sabato 18 Ottobre 2025
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Oltre il caso Leoncavallo: il crimine è occupare o una città senza spazi sociali?

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occupazione

Nella storia dello sgombero del Leoncavallo, c’è chi vede solo un’irregolarità urbanistica, riducendo tutto a una questione di legalità. Ma le occupazioni - dal Leoncavallo agli spazi sociali di mezza Europa - non sono mai state soltanto muri sottratti al mercato: sono state, e sono, laboratori politici, culturali e sociali. Se guardiamo soltanto al codice civile perdiamo di vista ciò che è accaduto dentro quelle mura: generazioni che hanno lottato per un’altra città, un’altra società, un altro modo di stare insieme. Ogni stagione ha avuto i suoi spazi "liberati": fabbriche dismesse, caserme a...

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Il caso Mia Moglie e la verità scomoda sulla censura dei social

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In questi giorni si sta molto discutendo della diffusione online non consensuale di nudi trafugati e dell’istigazione allo stupro di soggetti pubblici e privati. In entrambi i casi, le vittime sono quasi sempre donne. Questa rinnovata attenzione nasce dagli scandali legati al gruppo Facebook “Mia moglie” e all’esistenza del forum Phica: spazi digitali in cui si sono consumati abusi, ma che sono riusciti per anni a sfuggire al controllo di sistemi di moderazione che, su altre tematiche, sanno dimostrarsi inflessibili ed efficienti. Da qui il dubbio: perché realtà di questo tipo prosperano sottotraccia, mentre contenuti che analizzano quanto accade in Palestina o che parlano di suicidio vengono rimossi con tempestività?

Per affrontare la questione è innanzitutto necessario riconoscere che in ambo i casi citati, le aziende direttamente coinvolte hanno preso le distanze dal fenomeno. “Non consentiamo contenuti che minacciano o promuovono violenza sessuale, abusi sessuali o sfruttamento sessuale sulle nostre piattaforme” ha dichiarato un portavoce di Meta, azienda proprietaria di Facebook. “Se veniamo a conoscenza di contenuti che incitano o sostengono lo stupro, possiamo disabilitare i gruppi e gli account che li pubblicano e condividere queste informazioni con le forze dell’ordine”. Nel suo messaggio di addio, Phica si descrive invece come “uno spazio dedicato a chi desiderava certificarsi e condividere i propri contenuti in un ambiente sicuro”, evidenziando che quanto è accaduto sia da considerarsi un’aberrazione. “Nonostante gli sforzi, non siamo riusciti a bloccare in tempo tutti quei comportamenti tossici che hanno spinto Phica a diventare, agli occhi di molti, un posto dal quale distanziarsi piuttosto che sentirsi orgogliosi di far parte”.

Va però chiarito: se la condivisione consensuale di immagini intime non configura necessariamente un illecito, la diffusione non consensuale di nudi altrui – nota come Image-Based Sexual Abuse (IBSA) – è un crimine che alimenta la cultura dello stupro. Eppure, nonostante la gravità del fenomeno, le posizioni ufficiali di queste aziende tradiscono un’ignoranza sistematica che può derivare solamente da due fattori: incompetenza cronica o ipocrisia consapevole. Colossi come Facebook e YouTube hanno dimostrato di possedere strumenti molto sofisticati, specializzati nell’intercettare un determinato tipo di contenuti: difficile quindi attribuire la responsabilità a mere carenze tecniche.

Premesso che la censura non è quasi mai la soluzione più efficace, resta il fatto che i social applicano regole con due pesi e due misure. Google, ad esempio, ospita inserzioni di propaganda israeliana nonostante queste violino formalmente le policy interne; Elon Musk, dal canto suo, continua a trovare nuovi modi per infrangere le linee guida della sua stessa piattaforma, X, consapevole che nessuno potrà intervenire contro di lui. Il punto è semplice: le policy aziendali non sono legge e le piattaforme, non essendo veri spazi pubblici, operano secondo i propri interessi finché non entrano in conflitto con la normativa vigente.

