sabato 5 Luglio 2025
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A Panama continuano le proteste di massa contro multinazionali e governo neoliberista

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Sono almeno 34 gli agenti gravemente feriti nelle proteste che stanno attraversando Panama da oltre un mese e mezzo. Alle radici della protesta vi è l’approvazione del disegno di legge di sicurezza sociale 462, la quale introduce modifiche al fondo di previdenza sociale che potrebbero portare a una riduzione delle pensioni. Gli scioperi e le proteste dei lavoratori hanno spinto la multinazionale Chiquita a licenziare circa 7 mila dipendenti delle piantagioni, dopo aver dichiarato che le proteste hanno causato un danno all’azienda di almeno 75 milioni di dollari. Nel frattempo, le comunità indigene hanno dato il via a una protesta contro l’intenzione del governo di riaprire la miniera a cielo aperto più grande del Centroamerica, situata nel territorio di Ngäbe-Buglé. A ciò si aggiunge il malcontento per il memorandum siglato con gli Stati Uniti, che autorizza una maggior presenza di militari statunitensi nell’isola. Le profonde spaccature tra il governo e la società civile stanno causando, da oltre un mese e mezzo, alcune delle proteste più intense che abbiano attraversato il piccolo Stato da molti decenni a questa parte.

Le rivolte più intense si sono registrate nella provincia di Bocas del Toro e nella Comunità Arimae, nella Regione di Darién. Qui, il Difensore Civico ha denunciato ieri, martedì 10 giugno, l’uso eccessivo di gas lacrimogeni contro la comunità, la stessa dove un membro del Servizio Nazionale della Frontiera è stato ferito gravemente. Qui, come a Bocas del Toro, la comunità aveva sbarrato le vie d’accesso al centro cittadino per impedire il passaggio degli agenti, ma queste sono state mano a mano rimosse, tanto che il Difensore ha invitato la polizia ad astenersi dal fare irruzione nella comunità, oltre ad invitare la popolazione a diffidare delle informazioni dei media in quanto potrebbero riportare informazioni errate su morti e feriti – scatenando così nuove proteste.

Nell’arco dell’ultimo mese, i manifestanti hanno messo in atto blocchi stradali, disertato il lavoro nei campi e dato il via a lunghe marce di protesta, con danni significativi ai trasporti e all’approvvigionamento di beni, contro la legge che riforma il funzionamento della Cassa di Previdenza Sociale (CSS) panamense. Secondo alcuni imprenditori, l’impatto economico e sociale delle proteste sta portando la provincia di Bocas “sull’orlo del collasso”, con un forte impatto economico e sociale sulla popolazione locale. L’economia del luogo dipende infatti in larga parte dall’industria bananiera e dal turismo, entrambe messi sotto grave minaccia dalle rivolte. La Camera del Commercio ha annunciato il rischio di “collasso” dell’intera attività economica di Bocas.

Eppure, le proteste non si fermano. Ad essere contestata è, in particolare, la legge 462, che riforma il sistema pensionistico “garantendo la pensione a tutti”. Secondo il governo, infatti, misure urgenti erano necessarie dal momento che la CSS si trova sull’orlo del “collasso finanziario”, necessitando quindi iniziative contro l’evasione fiscale e per una gestione “efficiente e trasparente” che, assicura il governo, non altererà alcuna pensione e “non privatizzerà” la Cassa. Nell’annunciare l’approvazione della misura, lo scorso 18 marzo, Mulino ha dichiarato un piano di riattivazione di opere a livello nazionale e di nuovi investimenti, che avrebbero dovuto generare 10 mila posti di lavoro rafforzando la base contributiva alla CSS (secondo quanto riferisce il governo, infatti, circa la metà della popolazione panamense in età adulta non pagherebbe i contributi). La legge, che intende mantenere l’età pensionabile a 62 anni per gli uomini e 57 per le donne, garantisce anche che i fondi per l’istruzione non verranno privatizzati (il 90% sarà gestito dalla Banca Nazionale, il restante 10% da altre banche).

Eppure, secondo i critici della riforma, ci sono alte probabilità che questa vada a impattare negativamente sulle pensioni, col rischio di aumentare l’età pensionabile dei lavoratori. A ribellarsi, in particolar modo, sono stati i dipendenti della multinazionale Chiquita, la quale ha annunciato il licenziamento di migliaia di lavoratori delle piantagioni (7 mila, secondo i media) a seguito di un danno di almeno 75 milioni di dollari causato dalle proteste. Ieri, 10 giugno, è iniziato il primo round di colloqui con il Sindacato dei Lavoratori dell’Industria Bananiera (Sitraibana) all’interno dell’Assemblea Nazionale.

