giovedì 3 Luglio 2025
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Referndum, AGCOM richiama tv e radio su copertura informativa

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Alla luce dei dati di monitoraggio, il Consiglio dell’Agcom ha adottato un provvedimento di richiamo alla Rai e ai fornitori di servizi di media audiovisivi e radiofonici nazionali perché garantiscano un’adeguata copertura informativa sui temi oggetto dei referendum organizzati per i prossimi 8 e 9 giugno. Il richiamo – si legge in un comunicato – ha la finalità di offrire ai cittadini italiani una «informazione corretta, imparziale e completa» sui quesiti referendari e le motivazioni a sostegno delle opzioni di voto.

Dal 2015 a oggi in Italia sono stati accertati settemila reati contro l’ambiente

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Nell’arco di un solo decennio, da giugno 2015 a dicembre 2024, in Italia sono stati accertati 6.979 reati ambientali, uno ogni tre controlli effettuati. È il bilancio tracciato da Legambiente e Libera a dieci anni dalla legge 68/2015, che ha introdotto nel Codice penale i delitti contro l’ambiente e riformato la disciplina sanzionatoria del Testo unico ambientale. I numeri parlano chiaro: 21.169 controlli, oltre 12.500 persone denunciate, 556 arresti e sequestri per un valore di 1,155 miliardi di euro. La Campania si conferma la regione più colpita, seguita da Sardegna, Puglia e Sicilia. Il 40,5% degli illeciti è concentrato nelle quattro regioni a tradizionale presenza mafiosa.

A dieci anni dall’approvazione, la legge rappresenta una svolta storica per l’ordinamento italiano. Per la prima volta, infatti, nel 2015 l’inquinamento ambientale è stato riconosciuto come reato penale. Ad oggi, come dimostrano le statistiche diramate nel nuovo rapporto, è il delitto più accertato: 1.426 reati su 5.506 controlli, con 2.768 persone denunciate, 136 misure cautelari e 626 sequestri per un valore superiore ai 380 milioni di euro. A seguire vi è il reato di attività organizzata di traffico illecito di rifiuti, introdotto nel Codice penale nel 2018, che vede 964 casi accertati, 2.711 denunciati, 305 arresti e sequestri per oltre 168 milioni di euro. Il terzo reato più frequente è il disastro ambientale, contestato in 228 casi, con 737 denunce e 180 sequestri, per un valore che supera gli 85 milioni. Il Meridione resta l’epicentro dei reati ambientali: Campania, Puglia, Sicilia e Calabria totalizzano da sole il 40,5% degli illeciti accertati. La Campania è prima in classifica con un totale di 1.440 reati, 4.178 controlli e sequestri per oltre 209 milioni. Segue la Sardegna con 726 reati e 1.627 persone denunciate, mentre la Puglia si distingue per il numero di arresti (100). La Sicilia, con 482 reati, è la regione con il valore più alto di sequestri: oltre 432 milioni di euro.

La legge 68 non si limita però soltanto all’introduzione dei delitti ambientali. Il secondo asse della riforma concerne infatti la nuova disciplina sanzionatoria del Testo unico ambientale (Dlgs 152/2006, parte Sesta-bis). In questo ambito, da giugno 2015 a dicembre 2024, sono stati effettuati 11.156 controlli, accertati 3.361 reati e denunciate 4.245 persone. Sono state emesse 553 ordinanze di sequestro, per un valore di quasi 160 milioni di euro. La tagliola della prescrizione, per ben 794 volte, ha prodotto l’estinzione di una parte dei reati meno gravi. Dal 2018 al 2023, il Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente ha incassato oltre 33 milioni di euro da sanzioni, destinati al rafforzamento delle attività di controllo delle Agenzie ambientali regionali e provinciali.

