domenica 6 Luglio 2025
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India-Pakistan, ancora scontri al confine

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I soldati indiani si sarebbero scontrati con i soldati pakistani lungo la Linea di Controllo, il confine di fatto che separa i due Paesi. La notizia arriva da parte indiana, che sostiene di avere risposto al fuoco immotivato proveniente dal Pakistan; Islamabad non ha risposto alle accuse. Gli scontri sarebbero avvenuti ieri notte e costituirebbero così il quarto episodio consecutivo di sparatorie al confine. Negli ultimi giorni, la situazione tra India e Pakistan si è fatta sempre più tesa a causa di un attentato che ha colpito la porzione indiana della regione contesa del Kashmir. L’attacco è stato rivendicato da un gruppo islamista che l’India accusa il Pakistan di sostenere.

Spagna, Slovenia e Islanda si schierano contro la partecipazione di Israele all’Eurovision

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Diversi Paesi ed eurodeputati stanno facendo fronte comune per escludere Israele dall'Eurovision, il maggiore festival musicale europeo. L'iniziativa è stata lanciata dalla rete televisiva spagnola RTVE a cui sono seguiti un appello dall'omologa emittente slovena, quello di 30 parlamentari europei, e un ultimo dalla rete televisiva islandese. L'atto di boicottaggio intende denunciare le ripetute violazioni della legge internazionale da parte di Israele e chiedere alle istituzioni e agli enti culturali del Vecchio Continente di prendere una posizione di condanna nei confronti delle azioni dello...

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Israele ha bombardato Beirut

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L’aviazione israeliana ha lanciato un bombardamento sulla capitale libanese Beirut, nel quartiere meridionale di Dahiyeh. L’esercito ha affermato di avere preso di mira un magazzino di armi di Hezbollah, ma i quotidiani locali riportano che non ci sarebbe stata alcuna esplosione secondaria dopo l’attacco. Ancora incerta l’entità dei danni e la presenza di eventuali vittime. Dall’entrata in vigore del cessate il fuoco con Hezbollah, lo scorso novembre, Israele ha attaccato Beirut diverse volte. Gli ultimi attacchi sono avvenuti il 28 marzo, quando l’aviazione israeliana ha raso al suolo un edificio nel quartiere meridionale di Hadath, e il 1° aprile, sempre a Dahiyeh, in un attacco che ha ucciso quattro persone.

Banca Mondiale: Arabia Saudita e Qatar salderanno i debiti della Siria

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L’Arabia Saudita e il Qatar salderanno gli arretrati di circa 15 milioni di dollari dovuti dalla Siria alla Banca Mondiale. A dare la notizia sono i due Paesi finanziatori in una dichiarazione congiunta. Il saldo del debito apre la strada all’approvazione di possibili richieste di sovvenzione da parte della Siria. «Questo impegno aprirà la strada alla ripresa del supporto e delle operazioni del Gruppo della Banca Mondiale in Siria dopo una sospensione di oltre quattordici anni», si legge nella dichiarazione. Entrambi i Paesi hanno inoltre invitato «le istituzioni finanziarie internazionali e regionali a riprendere e ampliare tempestivamente il loro impegno per lo sviluppo in Siria».

Gli USA mediano tra Repubblica Democratica del Congo e Ruanda e mettono le mani sulle risorse

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La Repubblica Democratica del Congo e il Ruanda hanno firmato un accordo preliminare per giungere a una pace. Il documento è stato siglato a Washington in presenza del Segretario di Stato USA Marco Rubio e arriva qualche giorno dopo la firma di una tregua tra il movimento ribelle dell’M23 e la RDC, in Qatar. L’accordo tra la RDC e il Ruanda impegna i Paesi a rispettare la reciproca sovranità e i confini internazionalmente stabiliti, a risolvere le controversie con la diplomazia, a rilanciare la cooperazione bilaterale e a valutare l’istituzione di un meccanismo congiunto di sicurezza. Con la firma dell’accordo, inoltre, RDC e Ruanda stabiliscono il 2 maggio come data limite per la presentazione di un accordo di pace definitivo e di risolvere eventuali controversie con la mediazione degli stessi USA. L’iniziativa pacificatrice di Washington, come era nell’aria, sembra tutto tranne che disinteressata: il tanto ricercato accordo prevede infatti che i Paesi collaborino sul fronte energetico, infrastrutturale e — soprattutto — minerario, «in collaborazione con il governo degli Stati Uniti e gli investitori statunitensi».

