Nella notte, l’esercito israeliano ha lanciato una massiccia invasione di Gaza City con raid aerei, droni, elicotteri e mezzi corazzati. I tank e le unità speciali hanno raggiunto il centro urbano. Washington ha ribadito il sostegno a Israele, con Trump che ha avvertito Hamas di non usare i prigionieri come scudi umani. Su X, il portavoce per i media arabi delle Forze di difesa israeliane (Idf), il colonnello Adraee, ha invitato i residenti a evacuare «il più rapidamente possibile». L’Idf sostiene di controllare già il 40% della città. Nel frattempo, le famiglie degli ostaggi israeliani protestano davanti alla residenza del premier Netanyahu.
La morte di Charlie Kirk come scusa per rastrellare la rete
Il 10 settembre, Charlie Kirk, influencer e attivista di spicco del movimento MAGA statunitense, è stato assassinato in un campus dello Utah, ucciso da un colpo d’arma da fuoco al collo. Prima ancora che venisse confermato il decesso o identificato il colpevole, i principali volti dell’estrema destra hanno indirizzato accuse alla “sinistra”, al mondo “woke”, alle persone trans e ai movimenti antifa. In breve tempo, questa narrativa si è tradotta in una campagna di doxing contro chiunque avesse espresso opinioni sulla vittima che potessero essere intese in chiave negativa.
Figura divisiva per eccellenza, Kirk era noto per le sue posizioni controverse: antiabortista, negazionista del cambiamento climatico, sostenitore dell’idea che le donne dovessero privilegiare la maternità rispetto al lavoro. Era un megafono della disinformazione trumpiana e un fervente difensore del diritto a possedere armi. A suo dire, “valeva la pena” accettare qualche vittima in sparatorie pur di difendere la sacralità del Secondo Emendamento. Non sorprende quindi che il suo omicidio abbia suscitato reazioni polarizzate, incluse esternazioni apertamente celebrative.
Le motivazioni dell’attentato restano ancora oggi oscure e non sembrano riconducibili a uno schema politico lineare. Nei giorni successivi all’attentato è stato arrestato un sospetto, Tyler Robinson, 22 anni, il quale non sta però collaborando con gli inquirenti. Quel poco che è emerso dal profilo pubblico del giovane lascia intendere che le sue visioni politiche siano incoerenti, che integrino al loro interno elementi appartenenti all’intero spettro ideologico. Ciò non ha impedito al presidente Donald Trump di attribuire la responsabilità alla “sinistra radicale”, rea di equiparare le idee di Kirk alla dottrina nazista. “Questa retorica è direttamente responsabile del terrorismo che stiamo vedendo oggi nella nazione e deve essere fermata immediatamente”, ha dichiarato in conferenza stampa.
L’alt-right si è rapidamente mobilitata. “Se siete così malati da celebrare la sua morte, preparatevi a vedere distrutte le vostre aspirazioni professionali”, ha scritto su X Laura Loomer, influencer vicina all’amministrazione Trump e una delle celebrità che han deciso di indurre i propri follower a segnalare ai datori di lavoro chiunque avesse reagito positivamente all’assassinio di Kirk. Intorno a questa “missione” è sorto addirittura un portale, charliesmurderers, il quale raccoglieva e pubblicava le informazioni pubbliche di tutti coloro che venivano considerati colpevoli di odio.
Il sito, lanciato in forma anonima, ospitava screenshot di profili social e ha innescato ondate di cyberbullismo contro i soggetti che sono stati esposti. La definizione di contenuto celebrativo si è dimostrata peraltro estremamente elastica: la giornalista Rachel Gilmore, ad esempio, è stata presa di mira per un messaggio che, letto oggi, appare più premonitore che aggressivo. “Sono terrorizzata all’idea che i fan di estrema destra di Kirk possano trasformare questo lutto in un’occasione di ulteriore radicalizzazione”, aveva scritto su X. “Finiranno con il credere che le loro paure sono state confermate e penseranno di avere il diritto di ‘vendicarsi’ a prescindere da chi ci sia veramente dietro alla sparatoria?”.

Un tuo dipendente o studente sta supportando la violenza politica online? Cercali su questo sito web».