La conferenza nazionale ControEcomafie, promossa da Legambiente e Libera il 16 e 17 maggio a Roma presso l’Università Roma Tre, sarà l’occasione per fare il punto su dieci anni di applicazione della norma e per rilanciare nuove proposte. Tra i relatori che si alterneranno al microfono ci saranno il procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo, i presidenti delle due associazioni Stefano Ciafani e Luigi Ciotti, la direttrice generale dell’Ispra Maria Siclari e l’on. Federico Cafiero de Raho. «I dati raccolti confermano l’importanza di una legge approvata dopo 21 anni di ritardi – scrivono nel comunicato Legambiente e Libera –. Una riforma di civiltà in nome del popolo inquinato, grazie alla quale da allora tante denunce sono diventate processi e sono arrivate le prime sentenze definitive. Ora si approvino le leggi che mancano all’appello, a partire dal recepimento della direttiva europea sulla tutela penale dell’ambiente». A chiudere la due giorni di lavori sarà la presentazione di un “Manifesto” contenente le proposte al governo e al Parlamento per rafforzare gli strumenti di contrasto alle ecomafie.

Suicidi, depressione, abuso di sostanze: la realtà dei moderatori dei contenuti di Meta

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Le grandi aziende digitali rappresentano spesso l’informatica come un qualcosa di etereo e magico, come un insieme di automatismi che sono capaci di risolvere celermente ogni complessità. Nella realtà, alcuni di questi “automatismi” vengono gestiti da lavoratori in subappalto che vivono nelle parti più povere del mondo e che sono fin troppo spesso soggetti a condizioni lavorative dannose. Ecco dunque che Meta finisce al centro di un’indagine giornalistica e legale riguardante i danni psicologici causati ai dipendenti di un’azienda ghanese

A finire direttamente sotto accusa è Majorel, azienda di Accra controllata dalla multinazionale francese Teleperformance. Il compito dei circa 150 lavoratori dell’impresa è quello di scandagliare i contenuti caricati all’interno dei social per vigilare sul processo di moderazione, ovvero rimuovere i post che violano gli standard dettati dai committenti e addestrare i modelli di intelligenza artificiale a espletare il medesimo compito.

Su internet vengono costantemente caricati file di ogni tipo, molti dei quali riguardanti immagini e concetti capaci di logorare la salute mentale delle persone. I moderatori del web vengono dunque inondati senza sosta da contenuti profondamente violenti e disturbanti – persone scuoiate, stupri, torture, decapitazioni e molto altro –, contesto per cui il mestiere richiederebbe lunghi periodi di pausa e un’assistenza psicologica esperta. Stando a quanto riscontrato da un’indagine congiunta del The Guardian e dal Bureau of Investigative Journalism (TBIJ) , Majorel non rispettava questi requisiti. Tutt’altro.

Secondo quanto riscontrato dalle testate, i dipendenti dell’azienda ricevevano una retribuzione inferiore al costo di vita stimato di Accra, condizione che li portava ad appoggiarsi agli straordinari e a perseguire i premi di prestazione anche solo per poter arrivare a fine mese. La provante natura del compito, esacerbata dall’intensità dello stesso, ha causato nei lavoratori depressione, insonnia e abusi di sostanze, malesseri che venivano intensificati dalle minacce perpetrate dal datore di lavoro. I supervisori di Majorel sono infatti accusati di aver licenziato chiunque chiedesse condizioni lavorative migliori, di aver messo alla porta soggetti che, presi dallo stress, hanno tentato il suicidio e di aver sfruttato situazioni migratorie precarie per assicurarsi forza lavoro docile e ubbidiente.

Teleperformance ribatte alle accuse sostenendo di avere un “robusto programma di benessere psicologico sostenuto da psicologi certificati”, di fornire retribuzioni che superano “del doppio il salario minimo nazionale” e che arrivano a dieci volte tanto se si tengono in considerazione i bonus aggiuntivi. Nel 2022, Teleperformance era già finita al centro di uno scandalo quando Forbes aveva scoperto che l’azienda era solita adoperare archivi pedopornografici per addestrare i propri moderatori. A seguito dello scoop e della reazione degli investitori allo stesso, Teleperformance aveva annunciato nel 2023 l’intenzione di abbandonare il settore della “sicurezza e affidabilità”, promessa che ha poi disatteso.