Fornire una maggiore attenzione censoria al contrasto delle denunce palestinesi o ai discorsi di scandalo sulle sparatorie statunitensi è una scelta che, ancor prima di essere politica, è commerciale. I moti di protesta e sensibilizzazione vogliono essere esplicitamente visibili, adottano una prospettiva divulgativa e intercettano facilmente lo sguardo di inserzionisti e politici, capaci di esercitare pressioni economiche o legislative sulle Big Tech. Diverso è il caso di realtà come quella di “Mia Moglie”. Queste sono autentiche “camere d’eco” che generano traffico consistente, ma che restano perlopiù circoscritte e nascoste, dunque meno esposte al controllo esterno. Tale discrezione le rende paradossalmente più “tollerabili” agli occhi delle piattaforme, che dal traffico traggono profitto grazie a inserzionisti e data broker.

Che gli interessi economici prevalgano lo dimostra la fine di GARM, un’organizzazione no-profit che segnalava ai grandi marchi quando le loro pubblicità venivano associate a contesti tossici o illegali. L’iniziativa ha chiuso nel 2024 dopo che Musk l’ha trascinata in tribunale, accusandola di aver cospirato per boicottare X.

No, la Cassazione non ha deciso che chi rifiuta i tamponi è responsabile di epidemia colposa

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Negli ultimi giorni sono circolati sui social commenti allarmistici secondo cui la Cassazione avrebbe «riscritto il reato di epidemia», introducendo automaticamente la punibilità di chi viola la quarantena o non fa un tampone. In particolare, si paventa il timore che «la condotta dissenziente di un cittadino che violi il lockdown o la quarantena imposti dal legislatore, che rifiuti di indossare la mascherina o che rifiuti di ottemperare a una qualsiasi imposizione sanitaria, potrà essere qualificata come reato, sulla base di una indimostrabile o quanto meno incerta diffusione di un contagio astrattamente in grado di causare una presunta epidemia». Si tratta di una ricostruzione allarmistica e fuorviante che rimane nel campo dell’interpretazione. La sentenza non introduce nuovi obblighi sanitari per i cittadini, ma si limita a chiarire che chi ha precise responsabilità giuridiche (come nel caso di ospedali, strutture sanitarie, ecc.) può rispondere anche per omissione.

Ciò non toglie che, come emerge dall’ambigua astrattezza del punto 10, non sia da escludere che la sentenza possa lasciare margini alle fonti del diritto su cosa possa integrare o no una fattispecie omissiva («[…] sarà necessaria la valutazione, da compiere in presenza di una legge scientifica di copertura e secondo i princìpi della causalità generale, circa l’omesso impedimento della diffusione del germe a determinare o a concorrere nella determinazione del fenomeno rapido, massivo ed incontrollabile, lesivo del bene collettivo della salute e incontestabilmente proprio del reato in esame»).

Analizziamo i punti chiave della sentenza delle Sezioni Unite penali (Cass. 28 luglio 2025, n. 27515) per chiarire cosa è stato realmente deciso. Il nodo affrontato dalle Sezioni Unite era se il reato di epidemia colposa (artt. 438 e 452 c.p.) possa essere commesso anche con una condotta omissiva, cioè per mancato impedimento dell’evento da parte di chi aveva un obbligo giuridico di intervenire.

In passato, alcuni orientamenti negavano questa possibilità, perché l’epidemia veniva letta come reato «a forma vincolata», ossia configurabile solo tramite un’azione attiva di diffusione di germi patogeni. Le Sezioni Unite hanno invece chiarito che l’art. 40, comma 2, c.p. («non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo») si applica anche al reato di epidemia, purché ricorrano i requisiti, ovvero:

  • posizione di garanzia dell’agente (obbligo giuridico di impedire l’evento);
  • nesso causale tra omissione e l’evento epidemico.