In questo contesto di forte tensione sociale, Panama e gli Stati Uniti hanno siglato un memorandum che autorizza Washington a inviare contingenti di forze di sicurezza, che saranno libere di realizzare “attività umanitarie” o di altro tipo, secondo la necessità. Un accordo che sembra giungere giusto in tempo per assicurare la tutela degli interessi del governo e delle multinazionali, a fronte del profondo scontento sociale che smuove lo Stato. Proprio nelle scorse settimane, infatti, la possibile riapertura della miniera di proprietà della canadese First Quantum Minerals ha messo in allarme la comunità di Ngäbe-Buglé, dove si concentra la maggior parte della popolazione indigena dell’isola.

Il Congo ha concluso con successo una storica reintroduzione di gorilla in natura

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Quattro femmine di gorilla di pianura orientale, salvate da piccole dal commercio illegale e riabilitate per anni, sono state rilasciate con successo nel Parco nazionale Virunga nella Repubblica Democratica del Congo (RDC), e, a meno di un anno dal trasferimento, si sono integrate spontaneamente con un gruppo di gorilla selvatici, dando vita a quella che viene considerata la più ampia reintroduzione mai tentata per questa sottospecie in grave pericolo di estinzione. Lo rivelano i conservazionisti del centro GRACE – il Gorilla Rehabilitation and Conservation Education Center, dedicato alla cura...

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Trump ha ufficialmente riaperto la corsa delle trivelle nella natura dell’Alaska

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L’amministrazione Trump ha annunciato la revoca del divieto di trivellazione su oltre 9 milioni di ettari nella Riserva Petrolifera Nazionale in Alaska, imposto da Joe Biden nel 2023. Il segretario degli Interni, omologo del nostro Ministro dell’Ambiente, Doug Burgum, ha dichiarato che l’energia nazionale è prioritaria rispetto alla conservazione ambientale. Il provvedimento riapre così vasti territori ad attività estrattive, sia petrolifere che minerarie, suscitando dure critiche da gruppi ambientalisti e comunità indigene, i quali temono danni permanenti a biodiversità e risorse vitali. L’area interessata, tra le più selvagge degli Stati Uniti, è habitat di caribù, orsi polari e uccelli migratori ed è storicamente centrale per la sussistenza delle popolazioni locali.

La decisione è stata resa pubblica durante una visita ufficiale in Alaska, dove Burgum – affiancato dall’amministratore dell’Agenzia per la protezione ambientale Lee Zeldin e dal segretario all’Energia Chris Wright – ha ribadito l’impegno della nuova amministrazione a “rimuovere ostacoli regolatori” e a “sbloccare il potenziale energetico nazionale”. «L’America ha bisogno di energia, non di ostruzionismo burocratico», ha affermato Burgum, in linea con il ritorno alla Casa Bianca del presidente Trump, che già nei primi giorni del suo secondo mandato ha dichiarato una “emergenza energetica nazionale” e firmato una serie di ordini esecutivi a favore dell’industria dei combustibili fossili. Tra questi, figura proprio l’annullamento di uno dei principali provvedimenti ambientali adottati sotto l’amministrazione Biden: il blocco delle trivellazioni su oltre 13 milioni di ettari della National Petroleum Reserve-Alaska e la negazione del permesso per la costruzione di una strada industriale di 340 chilometri attraverso il Gates of the Arctic National Park, richiesta per l’accesso a un giacimento di rame dal valore stimato di 7,5 miliardi di dollari. L’annuncio faceva parte di un pacchetto di misure con cui Biden intendeva rafforzare la propria eredità in materia di clima e conservazione, dopo le critiche ricevute per l’approvazione del contestato progetto petrolifero Willow. «Le terre e le acque dell’Alaska sono tra i paesaggi più straordinari e sani del pianeta», aveva dichiarato Biden all’epoca. «Sostengono un’economia di sussistenza vitale per le comunità native».