Ora, il caso di Majorel è nelle mani dell’organizzazione no-profit britannica Foxglove, la quale sta raccogliendo tutte le informazioni del caso al fine di avviare una causa legale. Una prospettiva tutt’altro che unica: nel 2023, la moderazione di Meta in Africa era già finita al centro dell’attenzione pubblica quando era emerso attraverso il The Times che il controllo dei contenuti era stato affidato a Sama, operatore kenyota che offriva a sua volta condizioni lavorative dannose per la psiche dei suoi dipendenti. Anzi, stando alla ricostruzione avanzata da Foxglove, Majorel è riuscita a ottenere l’incarico dalla Big Tech statunitense proprio perché questa ha deciso di rescindere il contratto siglato con Sama, impresa che, una volta entrata in causa per le sue pratiche manageriali, ha licenziato in tronco tutti i suoi dipendenti.

Congo: un’indagine conferma gli abusi sulle popolazioni avvenuti anche coi fondi UE

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African Parks, alla fine, lo ha ammesso: i propri guardiaparchi si sono resi responsabili di abusi e violazioni dei diritti umani contro la popolazione Baka, nativa del Congo. La ONG, nel cui consiglio di amministrazione siede il principe Harry, gestisce 22 parchi nazionali in Africa e negli anni ha ricevuto fondi anche dall’Unione Europea, oltre che dagli Stati Uniti. Dal 2013 è stata al centro di una campagna di denuncia da parte dell’organizzazione per i diritti dei gruppi indigeni Survival International, mentre nel 2023 un’inchiesta giornalistica ha messo in luce le atrocità inflitte alla popolazione locale – tra le quali stupri, torture e minacce di aggressioni.

L’inchiesta è stata portata a termine dallo studio legale Omnia Strategy, ingaggiato dalla stessa Africa Parks per andare a fondo sulle accuse mosse contro il proprio personale. Lo studio ha diffuso una nota nella quale dettaglia brevemente le modalità di indagine, ma, secondo quanto denunciato da Survival International, «African Parks si è rifiutata di rendere pubblico il rapporto di Omnia, né ha permesso a Omnia di farlo». Negli anni, le pressioni da parte di Survival hanno spinto Africa Parks ad ammettere problemi di corruzione, bracconaggio e violenza tra le proprie guardie dei parchi, ma ha sempre dichiarato di non avere in mano prove concrete per perseguire i colpevoli. Nel 2016, un rapporto di Survival ha accusato sia Africa Parks che il WWF di aver taciuto sulle violazioni dei diritti umani portate a termine nel bacino del Congo. Le violenze contro la popolazione Baka sono state tali da essere definite «etnocidio» dallo studioso Sorel Eta.

Nel 2023, un’inchiesta giornalistica ha fornito ulteriori prove dei fatti: donne stuprate, persone picchiate fino alla morte, torture fisiche e psicologiche, oltre che a minacce rivolte anche al personale medico degli ospedali per convincerli a non denunciare le violenze. Secondo quanto denunciato dai Baka, i progetti di conservazione di Africa Parks, che in teoria avrebbero dovuto essere volti alla conservazione del loro popolo alleviandone la povertà, hanno solamente contribuito alla loro rimozione dalle terre delle quali sarebbero legittimi proprietari. Le guardie dei parchi avrebbero continuato a perseverare con comportamenti violenti fino a convinvere la popolazione a smettere di fare ritorno in quei luoghi.

Dopo anni, finalmente, l’indagine dello studio Omnia ha costretto Africa Parks ad ammettere che «in alcuni casi, si sono verificate violazioni dei diritti umani e si rammarica profondamente per il dolore e la sofferenza che queste hanno causato alle vittime. Il processo di Omnia ha inoltre evidenziato diverse carenze nei nostri sistemi e processi, insufficienti per il livello di responsabilità che ci era stato affidato, in particolare nei primi anni di gestione di Odzala».

«La radice del problema, che l’indagine non ha affrontato, è che African Parks continua ad applicare un modello di conservazione razzista e coloniale che espelle i popoli indigeni dalla loro terra, mentre degli esterni ne prendono il controllo – ha dichiarato Caroline Pearce, direttrice generale di Survival – Finché questo meccanismo non cesserà, i Baka continueranno a subire abusi e a vedersi distruggere i mezzi di sussistenza».