Il caso riguardava un dirigente sanitario (Ospedale di Alghero, marzo-aprile 2020) accusato di non aver fornito dispositivi di protezione e formazione al personale, favorendo la diffusione del contagio in un ospedale, non un privato cittadino che non fa un tampone o esce di casa senza autorizzazione. Il dirigente sanitario fu assolto dal Tribunale di Sassari perché non aveva fornito dispositivi di protezione individuale né formazione adeguata, contribuendo così a un focolaio da SARS-CoV-2. La Corte ha, invece, sostenuto che una inattività (omissione) in presenza di obblighi di garanzia può integrare il reato di epidemia colposa, ribaltando l’assoluzione in primo grado.

Contrariamente, però, a quanto diffuso da alcuni commenti che sono circolati sui social, la sentenza non menziona né la «quarantena» né i «tamponi» come possibili condotte tipiche del reato. L’unico richiamo al periodo Covid-19 riguarda, in via interpretativa, la clausola di riserva dell’art. 2, comma 3, d.l. 33/2020, che rinviava al Codice penale per ipotesi di violazioni gravi delle misure emergenziali. Si tratta di un riferimento a fini sistematici, non di una «estensione automatica» del reato. La Cassazione non ha creato pertanto un «reato da disobbedienza sanitaria».

Perché si configuri l’epidemia colposa omissiva devono concorrere condizioni molto stringenti:

  1. Una posizione di garanzia (es. dirigente sanitario, responsabile di un ospedale, datore di lavoro in ambito specifico) e non un cittadino qualunque;
  2. Un nesso causale provato tra l’omissione e l’evento epidemico;
  3. Un’epidemia effettiva, cioè una diffusione incontrollata di un agente patogeno con caratteristiche epidemiologiche rilevanti.

Un singolo cittadino che violi la quarantena non rientra automaticamente in questo schema: può commettere altri reati (es. art. 260 TULS, violazione di ordini dell’autorità), ma non il delitto di epidemia colposa se manca la posizione di garanzia e il nesso causale.

Le paure di un uso autoritario della norma avanzate sono comprensibili alla luce del passato, ma sono prettamente speculative, in quanto l’estensione omissiva del reato non attribuisce automaticamente al legislatore un «potere illimitato di punire»; i princìpi di tassatività e determinatezza della fattispecie penale restano pienamente in vigore. L’ergastolo previsto dall’art. 438 c.p. rimane una cornice edittale, ma la sua applicazione presuppone eventi di gravità eccezionale e accertati oltre ogni ragionevole dubbio. 

La configurabilità di tali omissioni come reato dipende dall’interpretazione delle fonti inferiori, che possono estendere il principio enunciato dalla Cassazione a casi concreti. 

La portata innovativa sta nel chiarire che anche l’inazione colpevole di chi è titolare di precisi obblighi giuridici può integrare il reato di epidemia. Si tratta di un’evoluzione coerente con la logica dell’art. 40, comma 2, c.p., già applicata in altri reati di evento (es. omicidio colposo omissivo in ambito medico o lavorativo). La sentenza n. 27515/2025 delle Sezioni Unite non ha “riscritto” il reato di epidemia né trasformato in criminali i cittadini che non fanno un tampone o violano una quarantena, ma ha semplicemente ribadito che, in presenza di una posizione di garanzia e di un nesso causale provato, l’omissione può rilevare penalmente anche per il reato di epidemia colposa.

Colombia: liberati 33 soldati rapiti

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Trentatré soldati rapiti da una milizia armata ribelle, sono stati rilasciati. I soldati sono stati rapiti lo scorso 25 agosto, dopo una serie di scontri nella zona rurale del comune di El Retorno che hanno portato alla morte di 11 miliziani appartenenti a una fazione dissidente delle Forze armate rivoluzionarie della Colombia, ex milizia armata ribelle. I soldati sarebbero stati rapiti poco prima dell’evacuazione della zona. La regione in cui sono stati rapiti è una roccaforte di una delle fazioni dissidenti delle FARC che ha respinto l’accordo di pace siglato con il governo nel 2016; è considerata un corridoio per il narcotraffico.