L’accordo preliminare tra la RDC e il Ruanda è stato firmato venerdì 25 aprile. Esso si divide in sei punti e apre la strada alla stesura di un accordo di pace da sottoporre alla reciproca revisione entro il 2 maggio. L’accordo prevede: il riconoscimento reciproco della sovranità, dell’integrità territoriale e dei confini stabiliti dei Paesi; la facilitazione del ritorno «sicuro e volontario» degli sfollati nelle proprie case; la promozione e il sostegno alla missione internazionale MONUSCO delle Nazioni Unite; una collaborazione sul fronte della sicurezza, limitando «la proliferazione di gruppi armati non statali all’interno e attraverso i reciproci confini», astenendosi «dal fornire supporto militare statale a gruppi armati non statali» e, nel caso fosse necessario, istituendo un meccanismo di sicurezza congiunto. Riguardo a quest’ultimo punto, va notato che l’accordo non cita in maniera esplicita l’M23. L’accordo prevede infine il rilancio dei rapporti commerciali ed economici tra i Paesi, favorendo lo sviluppo di un «quadro di integrazione economica».

«Questo quadro», si legge nell’accordo, «sarà accompagnato dall’avvio o dall’espansione di investimenti significativi, inclusi quelli agevolati dal governo statunitense e dal settore privato statunitense, volti a trasformare l’economia regionale a vantaggio di tutti i Paesi partecipanti». I due Paesi si impegnano poi «a esplorare opzioni per collegare questo quadro ad altre iniziative di sviluppo economico internazionali o regionali, anche nell’ambito di progetti infrastrutturali», da portare avanti attraverso «partnership e opportunità di investimento reciprocamente vantaggiose». RDC e Ruanda, infine, «si impegnano ad avviare e/o ampliare la cooperazione su priorità condivise quali lo sviluppo idroelettrico, la gestione dei parchi nazionali, la riduzione del rischio nelle catene di approvvigionamento minerario» e, soprattutto, il collegamento delle catene minerarie end-to-end (dalla miniera al metallo lavorato) tra «entrambi i Paesi, in collaborazione con il governo degli Stati Uniti e gli investitori statunitensi». I Paesi, insomma, si impegnano a collaborare tra di loro, con gli USA e con gli investitori privati statunitensi in settori strategici chiave quali quello energetico, quello infrastrutturale e quello minerario.

L’annuncio dell’accordo preliminare tra RDC e Ruanda arriva due giorni dopo l’analoga tregua siglata tra Kinshasa e rappresentanti dell’M23, che la RDC sostiene essere sostenuto dal Ruanda. Questa è stata raggiunta di comune accordo con la mediazione del Qatar e, per quanto sia vaga nei termini e non sembri stabilire un cessate il fuoco permanente, impegna le parti a una «immediata cessazione delle ostilità» da portare avanti fino a che proseguono i colloqui per una «pace duratura». L’accordo tra RDC e M23 è giunto in seguito a una rapida avanzata del movimento ribelle, che nell’arco di qualche mese ha conquistato le principali città dell’area orientale del Congo. Dopo avere preso la capitale della provincia del Nord Kivu, Goma, l’M23 è arrivato fino a Bukavu, assicurandosi il controllo delle maggiori città orientali del Paese. Dopo un momento di stallo in cui sembrava avvicinarsi un accordo per una tregua, l’avanzata dei ribelli è continuata, giungendo fino a Walikale, da cui si sono ritirati dopo qualche giorno proprio per facilitare il raggiungimento di una pace temporanea. Al momento non risulta chiaro dove la tregua siglata in Qatar potrebbe portare, né se e quando si potrebbe svolgere un altro round di colloqui. Quello che sembra evidente è che, per via della sua ampia disponibilità di risorse, la regione fa gola a molti e che il ruolo di mediatore tra le parti apre alla possibilità di mettervici le mani. Gli ultimi accordi siglati dalla RDC erano infatti stati in un certo senso anticipati dagli ultimi incontri tenutisi a marzo, che prefiguravano l’ipotesi di mettere le risorse minerarie sul piatto per ottenere il sostegno di Washington.