Cina, 9 miliardi ad America Latina e Caraibi per lo sviluppo regionale

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Il presidente cinese Xi Jinping ha promesso di rafforzare la presenza della Cina in America Latina e nei Caraibi, stanziando circa 9,2 miliardi di dollari per nuovi investimenti nello sviluppo dei Paesi. L’annuncio è arrivato dallo stesso presidente cinese in occasione della quarta riunione ministeriale del Forum Cina-CELAC, la Comunità degli Stati Latinoamericani e Caraibici. La cifra verrà erogata ai Paesi del CELAC sotto forma di prestito, con lo scopo di finanziare progetti di vario genere, dalle infrastrutture alla crescita sostenibile. La Cina ha inoltre annunciato che importerà più merci dai Paesi del CELAC per incentivare gli investimenti.

Le proteste per la Palestina assediano l’Eurovision

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Con la sfilata delle 37 delegazioni sul Turquoise Carpet, si è aperta domenica a Basilea la settimana dell’Eurovision Song Contest. C’è però qualcosa che non sarà trasmesso nello show, cioè le vibranti proteste che stanno scuotendo l’inizio del festival con la richiesta del boicottaggio di Israele. Sin dal suo arrivo, la cantante Yuval Raphael, che rappresenta Israele, è stata contestata da decine di manifestanti. I dimostranti hanno sventolato bandiere della Palestina, accusando Tel Aviv del genocidio a Gaza, venendo in risposta identificati dalla polizia. “Welcome to genocide song contest” e “Israele: aprite i confini di Gaza”, si è letto sui cartelli. La manifestazione sul Turqoise Carpet si colloca sulla scia di un ampio movimento di protesta contro la partecipazione israeliana al festival della musica europea, che ha coinvolto movimenti per la Palestina, ex vincitori della manifestazione, ed emittenti nazionali.

L’Eurovisione Song Contest inizierà oggi, martedì 13 maggio, con l’avvio della prima serata di semifinali che vedrà esibirsi i primi 15 artisti. La cantante israeliana debutterà sui palchi di Basilea in occasione della seconda semifinale, giovedì 15 maggio, mentre la finale è prevista sabato 17. All’arrivo del mezzo con a bordo Yuval Raphael, decine di manifestanti hanno accompagnato la parata per le strade di Basilea, sventolando bandiere della Palestina. La polizia cantonale svizzera ha fatto sapere di avere bloccato un gruppo di 150 manifestanti per «evitare che il corteo venisse disturbato», e di avere identificato alcuni dei presenti. Il mezzo con a bordo la cantante è stato momentaneamente fermato da un manifestante portato via di peso dalla polizia, e durante la parata la cantante sarebbe stata minacciata da un manifestante che ha mimato il gesto del taglio della gola. L’emittente israeliana Kan ha presentato denuncia e chiesto all’Unione Europea di Radiodiffusione (UER) di collaborare per identificare il sospetto. Non sono mancate le proteste neanche sul Turqoise Carpet, dove i manifestanti armati di cartelli hanno intonato cori in solidarietà alla Palestina e contro il genocidio.

Le proteste per la presenza israeliana all’Eurovision Song Contest vanno avanti da settimane. Anche quest’anno il movimento Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) ha lanciato un appello per boicottare la manifestazione, a cui si sono uniti oltre 70 ex vincitori del festival, scrivendo una lettera in cui si schierano contro la partecipazione di Israele all’evento. I musicisti evidenziano l’incoerenza nell’esclusione di Russia e Bielorussia dalla manifestazione criticando il doppio standard dell’Occidente quando si tratta di Israele, e chiedono che l’emittente israeliana Kan venga esclusa dall’UER per la sua «complicità nel genocidio del popolo palestinese». Le contestazioni sono arrivate anche a livello istituzionale, con le emittenti di Islanda, Slovenia e Spagna che hanno chiesto formalmente l’esclusione di Israele dalla competizione e il ritiro dell’emittente Kan dall’UER.