Oggi charliesmurderers risulta inaccessibile (ma non cancellato) e l’iniziativa è confluita in un sito meno esplicito e compromettente, gestito da un account denominato Charlie Kirk Data Foundation. Nel frattempo, le campagne di denuncia mosse dall’alt-right hanno già avuto conseguenze tangibili: oltre alle numerose molestie ricevute dai bersagli, secondo un’inchiesta di Al Jazeera, almeno 15 persone sono state licenziate per le opinioni espresse nei confronti dell’attentato. Una statistica in progressiva crescita. L’attività di denuncia assumerebbe una proporzione ancora più importante qualora si realizzassero le intenzioni del Segretario di Stato Marco Rubio, il quale sostiene che bisognerebbe revocare il visto a tutti coloro che celebrano l’assassinio di un personaggio politico. “Perché mai dovremmo voler portare nel nostro Paese persone che adotteranno comportamenti negativi e distruttivi?”, ha dichiarato ai microfoni di Fox News.
L’incontro tra politica e doxing non è un fenomeno inedito. Già all’indomani dell’assalto al Campidoglio era comparso il controverso sito Faces of the Riot, il quale raccoglieva immagini e video caricati su social Parler dai manifestanti, facilitandone l’identificazione attraverso il crowdsourcing. Nel 2018, una strategia simile era stata adottata dall’artista Kyle McDonald per individuare i funzionari dell’agenzia di immigrazione statunitense. Ciò che avviene oggi non è quindi un episodio isolato, ma l’ennesimo passo in un’escalation che vede il web trasformarsi in strumento di sorveglianza partecipata. Una deriva degna d’attenzione, soprattutto perché non si limita a colpire chi compie azioni illegali, ma tende a criminalizzare la parola stessa.
USA, Trump fa causa al New York Times per diffamazione: vuole 15 miliardi
Donald Trump ha avviato una causa per diffamazione da 15 miliardi di dollari contro il New York Times e quattro giornalisti, accusandoli di aver diffuso dichiarazioni false e dannose. Il procedimento, presentato in Florida, fa riferimento a articoli e un libro pubblicati in vista delle elezioni del 2024, descritti come parte di una campagna decennale di diffamazione deliberata. In un post su Truth Social, Trump ha accusato il quotidiano di essere diventato «portavoce» dei Democratici. Il tycoon ha già intrapreso azioni simili, tra cui una causa da 10 miliardi contro il Wall Street Journal e Rupert Murdoch.
Gli USA continuano ad aumentare le provocazioni militari contro il Venezuela
Si intensifica lo scontro tra Stati Uniti e Venezuela, con un’escalation di provocazioni militari da parte di Washington e una scambio di accuse incrociate. Caracas denuncia una serie di azioni militari statunitensi, definite “illegittime” e imputa alla marina statunitense di aver assassinato undici civili, identificati da Washington come narcotrafficanti del gruppo denominato Tren de Aragua. Secondo il ministro degli Interni venezuelano, Diosdado Cabello, nessuna delle vittime apparteneva all’organizzazione e ciò che si contesta è l’assenza di indagini trasparenti o di una regolare procedura di arresto, sostituite da un uso immediato e letale della forza. Parallelamente, venerdì 12 settembre un episodio che il ministro degli Esteri Yván Gilun ha definito un “atto ostile e illegale” è avvenuto in acque territoriale del Venezuela: il cacciatorpediniere USS Jason Dunham avrebbe intercettato il peschereccio venezuelano Carmen Rosa con nove pescatori e lo avrebbe occupato per otto ore impedendo comunicazioni e attività normali. Il governo USA non ha confermato l’operazione. A ciò si aggiunge l’invio di jet F-35 a Porto Rico e l’ammassamento di navi da guerra e sottomarini al largo delle coste venezuelane, come parte del dispiegamento ordinato dal presidente Donald Trump nei Caraibi per rafforzare le operazioni contro il traffico di droga. La presenza militare statunitense nei Caraibi non è limitata a operazioni antinarcotici: assume una dimensione strategica, che il governo venezuelano considera una istigazione calibrata per mettere alla prova la risolutezza di Caracas e preparare il terreno per una escalation.