Vancouver, auto sulla folla: almeno 9 morti

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Nella notte tra ieri e oggi, a Vancouver, in Canada, un auto è piombata sulla folla, uccidendo almeno 9 persone e causando «diversi» feriti. L’incidente è avvenuto in occasione di un festival filippino, e il conducente, un uomo di 30 anni già noto alla polizia, è stato arrestato. In una breve dichiarazione sui social media, la polizia ha affermato che, al momento, è «certa» che l’incidente non sia stato un atto di terrorismo.

Niger, “offensiva a sorpresa”: uccisi 12 soldati

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Dodici soldati nigerini sono stati uccisi in un attacco nell’ovest del Paese. La notizia arriva dall’esercito nigerino, che ha comunicato che l’attacco, una «offensiva a sorpresa», si è verificato venerdì a circa 10 km a nord del villaggio di Sakoira, nei pressi del confine tra Niger, Mali e Burkina Faso, area particolarmente soggetta a incursioni da parte di gruppi islamisti. L’esercito non ha fornito dettagli circa l’identità degli aggressori, ma ha affermato di avere arrestato due sospetti.

Cosa è successo tra Trump e Zelensky a San Pietro

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Ai margini del funerale di Papa Francesco, ieri, il presidente americano Trump e quello ucraino Zelensky hanno avuto un breve colloquio all’interno della basilica di San Pietro. Si tratta del primo incontro di persona dopo quello avvenuto a Washington lo scorso febbraio, nel corso del quale Trump e il suo vice, JD Vance, avevano umiliato il presidente ucraino in diretta mondiale. Ieri, i toni sono sembrati molto diversi. Il dialogo, durato 15 minuti appena, aveva, almeno all’apparenza, le sembianze di uno scambio non programmato. Zelensky ha parlato di un incontro «produttivo», mentre Trump ha postato sul proprio social Truth l’immagine del loro dialogo, senza commento. Poco prima di pubblicarla, Trump aveva scritto che «non c’era motivo per Putin di sparare missili su aree civili, città e paesi, negli ultimi giorni» e che probabilmente «non vuole fermare la guerra». Sebbene il pacifico scambio tra i due potrebbe essere un buon segnale di apertura verso nuovi dialoghi di pace, i dettagli del dialogo non sono stati ufficialmente resi pubblici, nè vi erano vice o altre personalità politiche ad assistervi. Dopo la fine dei funerali avrebbe dovuto svolgersi un secondo incontro, ma il presidente statunitense ha preferito rientrare a casa.

Secondo Zelensky, la portata dell’incontro è «storica». «Speriamo in risultati concreti su tutto ciò che abbiamo trattato. Proteggere la vita del nostro popolo. Un cessate il fuoco completo e incondizionato. Una pace affidabile e duratura che impedisca lo scoppio di un’altra guerra. Un incontro molto simbolico che ha il potenziale per diventare storico, se raggiungeremo risultati congiunti», ringraziando infine il presidente USA. Dal canto suo, Trump non ha utilizzato quei soliti toni minacciosi che è ormai abituato a usare con Zelensky: l’ultima volta risale a pochi giorni fa, quando Zelensky aveva dichiarato che l’ipotesi di cedere la Crimea alla Russia non era considerabile. Subito dopo le affermazioni di Zelenksy, era saltato (ufficialmente per non meglio precisate questioni logistiche) il summit internazionale per la pace in Ucraina che avrebbe dovuto svolgersi a Londra. In quell’occasione, Trump aveva definito le posizioni di Zelensky «molto dannose per i negoziati di pace con la Russia».

