioni erano state indette a causa delle dimissioni del presidente Aslan Bzhania, rassegnate lo scorso novembre dopo una serie di proteste scoppiate in seguito alla ratifica di un accordo interparlamentare con la Russia. Secondo i dimostranti, l’accordo avrebbe consentito alle entitĂ  russe di partecipare a progetti di investimento in Abkhazia.

Zelensky a Londra: l’Europa cerca una strategia dopo le sberle di Trump

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Oggi, domenica 2 marzo, a Londra, Zelensky e il primo ministro del Regno Unito, Keir Starmer, si incontreranno con diversi leader europei, tra cui Meloni e Macron, per definire la strategia da adottare dopo l’umiliazione in mondovisione inflitta da Trump a Zelensky. Le opzioni sul piatto sembrano molteplici e vanno dal continuare a sostenere militarmente l’Ucraina al mantenere aperto il canale statunitense con l’accordo sulle terre rare, fino ad aumentare parallelamente gli investimenti per una difesa europea; Macron si è inoltre detto pronto, se necessario, a rivedere la dottrina nucleare francese coinvolgendo gli alleati. Dopo il litigio nello Studio Ovale, il presidente ucraino ha trovato il supporto della stragrande maggioranza dei capi europei, che hanno criticato il comportamento di Trump e offerto aiuto all’Ucraina; lo stesso Starmer ha annunciato un ulteriore pacchetto da oltre 2 miliardi, mentre intanto Zelensky cerca di ricucire con Trump. Meloni, dal canto suo, sembra assumere una posizione da mediatrice, provando a tenere aperto il dialogo con il presidente USA.

Dopo il surreale incontro televisivo di venerdì tra Trump e Zelensky, il leader ucraino ha ricevuto messaggi di sostegno dall’intero Vecchio Continente, evidentemente scosso da quelle immagini senza precedenti nella storia. I vertici di Ungheria e Slovacchia sono stati gli unici a lodare Trump e ad annunciare che, se gli Stati Uniti dovessero negare il proprio sostegno all’Ucraina, Kiev non troverĂ  il loro appoggio. Meloni, invece, sembra essere stata la piĂą morigerata. Pur non avendo espresso un’aperta vicinanza a Zelensky, non ha neanche lodato Trump e si è sin da subito attivata per parlare con il presidente degli Stati Uniti – che ha sentito ieri al telefono – e organizzare un incontro tra gli USA e i Paesi europei. Zelensky, dal canto suo, ha inizialmente rilasciato una dichiarazione di avvicinamento agli Stati Uniti, ringraziando il Paese per i suoi sforzi e cercando di tenere aperti i canali con Trump; successivamente è volato a Londra per incontrare Starmer.

Qui il premier britannico ha rinnovato il pieno sostegno del Regno Unito nei confronti dell’Ucraina e ha offerto a Zelensky un nuovo prestito di 2,74 miliardi di euro in armi e garanzie di difesa. Oggi, dopo un bilaterale tra Starmer e Meloni, si terranno gli incontri multilaterali tra Zelensky, Starmer, Meloni, e i vertici di Danimarca, Francia, Germania, Paesi Bassi, Polonia, Spagna, Svezia, Repubblica Ceca e Romania, unitamente a quelli di Canada, Norvegia e Turchia e a von der Leyen e Mark Rutte. Quest’ultimo, secondo indiscrezioni mediatiche, starebbe spingendo perchĂ© gli alleati non taglino i ponti con Trump; Francia e Regno Unito, invece, sembrano lavorare con l’Ucraina per presentare un piano per la pace al presidente statunitense. Proprio Londra e Parigi, ha sottolineato Macron in un’intervista, sono gli unici due Paesi europei dotati di armi nucleari e, per tale motivo, potrebbero avviare «un dialogo strategico» con gli altri Stati del Vecchio Continente. «Noi abbiamo uno scudo, loro no. E non possono piĂą dipendere dal deterrente nucleare americano. Abbiamo bisogno di un dialogo strategico con coloro che non ce l’hanno, e questo renderebbe la Francia piĂą forte» – ha dichiarato Macron –, aprendo a una non meglio definita ipotesi di coinvolgere nella strategia di “scudo nucleare” francese anche gli altri Stati europei.