Gaza, raid israeliano sull’ospedale Nasser: morto un giornalista

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Almeno due persone sono morte e diverse sono rimaste ferite in un attacco dell’esercito israeliano sull’ospedale Nasser di Khan Yunis, nel sud di Gaza. Tra le vittime il giornalista palestinese Hassan Eslaih: sale così a 215 il numero degli operatori dei media uccisi dall’inizio del conflitto. L’Idf ha confermato il bombardamento, sostenendo che l’ospedale veniva usato da Hamas come centro di comando. Lunedì, secondo fonti mediche locali, 39 persone sono morte in vari attacchi israeliani, inclusi 17 sfollati colpiti in una scuola a Jabalia e altre vittime in raid su campi profughi e aree civili.

L’inganno dei disciplinari: da dove vengono realmente le carni dei salumi IGP

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Mortadella di Bologna, ma solo nella fantasia. Bresaola della Valtellina, fatta però con la carne in arrivo da Brasile, Austria, Uruguay e Paraguay. Prosciutti che di italiano hanno soltanto il nome perché l’ingrediente principale, la coscia di suino, viene importata da Austria, Francia, Germania, Olanda e Danimarca, i grandi produttori in Europa di carne di maiale. A volte l’origine delle materie prime è addirittura sconosciuta, per cui possiamo solo supporre una certa provenienza. Questa è la realtà della maggior parte dei salumi in vendita nei supermercati e spacciati come autenticamente italiani, anche se di italiano hanno ben poco. Per spiegare come tutto ciò sia possibile e ammesso per legge, dobbiamo fare un passo indietro e comprendere cosa siano le produzioni IGP. L’Indicazione Geografica Protetta è un marchio di qualità istituito dall’Unione Europea che identifica prodotti agricoli e alimentari con una qualità, reputazione o altre caratteristiche specifiche, direttamente legate al territorio di origine. L’IGP tutela il nome del prodotto e garantisce che almeno una fase del processo produttivo avvenga nella zona geografica designata. Pertanto, in teoria, se parliamo di Mortadella di Bologna IGP, dobbiamo aspettarci che almeno una fase della produzione di questo salume venga effettuata nel capoluogo felsineo, o perlomeno nei dintorni.

Made in Italy, ma non troppo

Sulla confezione di questo prosciutto crudo è visibile la dicitura “prodotto in Italia” accompagnata da una scritta più piccola “con carne origine UE”, ovvero con carne d’importazione proveniente da Paesi della Comunità Europea

I salumi sono uno di quegli alimenti in cui la confusione fra i prodotti italiani realmente tali, fatti con materia prima 100% italiana, e gli altri, è massima. Dai medesimi salumifici, con la stessa marca, escono ad esempio prosciutti fatti con suini nati e allevati in Italia e prosciutti fatti con cosce d’importazione. Esistono naturalmente delle differenze di qualità e sapore nei due prodotti, che per il consumatore medio non sono tuttavia facili da percepire. Spesso, infatti, si associa la qualità del cibo alla marca e all’azienda in sé, senza indagare  sul ventaglio di prodotti. Facciamo un esempio concreto: la confezione di prosciutto crudo Fratelli Beretta al supermercato. Per stessa dichiarazione del produttore, questo proviene da cosce di suino importate da Paesi UE, il che significa che la carne non è di suini nati e allevati in Italia. Tuttavia, sulla confezione del prodotto può comunque apporsi la dicitura «Prodotto in Italia» (o «Made in Italy») affiancata da una immagine del tricolore, visto che l’ultima lavorazione, cioè la stagionatura, è avvenuta in Italia – anche se materia prima e allevamento sono spesso di provenienza estera. 

Fortunatamente, in Italia dal 1° febbraio 2021 è obbligatorio indicare in etichetta l’origine della carne suina utilizzata nella produzione dei salumi. Questa misura, stabilita da un decreto, fornisce al consumatore informazioni chiare sul Paese di nascita, allevamento e macellazione degli animali. L’obbligo non si applica tuttavia ai prodotti con marchio DOP e IGP, ed è proprio con questi prodotti che si genera la confusione massima ed emergono gli aspetti più fuorvianti, se non ingannevoli, per il consumatore.