Spese militari: per la prima volta tutti i Paesi NATO raggiungono il 2% del PIL

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Nel 2025, per la prima volta, tutti gli alleati europei della Nato e il Canada raggiungeranno l’obiettivo di destinare almeno il 2% del PIL alla difesa, fissato nel 2014 e mai pienamente rispettato finora. Secondo i dati diffusi dall’Alleanza, anche Paesi come Italia, Belgio e Spagna supereranno la soglia, mentre l’Islanda resta esclusa perché priva di forze armate. Nel complesso, la spesa dei membri europei e canadesi salirà al 2,27% del PIL, contro l’1,40% del 2014. Con gli Stati Uniti, il dato raggiunge il 2,76%. La Polonia guida con il 4,48%, davanti ai Baltici, mentre Washington, pur con il bilancio più elevato al mondo, si colloca al 3,22%. L’Italia arriva al 2,01%. Secondo gli accordi, tutti i Paesi NATO dovranno arrivare a investire il 5% del PIL in armi e difesa entro i prossimi dieci anni.

Nello specifico, le tabelle – che presentano statistiche basate sui dati standardizzati comunicati dai dipartimenti di Difesa nazionali – dimostrano che gli Stati Uniti si sono ampiamente confermati al vertice della classifica per spesa militare, avendo messo sul piatto circa 980 miliardi di dollari (attorno ai 900 miliardi di euro). Con ampio distacco, al secondo posto per spesa in termini assoluti c’è il Regno Unito, con oltre 70 miliardi di sterline (circa 90,5 miliardi di euro) pari al 2,40% del PIL. Mentre per la Germania non sono ancora disponibili i dati riferiti al 2025, la Francia raggiunge il 2,05% del PIL, spendendo 66,5 miliardi di euro nel settore della difesa. Cresce – e di molto – la spesa militare in Italia, che nel 2025 supera i 45 miliardi di euro (nel 2014, ammontava a “soli” 18 miliardi) e si attesta al 2,01%. La Spagna, con poco più di 33 miliardi di spesa, tocca il 2%. Nel 2025 i Paesi Bassi hanno destinato 26,1 miliardi di euro alla difesa (2,49% del PIL), mentre la Polonia ha speso 44,3 miliardi di euro, pari al 4,48% del PIL, risultando tra i Paesi con il maggior impegno relativo. In coda alla classifica per valori assoluti si trovano la Grecia con 7,1 miliardi (2,85% del PIL), la Norvegia con 16,5 miliardi (3,35%) e la Danimarca con 14,3 miliardi (3,22%).

Nel frattempo, però, lo scorso giugno i ministri della Difesa dei 32 Paesi membri della NATO si sono accordati sui nuovi obiettivi per le spese militari. In particolare, si è arrivati a un’intesa di compromesso tra i vari attori incentrata sull’aumento delle capacità nazionali della Difesa al 3,5% del PIL, aggiungendo un ulteriore e più discrezionale 1,5% in investimenti correlati, tra cui le infrastrutture e la cybersicurezza. Per raggiungere appieno gli obiettivi richiesti dalla NATO, l’Italia dovrebbe investire circa 66 miliardi di euro in più all’anno nella Difesa. Che, a meno di miracoli economici, si tradurranno fisiologicamente in tagli alla spesa sociale, indebitamenti e privatizzazioni. Per far quadrare i conti, l’Italia ha già chiesto all’UE di poter inserire nel bilancio per la Difesa opere strategiche quali il Ponte sullo Stretto di Messina, secondo il governo un’infrastruttura «imperativa e prevalente per l’interesse pubblico» in quanto potrebbe dover essere necessaria per «il passaggio di truppe e mezzi della NATO». Come evidenziato dall’Osservatorio Milex, infatti, per raggiungere gli obiettivi di spesa richiesti l’Italia è costretta a inserire nel bilancio altre voci fino ad ora non considerate.

Strage di migranti al largo della Mauritania: almeno 49 morti

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Al largo della Mauritania, una piroga carica di migranti diretti verso le isole Canarie è naufragata nella notte tra martedì e mercoledì. Secondo quanto attestato nelle ultime ore dalle autorità locali, sull’imbarcazione viaggiavano circa 160 persone. Il bilancio, a più di 48 ore dal dramma, è di almeno 49 morti. Decine di persone risultano ancora disperse, secondo quanto riferito dalla guardia costiera e dalla gendarmeria mauritane all’agenzia AFP. Le operazioni di ricerca e soccorso continuano in un disperato tentativo di trovare superstiti.