Le dichiarazioni di Macron hanno scatenato discussioni interne in Francia, tra chi ha aperto al dialogo sulla deterrenza nucleare e chi ha chiuso completamente le porte all’opzione, prima fra tutti Marine Le Pen, che ha affermato che il nucleare non è «qualcosa da condividere» con gli alleati. In generale, in Europa si sta iniziando a discutere in maniera sempre piĂą concreta di come svincolarsi dalla dipendenza statunitense in ambito difensivo. Il vincitore delle elezioni tedesche, Friedrich Merz, ha sottolineato che l’Europa deve trovare un modo per diventare «indipendente rispetto agli USA», aumentando la «capacitĂ  di difesa europea autonoma» come «alternativa alla NATO».

[di Dario Lucisano]

Gaza, Israele ferma l’entrata di aiuti umanitari

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Israele ha bloccato l’ingresso di tutti gli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza. La decisione arriva in risposta allo stallo creatosi durante i colloqui per la seconda fase della tregua, che prevede l’instaurazione di un cessate il fuoco permanente e il ritiro completo delle truppe israeliane. La seconda fase sarebbe dovuta iniziare oggi, domenica 2 marzo. Israele ha dichiarato di voler rimanere a Gaza e soprattutto nel corridoio di Philadelphi, che divide il sud della Striscia dall’Egitto; ha dunque proposto un ampliamento del cessate il fuoco temporaneo in cambio del rientro della metĂ  degli ostaggi ancora nella Striscia. Hamas chiede di trovare un accordo per l’implementazione della seconda fase.

Il governo Meloni ha approvato il disegno di legge per il ritorno al nucleare

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Dopo oltre trent’anni dall’ultimo referendum che sancì la rinuncia all’energia nucleare in Italia, il governo Meloni inverte la rotta. Il Consiglio dei Ministri ha infatti dato il via libera al disegno di legge delega sul cosiddetto “nuovo nucleare sostenibile”, avviando un percorso destinato a riscrivere il futuro energetico del Paese. Secondo i piani del governo, i nuovi mini reattori (SMR) dovrebbero iniziare a essere operativi giĂ  dal 2030. L’obiettivo dichiarato è quello di garantire sicurezza energetica e contribuire alla decarbonizzazione, ma la scelta ha giĂ  scatenato un acceso dibattito tra sostenitori e oppositori. Nel mentre, un numero sempre maggiore di studiosi evidenzia come gli SMR non possano essere considerati la risposta alla transizione energetica, essendo troppo costosi, richiedendo troppo tempo per essere costruiti e comportando rischi economici e tecnologici ancora troppo elevati.

Il disegno di legge, composto da quattro articoli, affida al governo il compito di adottare, entro dodici mesi dall’entrata in vigore, una serie di decreti legislativi per disciplinare in maniera organica l’intero ciclo di vita della produzione di energia nucleare. Il provvedimento prevede la sperimentazione, localizzazione, costruzione ed esercizio di nuovi reattori, insieme alla gestione dei rifiuti radioattivi e allo smantellamento delle vecchie centrali. Inoltre, verranno istituiti strumenti di formazione per nuovi tecnici e si valuterĂ  la creazione di un’AutoritĂ  indipendente per la sicurezza e il controllo. Secondo il governo, il nucleare di nuova generazione, accanto alle fonti rinnovabili, sarĂ  indispensabile per garantire l’indipendenza energetica dell’Italia e contrastare l’instabilitĂ  del mercato internazionale dell’energia. Non si è fatta attendere la replica del fronte ambientalista e delle associazioni per le energie rinnovabili. La coalizione “100% Rinnovabili Network”, che riunisce UniversitĂ , centri di ricerca e organizzazioni come Greenpeace, WWF e Legambiente, ha ribadito la propria contrarietĂ  alla scelta del governo, sottolineando l’elevato costo dell’energia nucleare rispetto a solare ed eolico, i rischi ambientali legati alla gestione delle scorie radioattive e i disastri passati come Chernobyl e Fukushima. Secondo gli oppositori, la transizione energetica può essere realizzata esclusivamente attraverso un mix di fonti rinnovabili, senza ricorrere a una tecnologia giĂ  bocciata dai cittadini italiani in due referendum.

A offrire uno spaccato sui grandi punti interrogativi che segnano il dibattito sulla tecnologia degli SMR, ancora in fase sperimentale, è un recente rapporto dell’Institute for Energy Economics and Financial Analysis (IEEFA). Sebbene gli SMR siano stati presentati come un’alternativa piĂą economica rispetto alle centrali nucleari tradizionali, il rapporto attesta come i loro costi lievitino continuamente, spesso ben oltre le previsioni iniziali, come dimostrano casi concreti di progetti realizzati (o in fase di realizzazione) in Russia, Cina, Argentina e Stati Uniti. Un altro problema chiave riguarda i tempi di costruzione. Gli SMR sono stati promossi come una soluzione piĂą veloce rispetto alle centrali nucleari tradizionali, ma i fatti raccontano di enormi ritardi, mentre il settore delle rinnovabili avanza con una velocitĂ  sorprendente. In ultimo, il rapporto mette in guardia sul fattore del rischio a causa di problemi imprevisti, essendo gli SMR ancora una tecnologia relativamente nuova e sperimentale. La conclusione degli autori è che, per governi, aziende e investitori, la scelta piĂą sensata sia quella di concentrare gli investimenti su solare, eolico, batterie e reti intelligenti, piuttosto che su una tecnologia che, almeno per ora, sembra destinata a rimanere un’illusione piĂą che una vera opportunitĂ .