Mortadella di Bologna IGP

Parliamo di un prodotto simbolo di italianità e regionalità, un salume emiliano amatissimo in tutta Italia, da nord a sud. E se la mortadella bolognese non fosse nemmeno italiana? Le origini di questo prodotto apprezzatissimo risalgono probabilmente all’epoca etrusca e sono da ricercare nei territori di Felsina (antico nome di Bologna), ricchi di querceti che fornivano ghiande saporose ai numerosi maiali locali. Del legame con la città di Bologna si trova testimonianza già nel Quattrocento, quando i Visconti di Milano offrivano volentieri ogni anno un bue grasso alla città, per averne in cambio delle succulente mortadelle. Nel 1661, con il bando emesso dal cardinale Girolamo Farnese, che codificava la produzione di mortadella (uno dei primi esempi di disciplinare, simile a quelli attuali propri delle denominazioni a marchio DOP e IGP), viene ufficialmente riconosciuta l’unicità e l’esclusività del prodotto e della città di Bologna. 

Mortadella Bologna IGP – Il disciplinare indica solo le parti del suino utilizzabili, senza alcun vincolo sull’origine delle carni né sul tipo di allevamento. Dietro l’etichetta italiana, si celano spesso suini provenienti da allevamenti intensivi esteri, in particolare da Germania, Spagna e Olanda.

La Mortadella di Bologna IGP è un prodotto di salumeria appartenente alla categoria degli insaccati cotti, preparato con una miscela di carni di suino. Essendo un prodotto IGP, il processo produttivo deve attenersi a un disciplinare di produzione, cioè a delle regole scritte e ben definite. I disciplinari di produzione per i prodotti DOP e IGP vengono predisposti dai Consorzi di Tutela. Si tratta di enti o associazioni che rappresentano gli interessi dei produttori, operano in un’area geografica ben definita e sono responsabili di decidere le regole di produzione, la qualità, la commercializzazione e la promozione del prodotto. Il Ministero dell’Agricoltura e l’ICQRF (Ispettorato Centrale Qualità e Repressione Frodi) sono incaricati di approvare i disciplinari, garantendo che siano conformi alla normativa italiana ed europea e che tutelino la qualità e la specificità dei prodotti DOP e IGP. Queste stesse autorità vigilano sull’applicazione delle regole del disciplinare, avvalendosi di organismi di controllo e certificazione come CSQA (Certificazione Sicurezza Qualità Agroalimentare) o CCPB (Consorzio per il Controllo dei Prodotti Biologici). L’infrazione di una o più regole dà luogo a reati punibili per legge. 

La fase finale e più importante per l’ottenimento di un marchio DOP o IGP è comunque sempre la registrazione a livello europeo in un apposito registro. Le autorità dello Stato membro devono approvare i disciplinari di produzione, ma è necessario che anche l’UE ritenga ammissibili e valide le domande di registrazione del marchio a livello europeo, in conformità al Regolamento (UE) 2024/1143. L’ammissibilità si basa però esclusivamente su aspetti burocratici e sulla presentazione della documentazione richiesta dalla UE allo Stato membro. In pratica chi decide, nel merito, sulla istituzione di un marchio DOP e IGP è lo Stato membro, non la UE. 

Chiariti questi aspetti di cornice legale, vale ora la pena di dare un’occhiata da vicino al disciplinare di produzione della Mortadella di Bologna IGP. All’articolo 2 del documento si stabilisce quella che è la «zona di elaborazione» del prodotto – termine che suggerisce che in tale zona avviene soltanto una delle varie fasi di produzione, cioè quella finale di cottura e confezionamento, mentre le fasi di nascita e allevamento dei suini, come anche quelle di macellazione, avvengono in altri luoghi. La zona di elaborazione comprende varie Regioni italiane: Emilia-Romagna, Piemonte, Lombardia, Veneto, provincia di Trento, Toscana, Marche e Lazio. 