Gli USA hanno stanziato 45 miliardi di dollari per il sistema carcerario privato

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Nel One Big Beautiful Bill Act (OBBBA), la legge di bilancio firmata da Trump che prevede ingenti investimenti nel settore della Difesa, oltre che nuovi progetti di estrattivismo e disboscamento, è previsto un investimento di ben 45 miliardi di dollari per la costruzione di centri privati di detenzione, anche dei migranti. Non è la prima volta che Trump elargisce generosi finanziamenti al settore: d’altronde, i colossi del settore delle carceri private (come CoreCivic e GEO Group) hanno contribuito alla campagna elettorale del presidente statunitense con importanti donazioni.

Come riportato dal National Immigration Law Center (NILC) e dal Brennan Center for Justice, la legge OBBBA ha stanziato 45 miliardi di dollari per il Dipartimento della Sicurezza Interna (DHS) da destinare alla detenzione di adulti e famiglie migranti. Questo importo, disponibile fino al 2029, quadruplica il budget annuale di detenzione dell’Immigration and Customs Enforcement (ICE) e mira a più che raddoppiare la capacità del sistema di detenzione, portandola da circa 40.000 a oltre 100.000 posti letto. Le fonti sottolineano che gran parte di questa espansione avverrà attraverso l’uso di strutture gestite da compagnie private, che già oggi detengono quasi il 90% degli individui sotto la custodia dell’ICE. Così, le compagnie carcerarie private sono destinate a guadagnare un mucchio di soldi da questa politica di Trump.

La generosità della legge di bilancio non è un fenomeno isolato, ma si inserisce in un quadro di legami e conflitti di interesse che risalgono al primo mandato di Trump. Le maggiori compagnie del settore, CoreCivic e GEO Group, sono noti donatori delle campagne elettorali e dei comitati di Trump. Come denunciato dal Project On Government Oversight (POGO), pochi giorni prima delle elezioni del 2024, un alto funzionario dell’ICE ha lasciato il suo incarico per assumere una posizione di rilievo in GEO Group. L’amministrazione ha già iniziato a stipulare contratti senza gara d’appalto con queste aziende, citando una “urgenza imperativa” per aumentare la capacità di detenzione. 

Queste pratiche, insieme ai finanziamenti diretti, dimostrano una chiara volontà politica di favorire compagnie come CoreCivic e GEO Group. E non è la prima volta che questo avviene. Un’inchiesta del The Guardian del 2017, basata sui dati dell’Institute for Policy Studies (IPS), ha calcolato che le riduzioni fiscali contenute nella legge di bilancio nell’anno dopo la sua elezione, in particolare l’abbassamento dell’imposta sul reddito delle società dal 35% al 21%, hanno garantito a queste due aziende un risparmio fiscale di circa 4,4 miliardi di dollari spalmati in dieci anni.

Le organizzazioni per i diritti umani, come la Robert F. Kennedy Human Rights, oltre a denunciare questo sistema carcerario privatizzato, hanno evidenziato i crescenti rischi finanziari per chi investe in queste aziende a causa di denunce di sotto-organico, negligenza medica e, soprattutto, abusi. Secondo Just Security, la legge di bilancio USA del 2025, concentrando una somma così ingente sulla detenzione, crea un complesso industriale della detenzione e deportazione che sarà difficile da smantellare negli anni a venire.

Il modello di business delle carceri private solleva questioni etiche e sociali profonde. In un mondo dove la detenzione diventa un prodotto, l’obiettivo non è più la sicurezza pubblica o la riabilitazione, ma il profitto. Un’analisi dell’American Civil Liberties Union (ACLU) sottolinea come le aziende private abbiano storicamente fatto pressioni per l’adozione di politiche punitive, come le leggi sul “three strikes“, che aumentano il numero di persone in carcere e garantiscono un flusso costante di entrate. ACLU sostiene che molti dei contratti con il governo contengono clausole che impongono un tasso di occupazione minimo, creando un incentivo perverso a mantenere le prigioni piene.