Il Ministero della Difesa venezuelano denuncia, inoltre, che le operazioni di intelligence statunitense sono triplicate in agosto e avvengono ormai quotidianamente, anche di notte, violando lo spazio aereo della Regione di Informazione di Volo (FIR, Flight Information Region) di Caracas. Sono segnalati voli non autorizzati da parte di aerei spia USA (come RC-135, E-3 Sentry, KC-135), che operano fino a 200 miglia all’interno del territorio venezuelano. Caracas accusa Washington di voler costruire una narrazione che giustifichi una minaccia militare e un futuro intervento e assicura che proteggerà i suoi pescatori e respingerà ogni attacco. In risposta a queste ripetute provocazioni, infatti, il presidente Nicolás Maduro ha avviato il “Plan Independencia 200”, che contempla l’attivazione di 284 “fronti di battaglia” in punti strategici del Paese, con l’obiettivo dichiarato di preservare la sovranità nazionale. Il Piano prevede l’arruolamento nella Milizia Bolivariana, addestramento territoriale e fasi di lotta disarmata e armata, affidando a ogni cittadino un ruolo nella difesa nazionale. Con oltre 15.000 unità popolari coordinate dai Consigli Comunali, l’iniziativa mira a proteggere il Paese, mantenendo «le coste libere da imperialisti, invasori e gruppi di violenza». Le accuse venezuelane puntano anche a evidenziare la discrepanza tra le affermazioni di Washington e i fatti documentati da Caracas. Sui casi recenti si notano analogie con operazioni passate in cui gli Stati Uniti hanno giustificato interventi navali, attacchi o addirittura golpe nel contesto della lotta al narcotraffico, senza fornire prove concrete o trasparenti che potessero giustificare tali azioni. Per il Venezuela ciò rappresenta non solo una violazione del diritto internazionale – in particolare della zona economica esclusiva che garantisce diritti sovrani al Paese fino a 200 miglia nautiche dalla costa – ma un uso strumentale della lotta alla droga per coprire obiettivi geopolitici.
Un tema centrale della critica venezuelana riguarda, infatti, la narrazione che Washington utilizza per giustificare queste operazioni. Il governo statunitense bolla come “terroristi” o “narcotrafficanti” le persone coinvolte in questi fatti di cronaca e accusa il presidente Maduro di connivenza o controllo criminale. Un contributo significativo alla difesa dell’immagine venezuelana in campo internazionale arriva dall’ex vicesegretario generale dell’ONU, Pino Arlacchi, e che ha definito come «una grande bufala geopolitica» l’impostazione secondo la quale il Venezuela sarebbe un narco-Stato: i dati del Rapporto Mondiale sulle Droghe 2025 dell’UNODC smentiscono, infatti, che il Venezuela sia un centro significativo di produzione o smistamento internazionale della cocaina, indicando che solo una frazione marginale della droga colombiana transita attraverso il suo territorio, e che non esistono prove credibili che colleghino lo Stato venezuelano al fantasioso Cartel de los Soles, come entità centrale del narcotraffico. Le rotte della droga seguono logiche precise: vicinanza ai centri di produzione, facilità di trasporto, corruzione delle autorità locali, presenza di reti criminali consolidate: criteri che il Venezuela non soddisfa del tutto. Per questo motivo, Caracas respinge le accuse americane, affermando che la designazione di narco-Stato sia parte di una strategia di “cambio di regime” attuata attraverso pressioni esterne, sanzioni, attacchi militari indiretti e propaganda.
10 regole per camminare in montagna riducendo i possibili rischi
Andare in montagna non è una passeggiata, recitava una campagna social di fine agosto, con un gioco di parole che esplicita una grande verità. In montagna ci si muove su terreni complessi, le condizioni meteo possono mutare rapidamente e, senza esperienza o abitudine ad affrontare i pericoli e gli imprevisti che possono presentarsi, il rischio di incidente aumenta sensibilmente. L’estate 2025 in montagna ha visto un record tragico: secondo i dati forniti dal CNSAS (Corpo Nazionale Soccorso Alpino e Speleologico) tra il 21 giugno e il 23 luglio si sono contati 83 decessi e 5 dispersi, quasi tre incidenti mortali al giorno. Ma il bilancio non si è arrestato: da fine giugno a meta agosto, le vittime sono arrivate a quota 100, con un +20% di interventi rispetto alla media stagionale. Il CNSAS evidenzia che circa il 44% degli interventi riguarda escursionisti vittime di malori o cadute, mentre il restante 56% riguarda attività di vario tipo. L’escursionismo è dunque il contesto più coinvolto, con quasi metà dei casi, seguito da sci, mountain bike, alpinismo, ferrate e ricerca di funghi
Perché accade? Con l’aumento del turismo di montagna, in un trend che da dopo il Covid non accenna a placarsi, aumenta anche il numero di escursionisti poco preparati: senza equipaggiamento adeguato, privi di acqua, orientamento o consapevolezza dei propri limiti. Uno dei fattori più citati è l’influenza dei social network, dove foto e storie virali spingono molti a tentare il “selfie perfetto” o l’impresa da raccontare a qualsiasi costo, spesso senza preparazione. L’incremento degli interventi ha messo a dura prova le squadre di soccorso, soprattutto volontari, chiamati a operare anche 6–8 missioni al giorno in contesti difficili e pericolosi, con un carico emotivo e fisico significativo.