All’articolo 3 del documento, intitolato Materie prime, non c’è alcun riferimento all’origine geografica delle materie prime stesse, ovvero delle carni di suino. In particolare, non si fa nessun cenno ai luoghi in cui tali animali nascono, sono allevati e macellati. L’unico elemento che viene illustrato nei dettagli è quanto concerne le parti specifiche del suino che possono essere impiegate nella preparazione della mortadella: «La Mortadella Bologna è costituita da una miscela di carni di suino ottenute da muscolatura striata appartenente alla carcassa». Quindi con «materie prime» si fa riferimento, nel disciplinare, soltanto alle parti dell’animale idonee all’utilizzo, non al luogo d’origine né tantomeno alle modalità di allevamento degli animali (intensivo, stato brado ecc.). Per questo motivo è logico ritenere che le carni della mortadella provengano in larga parte dall’estero, da Paesi forti produttori di suini come Germania, Spagna e Olanda in particolare, e solo in parte da suini allevati in Italia. Alcuni produttori industriali dichiarano esplicitamente l’uso di carni estere in mix con quelle italiane, come ad esempio Fiorucci, che lo scrive sul proprio sito web.

Il Prosciutto di Norcia IGP

Il disciplinare di produzione di questo salume scrive esplicitamente che «non vi è limitazione geografica all’origine dei suini». Questi, cioè, possono arrivare da ogni parte del mondo. Nella stragrande maggioranza dei casi, l’indicazione dell’origine è del tutto assente. E non scriverla equivale a dire che non sussiste alcun vincolo.  

Dalla tabella emerge che, su diversi prodotti presi in esame solo il lardo di Colonnata e il salame d’oca di Mortara prevedono l’uso di carni 100% italiane. La finocchiona ammette carni sia italiane che estere, mentre per gli altri prodotti l’origine delle carni non è specificata nei disciplinari

Carni estere, nome italiano

Purtroppo, le produzioni IGP si contraddistinguono da sempre per adottare dei disciplinari “furbetti”: questo genere di prodotti, infatti, vengono di solito associati a una determinata zona geografica anche se la materia prima viene dall’altra parte del mondo. È sufficiente che solo una fase della lavorazione avvenga nella zona che dà il nome. Famosi sono i casi della Bresaola della Valtellina IGP, fatta con la carne di Zebù brasiliano, o dello Speck dell’Alto Adige IGP, con cosce provenienti da Germania e Paesi Bassi. La tabella pubblicata nella pagina precedente mostra un elenco abbastanza ampio dei salumi IGP italiani per i quali l’utilizzo di carni estere è comune e talvolta esplicitamente dichiarato dal disciplinare stesso. 

Tra tutte le IGP comprese in questo elenco, sono soltanto 2 quelle che per disciplinare di produzione devono impiegare carni italiane: il Lardo di Colonnata IGP e il Salame d’oca di Mortara IGP. Mentre la Finocchiona IGP prevede l’utilizzo sia di carne di suini italiani di razza Cinta Senese che di carne di suini proveniente dall’estero. In tutti gli altri casi non si richiede l’origine geografica specifica della carne (salvo un paio di casi in cui viene richiesta l’origine UE della carne) ma solo la tipologia (razza) di suino che deve essere impiegata per la produzione del salume.

In conclusione, il marchio IGP fa pensare a un prodotto locale indissolubilmente legato a un determinato territorio. Attribuire una certificazione di qualità a un cibo e descriverne l’origine geografica implicherebbe che tale alimento provenga senza ombra di dubbio da un determinato territorio e che da questo dipendano le sue caratteristiche e modalità di preparazione (inclusa la ricetta tradizionale). Se parliamo di pomodoro di Pachino, di basilico genovese o di olio pugliese, nessuno si aspetta che la materia prima sia coltivata all’estero e poi confezionata in queste località. Sarebbe un’indicazione fuorviante, che trae in inganno, con un risultato senz’altro deludente. Lo stesso ragionamento andrebbe applicato alle produzioni IGP, a maggior ragione per via di un riconoscimento ufficiale e politico sia dello Stato italiano che della UE, ma a conti fatti non è così.