Ora, l’inversione di rotta dell’esecutivo Trump riporta tutto al punto di partenza. Ma la risposta delle organizzazioni ambientaliste non si è fatta attendere. «Questo è l’ennesimo tentativo oltraggioso di svendere terre pubbliche ai miliardari dell’industria petrolifera, sacrificando una delle ultime regioni veramente selvagge degli Stati Uniti», ha affermato Kristen Miller, direttrice dell’Alaska Wilderness League. «Queste terre sono fondamentali per la sopravvivenza di specie minacciate e per le comunità indigene che da generazioni ne dipendono. Non resteremo in silenzio mentre vengono smantellate le tutele conquistate». Tuttavia, nonostante l’aggressiva strategia pro-estrazioni, i mercati non sembrano reagire con entusiasmo. L’asta per le concessioni nell’Arctic National Wildlife Refuge, altro territorio simbolo del nord estremo, è rimasta senza offerte all’inizio dell’anno. «Ci sono luoghi troppo preziosi per essere trivellati», aveva commentato allora Laura Daniel-Davis, vice segretaria ad interim del Dipartimento degli Interni. Già nel 2021 un’asta nello stesso territorio aveva raccolto offerte soltanto per 12 dei 22 blocchi resi disponibili, circa la metà della superficie totale. Assenti le maggiori compagnie e gruppi petroliferi, solo alcune le società private che avevano mostrato interesse nelle concessioni acquisendo due blocchi. I 9 restanti erano stati vinti dallo stesso governo dell’Alaska a nome di un’agenzia statale molto criticata dagli ambientalisti, l’Alaska Industrial Development and Export Authority. I blocchi invenduti erano quindi stati ritirati dall’asta, che si era conclusa con una vendita di appena 14,4 milioni di dollari, un risultato ben lontano dalle cifre previste. Le ragioni di un tale disinteresse da parte dell’industria petrolifera potrebbero essere diverse, tra cui minori guadagni, rifiuto di finanziamenti in trivellazioni dalle banche, opposizioni ambientaliste e civili e timori per una politica più restrittiva nel settore.

La mossa dell’amministrazione Trump è destinata comunque ad aprire un fronte legale complesso, con probabili ricorsi da parte di ONG, comunità indigene e stati guidati dai democratici. Lo scontro tra interessi economici e tutela ambientale, in Alaska, è appena ricominciato. La linea dell’attuale governo è però chiara: si punta sull’espansione della produzione energetica interna, ignorando completamente le ripercussioni sul sistema socio-economico che deriverebbero dalla compromissione di ecosistemi e biodiversità.

Gaza, Regno Unito sanziona due ministri israeliani: “Incitano a violenza”

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Il Regno Unito ha imposto sanzioni ai ministri israeliani Itamar Ben-Gvir (Sicurezza nazionale) e Bezalel Smotrich (Finanze), accusandoli di aver incitato a «violenze estremiste e gravi abusi dei diritti umani» contro i palestinesi. Le misure includono il divieto di ingresso nel paese e il congelamento di eventuali beni. Ben-Gvir ha più volte sostenuto l’espulsione dei civili da Gaza e si è opposto a un cessate il fuoco. Smotrich promuove l’annessione di fatto della Cisgiordania, sostenendo che Gaza vada «distrutta completamente» e i civili trasferiti altrove. Israele ha definito «vergognosa» la decisione britannica, che arriva mentre le tensioni nella regione restano altissime.

Palestine Action: la mobilitazione dal basso che fa tremare l’occupazione

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Nulla sembra scalfire il sostegno occidentale all’alleato sionista, dimostrato con il reiterato invio di armi e il mancato rispetto del mandato d’arresto emesso dalla Corte Penale Internazionale ai danni del premier israeliano Netanyahu. Eppure, la pressione popolare ha portato, nell’ultimo anno, molti Stati europei a riconoscere lo Stato di Palestina, tante istituzioni e università a cessare gli accordi di cooperazione con Israele e decine di aziende multinazionali ad abbandonare i propri rapporti con l’occupazione. Le azioni di boicottaggio sono infatti state talmente incisive da farne vacil...

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Grecia, tribunale revoca seggio a 3 parlamentari di estrema destra

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Un tribunale greco ha revocato i seggi parlamentari a tre deputati dell’estrema destra (partito Spartans), eletti nel 2023, accusandoli di aver ingannato gli elettori. La sentenza riduce i seggi in Parlamento da 300 a 297, abbassando a 149 la maggioranza assoluta. Il tribunale ha stabilito che il partito era guidato indirettamente da un condannato – ex leader di Alba Dorata, partito dal 2020 considerato fuorilegge -, violando la legge greca che vieta a partiti con leader condannati per gravi reati di partecipare alle elezioni. Non saranno necessarie nuove elezioni. Il governo conservatore, con 155 seggi, mantiene la maggioranza.

Attivisti sorvegliati e giornalisti spiati dallo Stato italiano: le versioni non tornano

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Il Copasir ha pubblicato la relazione finale sul cosiddetto “caso Paragon”, fornendo la versione ufficiale del Governo circa i rapporti tra lo Stato italiano e lo spyware Graphite, utilizzato per spiare illegalmente giornalisti e attivisti. Il documento offre alcune risposte, tuttavia lascia ampi margini di ambiguità, i quali sono ulteriormente acuiti dal fatto che, a pochi giorni dalla pubblicazione, la stessa azienda produttrice del software – Paragon Solutions – ha diffuso una nota che non combacia con la narrazione fornita da Roma.