La sicurezza assoluta, in montagna, non esiste e nessuno può garantirvela. Però, anche se i pericoli in montagna non si possono eliminare del tutto, quello che possiamo fare è preparare al meglio ogni singola escursione, per ridurre i rischi il più possibile; “mitigare il rischio”, insegnano le Guide Alpine italiane nei corsi di formazione. Come? Prendendo diversi accorgimenti prima di partire e sapendo in anticipo che cosa fare in caso di emergenza.
1. Se cammini da solo, avvisa
Può sembrare una banalità, e invece non lo è. Se decidi di uscire per un’escursione in solitaria, anche semplice, avvisa comunque qualcuno spiegando dove andrai, il percorso che intendi seguire, e gli orari i cui pensi di partire e tornare.
2. Studia bene percorso (anche se è semplice)

Anche in caso di una semplice escursione, studia bene il percorso sulla mappa. In generale è buona cosa utilizzare quelle cartacee. Chi preferisce quelle digitali deve ricordarsi di portare con sé un caricabatterie e di poter accedere alle mappe anche se il telefono non prende. Pianifica gli orari tenendo presente che, senza andare troppo forte, si percorrono 3/400 metri all’ora in salita e 4 o 5 km all’ora in piano. Stabilisci prima di partire un possibile piano b in caso di maltempo come un rifugio o una malga in cui ripararti, un paese facilmente raggiungibile, etc. Se il giro è lungo, controlla prima di partire le possibili fonti d’acqua sul percorso. Se non sei un escursionista esperto, e non ti stai facendo accompagnare da un professionista, in montagna è meglio percorrere i sentieri tracciati e segnalati.
3. Controlla le condizioni metereologiche
Controlla attentamente i bollettini meteo prima della gita, soprattutto nel giorno precedente, quando le previsioni sono più accurate. Ci sono decine di applicazioni, anche con funzioni professionali. In generale quelle che mostrano, attraverso il radar, l’evoluzione di nubi e piogge sono più affidabili. Se ancora non ti basta puoi cercare contatti e chiedere a guide locali o ad esempio ai rifugisti. Un temporale improvviso in montagna può essere rischioso, e quindi valuta con attenzione. Meglio rimandare la gita che trovarsi in una situazione spiacevole o difficile da gestire.
4. Fai bene lo zaino

La grandezza dello zaino dipende dall’escursione: per un trekking giornaliero uno zaino da 20 litri in genere è più che sufficiente. L’importante è cosa ci mettiamo dentro. In montagna si porta sempre una giacca antivento e antipioggia. Un pile leggero nella stagione calda al quale, ad esempio in autunno, possiamo aggiungere un piumino leggero, un paio di guanti e un berretto. Una maglietta e un paio di calze di ricambio. Almeno 1 litro e mezzo d’acqua. Crema solare e occhiali da sole. Cibo per il pranzo, una barretta, rutta o frutta secca per merenda. Un kit di pronto soccorso che contenga cerotti, garze e bende, un disinfettante, una o due coperte termiche e le pinzette per togliere le zecche. Un coltellino multiuso può essere di grande aiuto nelle situazioni più disparate.
5. Corretta attrezzatura

A partire dalle scarpe, è fondamentale avere la giusta attrezzatura. Le scarpe da ginnastica, come suggerisce il nome, servono per fare altro. Quelle da trekking vanno bene su percorsi brevi e perlopiù asciutti. Le calzature più adatte per trekking ed escursioni sono gli scarponcini da montagna, che ormai sono declinati in decine di marchi, materiali e caratteristiche. Non servono per forza i più performanti, ma avere una calzatura medio-alta innanzitutto protegge la caviglia da distorsioni e dalla caduta di sassi, e poi ci permette di affrontare al meglio i diversi tipi di terreno e le diverse pendenze che si incontreranno sul cammino. I pantaloni da trekking, così come magliette specifiche – sintetiche o in lana merinos – permettono la giusta traspirabilità, facendoci sudare meno. Occhiali leggeri ci permettono di utilizzarli tutto il giorno senza che “pesino” sul naso. Un buono zaino, indossato nella maniera corretta, peserà meno sulle spalle scaricando sulla cintura lombare.
6. Saluta chi incontri sui sentieri
In montagna è importante salutare, guardando il viso delle persone che si incontrano. Non lo si fa solo per educazione, ma soprattutto perché, in caso di mancato ritorno a valle, è più facile che gli altri escursionisti ricordino il viso della persona scomparsa, potendo dare indicazioni su dove e quando l’avevano incontrata.