Campi Flegrei, scossa di magnituto 4.4: cittadini in strada

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Una forte scossa di terremoto ha colpito oggi l’area dei Campi Flegrei, a Napoli, ed è stata avvertita in tutta la città e nei comuni a nord. Il sisma, registrato alle 12.08 dall’Osservatorio Vesuviano dell’Ingv, ha avuto una magnitudo provvisoria di 4.4. Lungo e ondulatorio, il terremoto ha fatto oscillare i palazzi per diversi secondi, in particolare ai piani alti. Sono state evacuate la sede dell’Università Federico II a Fuorigrotta e diverse scuole dell’area flegrea. Molti cittadini, spaventati, si sono riversati in strada.

Corruzione a Venezia: la Procura chiede che il sindaco Brugnaro vada a processo

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La Procura di Venezia ha chiesto il rinvio a giudizio per il sindaco Luigi Brugnaro e altre 34 persone nell’ambito dell’inchiesta “Palude”, che ipotizza un vasto sistema corruttivo. Al centro ci sono le trattative per la vendita al magnate singaporiano Ching Chiat Kwong dell’area dei Pili, acquistata da Brugnaro prima del suo ingresso in politica, e di Palazzo Papadopoli, ceduto a un prezzo inferiore al valore stimato allo stesso Ching. Rischiano il processo anche direttore generale e il vicecapo di gabinetto di Ca’ Farsetti, Morris Cerron e Derek Donadini, nonché l’ex assessore Renato Boraso, accusato di aver incassato una tangente da 73mila euro. L’inchiesta tocca anche appalti pubblici, progetti edilizi e operazioni urbanistiche.

Nella richiesta formulata al gip, i pm Roberto Terzo e Federica Baccaglini hanno confermato l’impianto accusatorio principale, ipotizzando il reato di corruzione a carico di Brugnaro e di vari esponenti della sua squadra. Le operazioni al centro della lente dei magistrati sono collegate: l’area di 41 ettari dell’area dei Pili, zona fortemente inquinata accanto a porto marghera, era stata intestata alla società “Porta di Venezia”, che nel 2017 confluì in un blind trust, e proposta al magnate Ching a un prezzo di un centinaio di milioni di euro al fine di sviluppare un progetto edilizio in cambio della promessa di un aumento di cubatura. Contestualmente, secondo i pm, il rappresentante in Italia di Ching, Luis Lotti, avrebbe anche concordato con Brugnaro, Donadini e Ceron di fare abbassare la valutazione dello storico Palazzo Papadopoli, comprato da una società di proprietà di Ching. Proprio nella cornice di questa operazione, ha ricostruito la Procura, sarebbe stata pagata una tangente da 73mila euro all’ex assessore Renato Boraso, che è stato arrestato nel luglio 2024. Quest’ultimo, secondo quanto attestato dal giudice per le indagini preliminari Alberto Scaramuzza nel luglio scorso, avrebbe «sistematicamente mercificato la propria pubblica funzione, svendendola agli interessi privati». Vari imprenditori sono infatti accusati di averlo pagato con consulenze immobiliari fittizie in cambio del suo aiuto a far avanzare i propri progetti grazie a pressioni sui funzionari comunali. In alcuni casi si procede per corruzione, in altri per turbativa d’asta. Boraso ha già patteggiato un totale di 3 anni e 10 mesi per alcune accuse.

In seguito alla richiesta di rinvio a giudizio, le opposizioni si mostrano unite nel chiedere un passo indietro a Brugnaro. «Da anni denunciamo con forza in Consiglio Comunale il conflitto di interessi del sindaco, la gestione privata della cosa pubblica – ha dichiarato Monica Sambo, segretaria comunale del Partito Democratico –. Oggi, con la chiusura delle indagini e la richiesta di rinvio a giudizio del sindaco, è ancora più urgente un gesto chiaro di responsabilità e, per una volta, di amore nei confronti di Venezia. Le forze politiche che hanno sostenuto Brugnaro fino a oggi non possono più fare finta di niente: devono smarcarsi da questo sistema, assumersi la responsabilità politica e voltare pagina». Sulla stessa scia la capogruppo del Movimento 5 Stelle al Consiglio regionale, Erika Baldin, la quale ha affermato che «proprio per tutelare il massimo bene di Venezia, è opportuno che il sindaco rassegni quanto prima le sue dimissioni, in modo da potersi difendere nel processo e aprire così una stagione nuova alla guida della città».