Subito dopo il post di Trump, pubblicato ieri su Truth, il senatore repubblicano Lindsay Graham ha fatto sapere di avere pronta «una proposta di legge bipartisan con quasi 60 firmatari che imporrebbe tariffe secondarie su qualsiasi Paese che acquisti petrolio, gas, uranio o altri prodotti russi. Il Senato è pronto a muoversi in questa direzione e lo farà a larga maggioranza se la Russia non abbraccerà una pace onorevole, giusta e duratura». Eppure, nelle stesse ore, secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa russa TASS, Putin avrebbe incontrato l’inviato speciale statunitense Witkoff, confermando più volte di essere pronto a intavolare dei discorsi di pace con l’Ucraina «senza alcuna precondizione».

Con gli occhi del mondo puntati su uno degli eventi più importanti, ovvero i funerali di Papa Francesco, è difficile stabilire cosa sia stato effettivamente improvvisato e cosa non sia frutto di strategie politiche studiate nel dettaglio. Non è d’altronde la prima volta che il presidente Trump mostra di avere, in questa come altre questioni internazionali e interne, un atteggiamento altalenante: nelle parole del presidente USA, Zelensky è passato più volte dall’essere un solido alleato, a un «comico mediocre e dittatore non eletto» da umiliare in mondovisione, per poi tornare a essere un partner da difendere strenuamente. Si vedrà nelle prossime settimane se questo incontro ha una valenza che va oltre quella puramente simbolica di una foto d’effetto.

Un ex ministro condannato per Tangentopoli riavrà il vitalizio: voto unanime in Parlamento

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Scoppia il caso politico. Francesco De Lorenzo, 87 anni, ex ministro della Salute travolto da uno dei filoni dello scandalo Tangentopoli negli anni ’90, tornerà a percepire il vitalizio parlamentare che nel 2015 gli era stato revocato. L’ufficio di Presidenza della Camera, guidato da Lorenzo Fontana, ha votato all’unanimità per il ripristino dell’assegno. De Lorenzo, che in passato si è definito un «prigioniero politico», rivendica in un’intervista a Il Foglio: «Non l’ho chiesto io, il vitalizio. Ma era un diritto, e i diritti si difendono». 

Tra i voti favorevoli, anche quello del Movimento 5 Stelle, che in passato si era sempre schierato contro il ritorno dei vitalizi. Oggi la questione morale, però, non sembra essere più la priorità. La decisione non è stata gradita dal leader dei Cinquestelle, Giuseppe Conte, che, stando a quanto filtra, non ne sapeva nulla e che, dopo averla appresa dai quotidiani, avrebbe strigliato i suoi a cose fatte. Sebbene a livello tecnico ci fosse poco da fare, il voto dei grillini brucia e rappresenta l’ennesimo smacco, perché il Movimento avrebbe comunque potuto limitarsi all’astensione. Gli esponenti pentastellati hanno poi ammesso «l’errore politico» e hanno ribadito che «ci batteremo per una modifica». 

Quello di De Lorenzo fu uno dei casi più celebri all’epoca di Tangentopoli, tanto che l’allora ministro fu ribattezzato “Sua Sanità”. Le indagini rivelarono un sistema diffuso di tangenti e corruzione che travolse anche Farmindustria, l’associazione delle imprese farmaceutiche italiane. 

Condannato in via definitiva a cinque anni, per associazione a delinquere finalizzata al finanziamento illecito ai partiti e corruzione, la parabola dell’ex ministro inizia con l’arresto nel 1994, con l’accusa di aver ricevuto tangenti da aziende farmaceutiche in cambio di favori, come l’inclusione di specifici farmaci nel prontuario terapeutico nazionale e l’aumento dei prezzi dei medicinali rimborsati dal Servizio Sanitario Nazionale. 