7. Allertare i soccorsi nel modo corretto
Impara ad allertare i soccorsi nel modo corretto perché, in una situazione d’emergenza, bisogna essere presenti, chiari e concisi. In Italia il numero unico per le emergenze è il 112, con un centralino che poi smista le diverse chiamate. In genere bisogna essere pronti a comunicare dove ci si trova in quel momento (più precisi siamo e meglio è), in quanti siamo, in quanti si sono fatti male e se abbiamo idea della gravità dell’incidente, se il posto è adatto per far atterrare un elicottero (siamo in bosco? Se possibile è meglio spostarci, ci sono fili elettrici? Meglio dirlo all’operatore). Se affrontiamo una gita in cui il telefono non prende per grandi tratti, possiamo valutare anticipatamente la possibilità di un telefono satellitare o di strumenti tecnologi appositi, che permettono di comunicare con i soccorsi utilizzando i satelliti e quindi anche in assenza di rete telefonica.
8. Non sottovalutare mai i pericoli
Gli incidenti possono capitare proprio a causa della sottovalutazione di un possibile pericolo. Succede ad esempio in escursioni con itinerari conosciuti, dove il fatto di averli percorsi diverse volte, ci porta a rischiare di più. Una pioggerellina fine durante il percorso, in vetta può trasformarsi in un brutto acquazzone. Una brezza di valle durante la camminata può diventare un vento molto forte in cresta. Una discesa affrontata quando si è troppo stanchi e le gambe non tengono più, può diventare un problema, così come l’essersi caricati troppo peso nello zaino o il non aver abbastanza cibo o acqua.
9. Non sopravvalutare le tue capacità

“Ho fatto dislivelli ben maggiori, figurati se non riesco ad arrivare i cima anche questa volta!”. Oppure: “Se ce l’ha fatta il mio amico ieri, non vedo perché non possa farcela io oggi”, e così via. Forzarsi per raggiungere una cima è una cosa che può accadere, farlo senza rendersi conto di esporsi a un rischio, può diventare un grande problema. A partire da una considerazione da tener sempre presente: non devi arrivare in cima per forza. Se le condizioni non lo permettono, se quel giorno sei più stanco del solito, se “ascoltandoti” senti che questa volta non è il caso di insistere, è più saggio tornare indietro tutti interi, per poterci riprovare la prossima volta.
10. Non lasciare traccia
Porta con te tutti i rifiuti. Anche quelli che pensi che si possano biodegradare nell’ambiente, come fazzoletti o bucce di frutta, in realtà possono rappresentare un problema, soprattutto per gli animali selvatici. Per non sbagliare è sempre meglio non lasciare traccia del tuo passaggio e non cercare di interagire con gli animali che incontri, che siano selvatici o animali al pascolo che spesso sono protetti da cani da guardia, mal disposti con chiunque si avvicini agli animali che loro devono proteggere.
Germania, Rheinmetall acquisisce divisione navale del gruppo Luerssen
L’azienda tedesca Rheinmetall, specializzata nel settore della difesa, ha annunciato l’acquisizione di Naval Vessels Luerssen (Nvl), la divisione navale del gruppo Luerssen. Il completamento dell’operazione, previsto per l’inizio del 2026, è subordinato all’approvazione delle autorità antitrust. Con questa mossa, come reso noto in un comunicato pubblicato dalla stessa azienda, Rheinmetall intende ampliare il suo portafoglio entrando nel mercato della cantieristica militare navale e consolidando la sua posizione di leader europeo delle tecnologie per la difesa. Il prezzo dell’accordo non è stato reso noto dalle parti.
Ai Mondiali di atletica, per la prima volta, per gareggiare come donna serve il test genetico
Dopo l’annuncio della World Boxing per il pugilato dilettantistico è arrivato anche quello della World Athletics: per poter prendere parte alle competizioni di atletica leggera, le atlete donne devono sottoporsi a un test del DNA, al fine di determinarne con un certo grado di certezza il sesso biologico. La verifica consiste, per entrambe gli enti, nell’esame del gene SRY (Sex-determining Region Y), generalmente presente sul cromosoma Y e considerato un elemento affidabile per determinare se biologicamente la persona sia uomo o donna. Gli annunci seguono quanto accaduto alle Olimpiadi 2024 con la pugile Imane Khelif, accusata (senza che esistesse alcuna prova pubblica) di non essere “completamente donna” e di aver goduto, per questo, di un sostanziale vantaggio sulle avversarie.