Per quanto concerne il nostro Paese, c’è poi un’altra questione di peso, rappresentata dai risultati dei referendum con cui gli italiani, in due diverse occasioni, hanno in passato bocciato l’energia nucleare. Nel 1987, vinse con percentuali tra il 71% e l’80% il “sì” al referendum che chiedeva l’abolizione dell’intervento statale ove un Comune non avesse concesso un sito per l’apertura di una centrale nucleare nel suo territorio, l’abrogazione per gli enti locali dei contributi pubblici per la presenza nel loro territorio di centrali nucleari e l’esclusione della possibilitĂ  per l’Enel di partecipare alla costruzione di centrali nucleari all’estero. Poi, nel 2009, il governo Berlusconi annunciò l’intenzione di rilanciare il nucleare: due anni dopo andò in scena un referendum che riguardava l’abrogazione delle norme che consentivano la realizzazione di nuove centrali nucleari in Italia: con un’affluenza del 54,8%, gli italiani votarono “sì” nel 94% dei casi, annullando di fatto i piani dell’esecutivo. Secondo la relazione illustrativa del ddl approvato dall’attuale governo, però, «il nucleare sostenibile oggi rappresenta una delle fonti energetiche piĂą sicure e pulite» non essendo dunque «tecnologicamente comparabile con quello al quale, anche a seguito di referendum, il Paese aveva rinunciato».

[di Stefano Baudino]

Serbia, disastro di Novi Sad: decine di migliaia in piazza

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In Serbia continuano le proteste per il disastro di Novi Sad, dove il 1° novembre è crollato il tetto di una stazione ferroviaria, uccidendo 15 persone. Ieri decine di migliaia di persone si sono riversate nella città meridionale di Niš per commemorare le vittime del crollo e prendere parte alla protesta guidata dagli studenti. I manifestanti hanno marciato in occasione del quarto mese dalla tragedia e si sono riversati sulle strade, occupandole con biciclette e bancarelle. Le manifestazioni per il disastro di Novi Sad proseguono da mesi e sono guidate dagli studenti. Nelle ultime settimane hanno portato alle dimissioni del primo ministro, accusato dai manifestanti di «corruzione».

USB, proclamato sciopero immediato dei camionisti

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L’Unione Sindacale di Base (USB) ha proclamato uno sciopero nazionale immediato, riguardante i lavoratori dell’autotrasporto merci. Lo sciopero sarĂ  ad oltranza, fino alla convocazione dei ministeri competenti con cui si dovrĂ  discutere delle problematiche del settore. Il sindacato, nello specifico, si è scagliato contro le modifiche al Codice della Strada volute dal ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture Matteo Salvini.

Messina, condannati a pagare 340 mila euro di spese legali: raccolta fondi per i No Ponte

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Nelle scorse settimane, il Tribunale di Roma ha respinto la class action di 104 cittadini contro la costruzione del Ponte sullo Stretto di Messina, dichiarandola inammissibile e imponendo ai ricorrenti il pagamento di oltre 340mila euro di spese legali: per questo motivo, gli attivisti No Ponte hanno lanciato una raccolta fondi, appellandosi alla solidarietà e al sostegno della società civile. Nella class action, i cittadini contestavano alla Società Stretto di Messina la violazione di diligenza, correttezza e buona fede nel portare avanti il progetto, ritenuto privo di interesse strategico e non fattibile a livello ambientale, strutturale ed economico. I giudici hanno stabilito che l’azione non è giustificata, poiché non esisterebbero danni ambientali evidenti e la società starebbe agendo secondo la legge. A suscitare indignazione non è stato solo il rigetto del ricorso, ma in particolare l’entità delle spese imposte ai ricorrenti. Gli attivisti hanno infatti denunciano l’assenza di una chiara spiegazione su come sia stata calcolata la cifra, sottolineando come una condanna di questa portata sia senza precedenti nella giurisprudenza italiana.