L’immagine più plastica dello scandalo fu l’arresto di Duilio Poggiolini, responsabile del settore farmaceutico del ministero, che viene fermato a Losanna, in Svizzera, con accuse simili. Durante le perquisizioni nelle sue proprietà, le autorità scoprono un vero e proprio tesoro: lingotti d’oro, gioielli, opere d’arte, monete antiche e moderne (fra cui rubli d’oro dello zar Nicola II e krugerrand sudafricani) e una somma ingente di denaro contante. Sono necessarie dodici ore per catalogare i beni preziosi nascosti negli armadi e persino occultati in divani, materassi e pouf, accumulati grazie alle tangenti ricevute dalle aziende farmaceutiche. Vengono inoltre sequestrati oltre 15 miliardi di lire su un conto svizzero intestato alla moglie Pierr Di Maria.

Le indagini rivelano un intreccio di tangenti e favoritismi che vede coinvolti politici, dirigenti e aziende farmaceutiche che versavano mazzette per far includere i loro prodotti nel prontuario terapeutico nazionale, garantendosi enormi profitti a spese dello Stato e dei cittadini. 

Lo scandalo investe l’intero gotha dell’industria farmaceutica, rivelando una rete di favoritismi e manipolazione delle politiche sanitarie. Tra gli arrestati ci sono nomi importanti del settore farmaceutico: quello più rilevante è Ambrogio Secondi, presidente di Farmindustria e della Smith Kline, azienda che nel 2000 si fonde con Glaxo per diventare la GlaxoSmithKline, una delle più grandi multinazionali farmaceutiche mondiali, che ha pagato una tangente di 600 milioni di lire a De Lorenzo e a Poggiolini per far diventare obbligatorio, con la legge 165 del 1991, il vaccino contro l’epatite B (già in uso dal 1981 in forma volontaria).

Dopo un periodo di detenzione a Poggioreale, De Lorenzo ha seguito un lungo percorso di reinserimento, tra impegno nel sociale e nella ricerca oncologica, infine, una battaglia personale contro il cancro. La richiesta di riabilitazione risale al 18 luglio 2024, dopo che il Tribunale di Sorveglianza di Roma aveva accolto la richiesta. L’ex ministro aveva spiegato di aver risarcito integralmente le associazioni private e il Ministero e di non poter restituire altre somme. 

Alla fine, la Cassazione gli ha dato ragione, e ora anche la Camera ne prende atto: una decisione che ha provocato parecchio subbuglio, tra la destra che plaude e parla di “gogna mediatica” e di “gogna anticasta” e ritrae De Lorenzo come «il più grande perseguitato di Tangentopoli, secondo solo a Bettino Craxi» (citofonare a Filippo Facci su Il Giornale) e chi non può che rimarcare che la decisione mina la coerenza di chi, come il M5S ha fatto del giustizialismo – a corrente alternata – il suo cavallo di battaglia. 

E, così, il vitalizio ritorna. E con esso, torna anche il messaggio: in Italia, puoi corrompere, puoi finire in galera, puoi accumulare lingotti nel divano, ma se sai aspettare abbastanza, c’è sempre una poltrona – o un assegno – che ti aspetta. Basta avere pazienza. L’importante è non sfidare apertamente quel Sistema che, con la sua commistione tra lobby del farmaco e politica, fatta di porte girevoli e favori sotterranei, sa essere generosa e magnanima con chi lo serve.

Esselunga: cassa integrazione per 200 operai in risposta allo sciopero dei fattorini

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Prima la minaccia, poi i fatti: Esselunga ha avviato la cassa integrazione per oltre 200 dipendenti del magazzino di via Dione Cassio a Milano, addossando la responsabilità allo sciopero in corso indetto dalla Filt Cgil. Un conflitto che affonda le radici nelle condizioni di lavoro dei corrieri delle aziende fornitrici Brivio e Viganò, Deliverit e Cap Delivery. Mentre i fattorini protestano chiedendo migliori tutele e un’indennità di 10 euro giornalieri, il colosso della grande distribuzione preferisce mettere in cassa i propri dipendenti, accusando la protesta di aver «compromesso in modo significativo» il servizio di consegna online. Il sindacato, invece, denuncia la decisione come una precisa strategia aziendale per delegittimare la protesta.