Il regolamento è già in vigore per gli attuali Mondiali di atletica di Tokyo, iniziati lo scorso sabato 13 settembre. Il test, realizzato tramite tampone buccale o prelievo del sangue, riguarda il gene SRY, considerato «un indicatore affidabile per determinare il sesso biologico». Sebastian Coe, presidente della World Athletics, ha dichiarato che «in uno sport che cerca costantemente di attirare più donne, è davvero importante che queste ultime entrino in questo mondo credendo che non esistano barriere biologiche». Dunque, «a livello agonistico, per competere nella categoria femminile, bisogna essere biologicamente donne». Per la World Athletics, la categoria delle donne può comprendere: le «donne biologiche»; le donne che non abbiano utilizzato testosterone per compiere il percorso di affermazione di genere maschile da almeno un anno; maschi biologici affetti da sindrome di insensibilità completa agli androgeni e che dunque non hanno attraversato il periodo di sviluppo sessuale maschile; maschi biologici con una DSD che soddisfi le disposizioni transitorie emanate dalla World Athletics.
Il 30 maggio scorso, la World Boxing, l’ente che si occupa del pugilato a livello dilettantistico, aveva introdotto la medesima misura, basata sempre sull’analisi del gene SRY. Il test è obbligatorio per tutti gli atleti al di sopra dei 18 anni che desiderino partecipare a una competizione organizzata dall’ente. «Gli atleti considerati maschi alla nascita, come dimostrato dalla presenza del materiale genetico del cromosoma Y (il gene SRY) o con una differenza dello sviluppo sessuale (DSD) in cui si verifica l’androgenizzazione maschile, saranno ammessi a competere nella categoria maschile», mentre «gli atleti considerati femmine alla nascita, come dimostrato dalla presenza dei cromosomi XX o dall’assenza del materiale genetico del cromosoma Y (il gene SRY) o con un DSD in cui non si verifica l’androgenizzazione maschile, potranno competere nella categoria femminile» riporta il comunicato. In caso sia riscontrata la presenza di materiale genetico del cromosoma Y e un eventuale Disturbo della Differenziazione Sessuale (DSD), allora «gli screening iniziali saranno sottoposti a specialisti clinici indipendenti per lo screening genetico, i profili ormonali, l’esame anatomico o altre valutazioni dei profili endocrini da parte di medici specialisti».
La decisione dei due enti prova a dare una risposta agli interrogativi esplosi dopo la partecipazione della pugile Imane Khelif alle Olimpiadi del 2024. Dopo ave vinto il match contro l’avversaria Angela Carini, Khelif era stata accusata, per via della sua struttura fisica, di essere prima una transessuale, poi un travestito, poi ancora una persona intersessuale – il tutto su base di pura speculazione mediatica, senza che vi fosse alcun documento a supportare nessuna tesi. Recentemente, proprio a causa del suo rifiuto a sottoporsi al test genetico, Khelif non è stata ammessa ai Mondiali di pugilato di Liverpool.
La procedura individuata dai due enti si propone di trovare “una volta per tutte” una soluzione a un problema complesso: la classificazione delle persone intersessuali (ovvero che persone che presentano, a livello biologico, differenze o variazioni nello sviluppo del sesso, che possono riguardare tanto cromosomi e ormoni sessuali quanto i genitali esterni o gli organi riproduttivi interni). Tuttavia, questa non è sufficiente per tracciare delle linee con un sufficiente margine di certezza. Per citare solamente un paio di esempi, vi sono casi in cui persone nate con cromosoma XY hanno il gene SRY che non risponde agli androgeni, con il conseguente sviluppo di tratti somatici chiaramente femmini (Sindrome di Morris). In altri casi, invece, persone con cromosoma XX possiedono il gene SRY (Sindrome de la Chapelle).
OII Europe, l’associazione che si occupa della tutela delle persone intersex, ha criticato la scelta di World Athletics e World Boxing definendo il test del SRY «imperfetto» e ricordato che la stessa World Athletics lo aveva bandito, dopo averlo introdotto negli anni Novanta, a causa dell’alto numero di falsi positivi e di casi di DSD. L’associazione ha anche ricordato che «le prove scientifiche dimostrano che una moltitudine di fattori influenzano e incidono sulle prestazioni atletiche e il testosterone è solo uno dei tanti fattori (ad esempio l’assorbimento di ossigeno, la densità capillare o la capacità di tollerare alti livelli di acido lattico) che incidono sulle prestazioni». Secondo l’OII, le nuove norme costituiscono il risultato del diffondersi, da un lato, di politiche discriminatorie nei confronti della comunità LGBTI e, dall’altro, dalle politiche trumpiane, che impongono il divieto alle atlete trans di partecipare alle competizioni sportive.