Nello specifico, l’obiettivo dei comitati è quello di alleviare il peso economico sui ricorrenti, incamerando risorse per continuare a difendere il territorio. Il ricorso degli attivisti mirava a bloccare la realizzazione del Ponte e a chiedere l’annullamento del decreto con cui il governo ha rilanciato il progetto. «Per essersi opposte a tutto questo 104 persone, parte la grande comunitĂ  del movimento no ponte di Calabria e Sicilia, sono state condannate a pagare 340 mila euro alla SocietĂ  Stretto di Messina Spa. La stessa SocietĂ  che, da quando è stata fondata nel 1981 ad oggi, è giĂ  costata a tutte e tutti noi oltre €300 milioni di euro – si legge nel testo della petizione che accompagna la raccolta fondi, pubblicata sul portale online Produzioni dal basso. Mentre il nostro territorio è minacciato da cantieri infiniti, le risorse destinate a opere essenziali, come quelle del Fondo di Coesione e Sviluppo, vengono dirottate per finanziare questa follia, ci troviamo di fronte a un tentativo evidente di colpire chi si mobilita per difendere lo Stretto». Al momento, la somma raccolta è ancora distante dall’obiettivo, ma l’iniziativa mira a sensibilizzare l’opinione pubblica e a garantire il diritto alla giustizia per tutti, senza discriminazioni economiche. Nel frattempo, gli attivisti hanno impugnato la sentenza e il 30 giugno la Corte d’Appello delle Imprese di Roma sarĂ  chiamata a discutere il caso. Nel frattempo, il verdetto resta esecutivo e i 340mila euro devono essere versati.

Il progetto del Ponte sullo Stretto continua a dividere. I sostenitori lo vedono come un volano per lo sviluppo del Mezzogiorno e il potenziamento delle infrastrutture nazionali. Gli oppositori sollevano invece dubbi sulla sostenibilitĂ  economica e ambientale dell’opera, definendola una prioritĂ  mal posta rispetto a problemi infrastrutturali piĂą urgenti, come il miglioramento della rete ferroviaria. A metĂ  gennaio, era arrivato un nuovo ostacolo per il progetto, con l’accoglimento da parte del TAR del Lazio del ricorso dei comuni di Reggio Calabria e Villa San Giovanni – che avevano contestato che i loro pareri non fossero stati considerati nel processo decisionale – contro l’ok del Ministero dell’Ambiente all’opera. Ai Comuni è stato infatti consentito di presentare nuovi documenti sui possibili impatti ambientali del Ponte. Il Ministero dei Trasporti e la societĂ  Stretto di Messina avevano chiesto l’inammissibilitĂ  del ricorso, ma il TAR ha deciso di esaminarlo nel merito.

[di Stefano Baudino]

UniversitĂ , Bologna: scontri tra polizia e corteo dei precari

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A Bologna, in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico dell’Alma Mater, studenti e ricercatori hanno organizzato un momento di protesta contro la precarizzazione dell’universitĂ . «Contro tagli, guerra e precarietĂ , blocchiamo l’università», recitava lo striscione in testa al corteo partito dal Portico dei Servi e diretto all’ateneo. I manifestanti, giunti in via Guerrazzi, sono stati bloccati e caricati dalla polizia in tenuta antisommossa. A una piccola delegazione è stato poi concesso di intervenire durante la cerimonia di apertura dell’anno accademico.

Turchia e curdi aprono alla pace: il PKK conferma la tregua, Erdogan parla di occasione storica

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Il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) ha annunciato che «rispetterĂ  pienamente l’appello del leader Ă–calan» e ha dichiarato il cessate il fuoco a partire da oggi, 1° marzo. Per quanto riguarda la richiesta di dissoluzione, il PKK ha chiesto alla Turchia garanzie di sicurezza e ha lanciato un congresso da svolgersi sotto la guida dello stesso Ă–calan, di cui ha chiesto la scarcerazione. Il partito curdo era l’ultima delle parti chiamate direttamente o indirettamente in causa a dover rilasciare una dichiarazione sulle parole di Ă–calan. Le forze curde del Rojava (il cosiddetto “Kurdistan siriano”) hanno accolto positivamente l’appello del leader del PKK, sottolineando comunque che esso «non è rivolto a noi», mentre il presidente turco ErdoÄźan ha definito quella fornita da Ă–calan una «opportunitĂ  storica» per costruire una Turchia piĂą «inclusiva». Con l’annuncio del PKK, sembra aprirsi la strada per il piĂą grande tentativo di riconciliazione di sempre in quella che è una delle piĂą longeve lotte per la liberazione degli ultimi decenni.