Da che, a inizio anno, il direttore di Fanpage Francesco Cancellato ha scoperto di essere stato sorvegliato tramite un programma a uso esclusivo dei governi, lo Stato italiano ha gestito questa crisi adottando un atteggiamento contraddittorio e poco trasparente, spendendo più energie nello scagionarsi piuttosto che nel fare chiarezza su chi abbia effettivamente messo sotto controllo le vittime. A indagare è stato infine il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir), il quale ha condotto un’istruttoria a porte chiuse.

Gli esiti dell’inchiesta hanno rivelato che Paragon Solutions aveva stipulato un contratto di fornitura con i servizi segreti italiani, autorizzando l’uso di Graphite all’AISE (per le operazioni all’estero) e all’AISI (per quelle interne), con la clausola esplicita che ne vietava l’impiego “contro giornalisti e attivisti per i diritti umani”. Secondo quanto ricostruito nella relazione, il 14 febbraio 2025, “a seguito del clamore mediatico”, il Governo avrebbe dunque deciso di sospendere temporaneamente il contratto con Paragon, per poi rescinderlo in via definitiva il 12 aprile.

Il Copasir esplicita nero su bianco che figure chiave dell’ONG Mediterranea Saving Humans, quali Luca Casarini e Beppe Caccia, sono sotto intercettazione ormai da anni. Le prime attività di sorveglianza risalgono al 2019 e sono state autorizzate dal Governo Conte, queste sono state seguite da un secondo ciclo “di natura più ampia” che si è protratto dal maggio 2020 al maggio 2024. L’impiego di Graphite è stato autorizzato il 5 settembre 2024 dal sottosegretario Alfredo Mantovano. Secondo il Copasir, tale utilizzo sarebbe legittimo, poiché “tali soggetti sono stati sottoposti ad attività intercettiva non in qualità di attivisti per i diritti umani, ma in riferimento alle loro attività potenzialmente relative all’immigrazione irregolare”.

Il Governo, quindi, ammette di aver monitorato alcuni attivisti, ma rivendica la legittimità dell’operazione. Al contempo, nega di aver mai spiato Cancellato, dando a intendere che il suo telefono possa essere stato compromesso da entità straniere. Tuttavia, la relazione precisa che non è possibile stabilire con certezza chi abbia spiato il giornalista, poiché Paragon Solutions “non avrebbe accesso e non sarebbe a conoscenza dell’identità dei soggetti che vengono presi di mira dai clienti o dei dati che vengono registrati dal suo dispositivo”.

Paragon Solutions, da parte sua, ha replicato con una versione dei fatti diversa. In una dichiarazione riportata da Haaretz, l’azienda ha affermato di aver “offerto sia al Governo italiano che al Parlamento un metodo per determinare se i suoi sistemi siano stati impiegati contro il giornalista”, ma – dal momento che “le autorità italiane hanno deciso di non procedere con questa soluzione, Paragon ha terminato il suo contratto con l’Italia”. 

Fonti dell’intelligence, citate da Fanpage, hanno a loro volta risposto alle implicite accuse di Paragon, definendo “inaccettabile la proposta di Paragon di effettuare una verifica sui log di sistema delle piattaforme Graphite in uso ad Aise e Aisi, in quanto pratiche invasive, non verificabili nell’ampiezza, nei risultati e nel metodo e, pertanto, non conformi alle esigenze di sicurezza nazionale”. Il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (DIS), invece, ha negato qualsiasi rifiuto alla collaborazione, sostenendo che siano stati eseguiti tutti gli accertamenti del caso e sottolineando che la cessazione del rapporto con Paragon è avvenuta “di comune accordo”.

Bufera negli USA: 400 farmaci approvati dalla FDA non avrebbero gli standard richiesti

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Una inchiesta durata due anni, condotta dai giornalisti Jeanne Lenzer e Shannon Brownlee e pubblicata da The Lever, solleva enormi dubbi sul ruolo e l’integrità della Food and Drug Administration (FDA), l’agenzia statunitense incaricata, tra le altre cose, di approvare la messa in circolazione di nuovi farmaci. Centinaia di questi verrebbero infatti immessi sul mercato senza prove concrete della loro reale efficacia e, talvolta, persino dopo che la loro inutilità è stata dimostrata. Il cuore del problema risiede spesso nel meccanismo delle cosiddette “approvazioni accelerate” (Accelerated Approval Pathway), ideato per velocizzare l’accesso a farmaci potenzialmente salvavita per condizioni gravi o rare. Tuttavia, come rivela l’inchiesta, questo percorso è diventato una scorciatoia che elude standard di efficacia rigorosi. Un sistema che dimostra come il profitto venga sempre prima di ogni cosa, salute compresa.