La questione riporta a galla un tema complesso, ovvero la divisione in categorie degli atleti nelle competizioni. Il sistema impiegato fino ad oggi, che suddivide le persone in base a età, sesso e peso, non risponde evidentemente alla complessità di casistiche nelle quali ci si può imbattere. Non si tratta affatto di un tema da poco conto, soprattutto negli sport da combattimento, dove si può incorrere in seri rischi per l’incolumità di una persona. Eppure, la biologia stessa – con tutte quelle varianti che, con eccesso di medicalizzazione, si tende a indicare come “sindromi” e “disturbi” – ci mostra che la sessualità non è binaria, ma prevede un’ampia serie di variabili. Un concetto ancora difficile da elaborare a livello di società e, forse per questo, ancora più complesso da applicare allo sport.
Che cosa sappiamo dei presunti droni “russi” in Polonia e Romania
Negli ultimi giorni, la cronaca internazionale è stata monopolizzata dalla notizia dello sconfinamento di alcuni presunti droni “russi” nello spazio aereo polacco e romeno. Presunti perchè, al momento, la loro attribuzione resta incerta, dal momento che non esistono numeri seriali o componenti identificativi che permettano di identificarli in maniera inequivocabile. Non esiste nemmeno, al momento, alcuna prova che quelli atterrati in Polonia fossero armati, mentre per quanto riguarda la Romania le ricerche sono ancora in corso. Nonostante ciò, è stata immediatamente costruita una cornice mediatica che indica la Russia come colpevole di “aggressione”, con il risultato di rafforzare il clima di tensione internazionale e spingere i Paesi NATO ad invocare il rafforzamento delle proprie difese.
Cosa sappiamo
In Romania, nella serata del 13 settembre, il Ministero della Difesa ha comunicato di aver rilevato un drone nei radar, inviando F-16 a monitorarlo fino alla sparizione del segnale vicino a Chilia Veche, senza però attribuirne la provenienza e annunciando ricerche per eventuali rottami. Per l’incidente polacco del 10 settembre si parla, invece, di 19 apparecchi del tipo Gerbera, utilizzati in genere per osservazione o saturazione, quindi, non armati. Tre sono stati abbattuti dai caccia NATO, tre sarebbero atterrati da soli nei campi, uno si è schiantato contro un’abitazione provocando danni materiali ma nessuna vittima, mentre degli altri non si conosce la sorte. Alcuni media hanno presentato i droni come missili o armi letali, ma le analisi sui rottami rinvenuti a Lublino non hanno evidenziato né esplosivi né carichi militari. L’autonomia limitata dei modelli Gerbera rende improbabile che potessero raggiungere in profondità il territorio polacco partendo dalla Russia: lo stesso Ministero della Difesa russo ha chiarito che nelle operazioni notturne non erano previsti obiettivi in Polonia. Mosca si è detta pronta a discutere l’accaduto con la controparte polacca, segnalando la volontà di evitare un’ulteriore escalation. A questo si aggiunge che nessun frammento recuperato è stato collegato con certezza a droni russi tramite numeri seriali o componenti identificativi.
Proprio la natura degli apparecchi recuperati su suolo polacco solleva dubbi sulla ricostruzione mainstream: si tratta, infatti, di droni-esca, leggeri, spesso privi di carico o con componentistica minima, costruiti con materiali economici come polistirolo, senza testata esplosiva. Le perizie preliminari effettuate in Polonia non hanno, infatti, rilevato tracce di esplosivi, elemento che smentisce l’idea di un attacco militare diretto. Anche l’autonomia di questi modelli – stimata tra 300 e 600 chilometri – non coincide con la traiettoria attribuita a Mosca: se il lancio fosse avvenuto dalla Russia, avrebbero dovuto superare distanze poco compatibili con le loro prestazioni. Inoltre, la stessa NATO ha riconosciuto di non avere certezze né sul numero dei droni effettivamente entrati nello spazio polacco, né sul fatto che l’incursione fosse intenzionale. Il fatto che alcuni droni abbiano sorvolato indisturbati per diversi chilometri il cielo polacco, siano stati recuperati quasi intatti, siano precipitati in campi senza causare vittime né danni rilevanti, suggerisce che non si sia trattato di un’azione militare offensiva, ma piuttosto dell’impiego di apparecchi da ricognizione o destinati a saturare le difese. Un ulteriore elemento contraddittorio emerge dalle dichiarazioni del generale Wiesław Kukuła, Capo di Stato maggiore polacco, e del ministro degli Esteri Sikorski, secondo i quali sarebbe stata la Bielorussia ad avvertire Varsavia della presenza dei droni fuori rotta. Una circostanza che mal si concilia con l’idea di un “test russo” deliberato per sondare le difese NATO.