L’annuncio del PKK è arrivato questa mattina. Da oggi, si legge nel comunicato, le forze curde affiliate al partito non attaccheranno se non in risposta a un’offesa. Il gruppo ha anche accettato la convocazione di un congresso per la dissoluzione, ma a solo a condizione che Ă–calan, definito l’unico in grado di guidare la regione verso la pace, venga scarcerato. AffinchĂ© il processo finale di integrazione abbia successo, invece, il PKK chiede garanzie di sicurezza, di «politiche democratiche», e «giuridiche». La risposta del partito curdo segue l’apertura dei dialoghi politici tra le varie fazioni turche. ErdoÄźan ha accolto positivamente l’accordo, sostenendo che «un Paese senza terrorismo» sarebbe una vittoria per tutti i suoi abitanti, «turchi, curdi, arabi, alauiti o sunniti» che siano. Ha poi affermato che «non perdonerà» chiunque conduca questo nuovo processo di pace «verso un vicolo cieco», minacciando una dura risposta. Il portavoce del partito di ErdoÄźan, Ă–mer Çelik, invece, è sembrato piĂą scettico circa la possibilitĂ  di trattare con i «terroristi» e ha chiesto che «indipendentemente dal nome PKK, YPG, YPJ, SDF, tutti gli elementi e le estensioni dell’organizzazione terroristica in Iraq e Siria dovrebbero deporre le armi e dissolversi».

Le stesse Forze Democratiche Siriane (SDF), alleanza che comprende le forze curde attive nel Rojava (YPG e YPJ), hanno accolto positivamente l’appello di Ă–calan. Il leader delle SDF, il curdo Mazloum Abdi, ha detto che le parole del leader del PKK aprono a una prospettiva di «pace e sicurezza per tutta la regione», ma ha chiarito che la richiesta di deporre le armi «è rivolta al PKK e non a noi». In questo momento, le SDF sono in aperta trattativa con il nuovo governo siriano e sembrano avere trovato un accordo per entrare a far parte dell’esercito del Paese. La notizia è stata confermata da diversi media curdi, ma manca ancora la conferma dal leader del nuovo governo siriano, Al-Jolani. Non sono noti i dettagli degli accordi.

L’annuncio del cessate il fuoco unilaterale del PKK rischia di segnare una svolta storica in quello che risulta essere uno dei conflitti interni piĂą lunghi degli ultimi anni. Il conflitto tra Turchia e popolo curdo va avanti da 40 anni e ha causato circa 55.000 morti. Esso ha ampie ripercussioni sull’intera regione mediorientale, e in particolare sulla Siria, dove dodici anni fa è iniziata la rivoluzione del Rojava con la rivolta della cittĂ  di Kobane. Il Kurdistan è infatti una regione montuosa compresa tra Turchia, Siria, Iraq e Iran. I curdi costituiscono il piĂą vasto popolo senza nazione al mondo (sono circa 30 milioni) e non sono riconosciuti dalla Turchia, che fino agli anni ’90 li chiamava “turchi di montagna“. In questo, le stesse parole di ErdoÄźan, che ha parlato esplicitamente di “curdi”, segnano un simbolico passo avanti verso il riconoscimento della maggiore minoranza etnica al mondo. Resta comunque da vedere quali saranno i risvolti pratici delle dichiarazioni turche, e se il presidente non si limiterĂ  alle sole parole: l’ultima volta che si era andati così vicini a una pace è stata nel 2013, quando Ă–calan aveva annunciato il cessate il fuoco con la Turchia e il ritiro dei guerriglieri del PKK dal territorio turco. In seguito a tale annuncio vennero avviate delle trattative di pace, poi arenatesi nel 2015, evento che portò all’isolamento dello stesso Ă–calan e a una nuova chiusura da parte turca, con il rilancio della repressione del popolo curdo.

[di Dario Lucisano]

USA, ok a vendita di 3 miliardi di dollari in munizioni e bulldozer a Israele

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Mentre gli USA continuano a sostenere l’esercito israeliano nei suoi conflitti in Medio Oriente, il Segretario di Stato USA Marco Rubio ha firmato la vendita di emergenza di 2 miliardi di dollari in bombe e testate nucleari allo Stato Ebraico. Inoltre, la Defense Security Cooperation Agency (DSCA) degli USA ha annunciato altri 675,7 milioni di dollari in bombe e kit di guida, nonchĂ© 295 milioni di dollari in bulldozer e relative attrezzature. La DSCA ha affermato che Rubio ha giustificato la vendita immediata a Israele degli articoli e dei servizi di difesa «nell’interesse della sicurezza nazionale degli Stati Uniti».