In questo modo, l’interesse economico delle compagnie si lega direttamente alla privazione della libertà dei cittadini, trasformando un servizio pubblico fondamentale in una macchina per fare soldi. Il sistema carcerario, che dovrebbe essere un mezzo di riabilitazione, diventa un fine a sé stante, con i costi sociali e umani che ricadono su tutti.

Thailandia, Corte Costituzionale destituisce premier: “Violazione etica”

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La Corte Costituzionale thailandese ha destituito la premier Paetongtarn Shinawatra, già sospesa a luglio, per una telefonata considerata inappropriata con l’ex primo ministro cambogiano Hun Sen. Durante la conversazione, incentrata su una disputa territoriale tra i due Paesi, Paetongtarn avrebbe usato toni eccessivamente deferenti, configurando secondo i giudici una violazione etica. La decisione, immediatamente esecutiva, segna la quinta rimozione di un primo ministro thailandese dal 2008 a oggi da parte della Corte Costituzionale, confermando l’instabilità politica che caratterizza il Paese da oltre quindici anni.

Yemen, primo ministro Houthi ucciso in un raid israeliano

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Ahmed al-Rahawi, primo ministro del governo ribelle Houthi nello Yemen, è stato ucciso in un attacco aereo israeliano a Sana’a. Secondo quanto riferito anche dai media yemeniti, i raid dell’IDF ha colpito l’appartamento in cui si trovava, uccidendo anche alcuni suoi compagni. L’esercito israeliano ha confermato di aver colpito un «obiettivo militare» Houthi nella capitale, prendendo di mira alti funzionari del gruppo. In un raid separato, sarebbero stati attaccati anche altri 10 ministri, incluso quello della Difesa. Il ministro israeliano Katz ha dichiarato: «Chiunque alzi una mano contro Israele la perderà».

Stellantis allunga la cassa integrazione in Italia e investe in Marocco e Algeria

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In casa Stellantis, la luce in fondo al tunnel non si riesce proprio a vedere. A Pomigliano d’Arco, storico sito produttivo campano, è stato infatti firmato un pre-accordo tra l’azienda e le sigle sindacali che estende di un ulteriore anno, fino all’8 settembre 2026, la cassa integrazione in regime di solidarietà in deroga per 3.750 lavoratori. La misura, che prevede una riduzione media dell’orario di lavoro fino al 75%, arriva dopo il biennio concesso dalla cassa integrazione ordinaria, ormai esaurito. Inoltre, Stellantis ha comunicato ai sindacati la necessità di prolungare la durata della solidarietà per 2.297 lavoratori dello stabilimento di Mirafiori (Torino) fino al 31 gennaio. La produttività dell’azienda è in calo in tutti gli stabilimenti italiani, con flessioni fino al 72% rispetto all’anno scorso. Nel mentre, l’azienda sta delocalizzando la produzione in Paesi africani come in Marocco e Algeria, dove conta di aumentare gli investimenti e assumere più personale.

La situazione a Pomigliano, nonostante trainasse fino a poco fa il 64% della produzione nazionale di Stellantis in Italia, è critica. Nel primo semestre del 2025 ha prodotto 78.975 vetture, il 24% in meno rispetto allo stesso periodo del 2024. La Panda, suo fiore all’occhiello, con 67.500 unità rappresenta ancora oltre la metà dei volumi italiani, ma mostra segnali di affaticamento. A pesare sono la contrazione del mercato, il debutto della nuova Grande Panda (prodotta in Serbia) che “pesta i piedi” alla versione italiana, e persino i dazi di Trump che hanno fermato la produzione della Dodge Hornet. Per i lavoratori, gli effetti sono tangibili: ogni giorno di cassa integrazione significa circa 35 euro lordi in meno in busta paga. Con sette-otto giorni di CIG al mese, il taglio si aggira tra i 240 e i 280 euro lordi, un colpo durissimo per stipendi che si attestano sui 1.500-1.600 euro netti.