Anche se le accuse contro Mosca restano per ora non provate, Varsavia ha convocato l’incaricato d’affari russo, presentando una nota di protesta, e ha invocato l’Articolo 4 del Trattato della NATO, non l’Articolo 5: un fatto che segnala esplicitamente che, al di là dei toni, il governo polacco non considera l’accaduto come un’aggressione armata. Le possibili spiegazioni dell’incidente sono molteplici e nessuna appare definitiva. L’ipotesi di un attacco deliberato russo appare la meno plausibile: perché rischiare un’escalation con la NATO con 19 droni da ricognizione non armati? Altre ipotesi parlano di false flag ucraine, di test di prontezza delle difese NATO o di disturbi elettronici che avrebbero deviato gli apparecchi. Una tesi ancora diversa, avanzata dallo stesso Zelensky, suggerisce che Mosca possa avere interesse a costringere l’Alleanza a trattenere le proprie difese antiaeree per proteggere i confini anziché inviarle in Ucraina. In sintesi, Kiev teme che Mosca possa avere pianificato le incursioni nello spazio aereo polacco e romeno in modo che la NATO preferisca rafforzare le proprie difese anziché spedire sistemi antiaerei avanzati in Ucraina. In ogni caso, resta un elemento chiave: nessuna di queste teorie ha trovato conferma pubblica e si rimane nel mero piano delle ipotesi.
La NATO mostra i muscoli
Nel frattempo, però, la vicenda ha già prodotto conseguenze tangibili: rafforzamento del fianco orientale della NATO tramite l’operazione Sentinella dell’Est, dispiegamento di circa quarantamila soldati lungo i confini orientali con la Bielorussia e la Russia, nuove forniture militari. La Polonia, inoltre, ha confermato l’arrivo di 43,7 miliardi di euro dal programma SAFE per incrementare sistemi antiaerei, droni e artiglieria, mentre la Commissione europea ha rilanciato il progetto dello “Eastern Shield”, 700 km di fortificazioni, barriere, infrastrutture e difesa anti-drone al confine con Bielorussia e Russia. Non si tratta soltanto di sicurezza: è un meccanismo che consente di convogliare risorse e consolidare consenso politico. Lo schema alla base è simile a quanto già avvenuto in passato. Negli ultimi due anni, la Russia è stata più volte accusata di sabotaggi in Europa – incendi sospetti, danneggiamenti e incursioni – ma senza prove pubbliche definitive. Episodi in Polonia, Norvegia e Regno Unito sono stati attribuiti a fantomatiche reti filorusse, mentre Mosca ha sempre respinto le accuse come infondate, parlando di narrativa costruita ad hoc. Più recentemente, con le presunte interferenze al sistema GPS del volo che trasportava Ursula von der Leyen verso Sofia, i media occidentali hanno indicato senza esitazione Mosca come colpevole (si parlò apertamente di “jamming russo” e di “guerra ibrida”), fino alla smentita ufficiale di Flightradar24 prima e poi del governo bulgaro: in definitiva, il sabotaggio che ha monopolizzato le prime pagine dei media internazionali non c’è mai stato. Lo stesso schema si era visto con l’attentato al Nord Stream, per il quale la Russia fu subito additata come responsabile: le indagini successive hanno portato all’arresto in Italia di un cittadino ucraino, dimostrando che la realtà è più complessa e a volte molto diversa rispetto alle versioni precostituite. La narrazione che punta immediatamente il dito contro Mosca risulta funzionale: permette di consolidare l’idea di una minaccia russa estesa oltre l’Ucraina e di giustificare nuove misure militari e finanziarie, a prescindere dalla solidità delle prove. Alla fine, la domanda centrale resta senza risposta: a chi giova davvero questo sconfinamento? Alla Russia, che rischierebbe un conflitto aperto con la NATO, o piuttosto a chi può trasformare l’ennesimo episodio ambiguo in leva politica per consolidare consenso, ottenere fondi e rafforzare un’escalation che sembra non avere fine? Le prove tecniche, al momento, non autorizzano conclusioni affrettate, ma la costruzione della narrazione mainstream procede a prescindere, sacrificando la prudenza e la verifica sull’altare della convenienza geopolitica.