L’avvio della cassa integrazione è stato comunicato dall’azienda in una nota ufficiale, parlando di «gravi disagi operativi» che avrebbero reso «inevitabile» il ricorso alla cassa integrazione «per evitare enormi sprechi alimentari». Una decisione che coinvolge oltre 200 lavoratori e che, secondo Esselunga, si è resa necessaria perché «la protesta messa in atto sta impedendo ai nostri dipendenti dei centri di distribuzione che preparano le spese poi affidate ai trasportatori per le consegne, di svolgere il proprio lavoro». Ma dietro quella che Esselunga presenta come una dolorosa scelta gestionale, si consuma uno scontro ben più ampio. La Filt Cgil denuncia che si tratta di una «scelta grave e unilaterale» messa in atto per «dividere lavoratori e sindacati e scaricare sulle spalle di chi lavora le conseguenze dell’assenza di volontà negoziale». Per il sindacato, quella della grande distribuzione «è una mossa strumentale» che non farà altro che rafforzare «la mobilitazione e la solidarietà tra lavoratori e sindacati», mostrando all’opinione pubblica «il vero volto di un’azienda che antepone minacce e profitti al rispetto delle regole e dei diritti fondamentali».

Al centro della protesta, che va avanti ormai da settimane, c’è la richiesta dei fattorini – centinaia di autisti che ogni giorno effettuano circa 10mila consegne – di vedersi riconosciuta un’indennità per il lavoro di facchinaggio, attività che, denuncia la Filt Cgil, non sarebbe prevista dal loro contratto. I lavoratori chiedono dunque «10 euro giornalieri in più» a compensazione di carichi fisici spesso insostenibili: ogni autista gestisce infatti circa 35 quintali di merce per turno, talvolta raddoppiando i turni giornalieri. La situazione ha avuto uno snodo importante il 23 aprile, durante un incontro in Prefettura a Milano tra sindacati e aziende. Un tavolo che si è chiuso con un nulla di fatto. «Brivio & Viganò ha partecipato al tavolo con piena disponibilità al confronto e con un concreto spirito propositivo», ha fatto sapere l’azienda, spiegando che «nonostante la volontà di venire incontro alle istanze emerse nel dialogo con le organizzazioni sindacali, le proposte sono state respinte». Di tutt’altro tenore la versione della Filt Cgil: «Le aziende, dopo ore di discussione, se ne sono uscite con una proposta vergognosa, offrendo ai lavoratori un euro in più al giorno», ha denunciato Agostino Mazzola. «Credo che un’uscita del genere si commenti da sola».

Mazzola non ha risparmiato critiche alla strategia di Esselunga, accusandola di voler «delegittimare la protesta, quando il diritto di sciopero è garantito dalla Costituzione». Secondo il sindacalista, l’azienda cerca di «mettere in cassa integrazione i lavoratori diretti, cioè i magazzinieri, per fare in modo che vedano come nemici i lavoratori indiretti, ossia i fattorini delle aziende esterne che però lavorano con divise che riportano il logo Esselunga e guidano camion con il logo Esselunga». Nel suo comunicato ufficiale, Esselunga auspica infine «un ritorno ad un operato responsabile e a un confronto costruttivo tra tutte le parti coinvolte», ribadendo che la sua priorità «rimane sempre quella di garantire un servizio di qualità ai nostri clienti e un ambiente di lavoro stabile per i nostri dipendenti». Intanto, la protesta continua. E mentre Esselunga invoca «la tutela delle fasce fragili» come giustificazione della cassa integrazione, i sindacati denunciano che sono proprio i lavoratori a pagare il prezzo più alto di una vertenza che, almeno per ora, sembra ancora lontana dalla conclusione.