La firma del pre-accordo con Fim, Uilm, Fismic, Ugl e Aqcf prevede anche un verbale congiunto per chiedere alla Regione Campania un sostegno al reddito destinato a permettere la partecipazione ai percorsi formativi collegati ai contratti di solidarietà. Per i sindacati la solidarietà «non può e non deve diventare una soluzione strutturale. È uno strumento di difesa, non di gestione ordinaria». I rappresentanti sindacali hanno chiesto al Governo di convocare i vertici dell’azienda. Dal canto suo, Stellantis giustifica la richiesta di ulteriori ammortizzatori con la fase di incertezza del mercato auto e con la necessità di gestire volumi ridotti; segnala però anche intenti di riorganizzazione industriale e investimenti esteri che non convincono i sindacati, preoccupati per la delocalizzazione di volumi strategici.

Mentre Termoli ha già concordato misure analoghe per 1.823 lavoratori dal 1° settembre 2025 al 31 agosto 2026, A Torino, la solidarietà riguarderà 903 operai del comparto che produce la 500 elettrica, 674 addetti alla produzione di Maserati, 300 dell’ex Pcma, 294 addetti al reparto Presse, 85 della costruzione stampi e i 41 operai dell’ex Tea. In un comunicato congiunto, i sindacati (Fim, Fiom, Uilm, Fismic, Uglm e Associazione Quadri Fiat) hanno espresso profonda preoccupazione per la situazione produttiva di Stellantis a Torino. Pur riconoscendo la positiva imminente produzione della Fiat 500 ibrida, hanno evidenziato come ai lavoratori, dopo circa 18 anni di utilizzo della cassa integrazione, vengano nuovamente richiesti sacrifici economici a causa della carenza di produzione. Per far fronte a questa fase complessa, è stato concordato l’utilizzo di prestiti e trasferimenti temporanei dei dipendenti verso altre sedi europee del gruppo. L’azienda si è impegnata ad anticipare l’integrazione salariale. Tuttavia, i sindacati ritengono che la 500 ibrida da sola non sia sufficiente e chiedono con urgenza l’assegnazione di un nuovo modello da affiancarle allo stabilimento di Mirafiori.

La situazione è però diversa dall’altra parte del Mediterraneo. Come evidenziano i sindacati, l’azienda ha infatti annunciato ingenti investimenti in Marocco e Algeria, dove i costi produttivi sono notevolmente più bassi. Una strategia che le sigle sindacali accusano di essere una delle cause della crisi italiana. Nel frattempo, stando a quanto raccontano fonti interne allo stabilimento serbo di Stellantis a Kragujevac, l’azienda sta assumendo manodopera a basso costo dal Nord Africa per far fronte alla carenza di operai locali. Questi ultimi, infatti, rifiutano di lavorare per gli stipendi offerti (circa 600 euro). I nuovi dipendenti marocchini percepiscono uno stipendio base di 300 euro, integrato da un’indennità di trasferta di 700 euro. «Il nostro modello più importante, la Nuova Panda, è stato assegnato e viene prodotto in Serbia e solo pochi giorni fa è stato annunciato un investimento in Marocco», denuncia la Fiom Cgil, dipingendo uno scenario in cui l’Italia viene «superata da Paesi dell’Est Europa e doppiata dal Marocco».

A livello generale, i dati di produzione dei primi sei mesi del 2025 di Stellantis confermano il peggioramento rispetto al già critico 2024. Lo attesta, in particolare, il rapporto recentemente pubblicato da Fim-Cisl, in cui si prevede una chiusura d’anno intorno alle 440.000 unità totali, con circa 250.000 autovetture prodotte. «Nel primo semestre 2025 sono state prodotte complessivamente 221.885 unità tra autovetture e veicoli commerciali, in calo del -26,9% rispetto allo stesso periodo del 2024 – si legge nel report -. Le autovetture registrano una flessione del -33,6% (123.905 unità), mentre i veicoli commerciali sono scesi del -16,3% (97.980 unità)».