La FDA ha approvato centinaia di farmaci non basandosi su risultati clinici concreti e dimostrabili, come una maggiore sopravvivenza a una malattia o un miglioramento della qualità della vita, ma bensì attraverso un procedimento accelerato che fa affidamento su indicatori indiretti o misurazioni di laboratorio (i cosiddetti “endpoint surrogati”). Sono 253 i farmaci approvati attraverso tale percorso accelerato tra il 2008 e il 2021. Di questi, ben 112 (il 44%) non avevano ancora dimostrato un beneficio clinico diretto anche otto anni dopo l’approvazione, mentre i restanti 42 si trovavano ancora in commercio dopo 10 anni senza prova di efficacia. Ciò significa che i pazienti potrebbero assumere per anni farmaci costosi e potenzialmente con effetti collaterali, senza alcun reale beneficio terapeutico. Un esempio eclatante citato è quello di Aduhelm, un farmaco per l’Alzheimer, approvato contro il parere del proprio comitato consultivo scientifico, solo per essere successivamente ritirato a causa della mancanza di prove di efficacia e per i costi esorbitanti.

Come riportato nell’inchiesta, solo 3 su 123 farmaci antitumorali approvati tra il 2013 e il 2022 hanno soddisfatto tutti e quattro gli standard scientifici di base della FDA. La maggior parte (81%) è stata approvata sulla base di endpoint surrogati come il restringimento tumorale, senza alcuna prova che migliorassero la sopravvivenza o la qualità della vita. Copiktra, per esempio, un farmaco approvato nel 2018 per i tumori del sangue, è stato approvato dalla FDA sulla base di una migliore “sopravvivenza senza progressione”, senza quindi nessun effetto visibile e collegabile. 

Secondo Lenzer e ìBrownlee, la “promessa” dietro le approvazioni accelerate era quella che le aziende farmaceutiche avrebbero dovuto condurre studi di conferma post-marketing per dimostrare l’efficacia clinica – dunque, una sorta di sperimentazione di massa. Molte aziende hanno ritardato o non completano mai questi studi e la FDA si è mostrata incredibilmente lenta nel ritirare i farmaci inefficaci dal mercato. Tra il 1992 e il 2023, solo 10 farmaci approvati con questo percorso sono stati ritirati per mancanza di efficacia. Il tempo medio per il ritiro, quando questo si verifica, è di sei anni. Sia le procedure in messe in atto che i ritardi spaventosi fanno sollevare seri interrogativi sull’operato dell’agenzia e sulla sua capacità di proteggere i cittadini una volta che un prodotto è sul mercato.

D’altronde, la FDA si affida a dati forniti dalle stesse aziende farmaceutiche, che conducono i propri studi e determinano la loro conclusione. L’agenzia, poi, non conduce test indipendenti e non è autorizzata a farlo dalla legge. Questa dipendenza dal settore che dovrebbe regolamentare crea un conflitto di interessi endemico e porta la ricerca di profitto ad avere la meglio sulla rigorosità scientifica. Questo non solo aumenta i costi della sanità, ma erode anche la fiducia nella scienza medica e nelle istituzioni regolatorie.

Le implicazioni di questo sistema sono gravi. Non solo i pazienti vengono esposti a farmaci inefficaci, ma le loro tasche e i sistemi sanitari vengono prosciugati. Le assicurazioni, inclusi i programmi federali come Medicare e Medicaid, sono costrette a rimborsare farmaci la cui utilità non è provata, trasformando il pubblico pagante in un involontario finanziatore di quelli che, di fatto, diventano test clinici di massa su persone ignare. Tutto questo ci dovrebbe interrogare sulla possibilità di profitto privato in certi settori, come appunto quello della salute e della sanità, dove anche coloro che dovrebbero tutelare il cittadino si trasformano in strumenti utili alle aziende per accelerare i profitti.

ChatGPT down: problemi in tutto il mondo, segnalazioni anche in Italia

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Dalle 8:30 di oggi, 10 giugno 2025, numerosi utenti stanno riscontrando gravi malfunzionamenti su ChatGPT. Il chatbot, noto per rispondere in tempo reale a domande su qualsiasi argomento, risulta spesso completamente bloccato o genera risposte con tempi di attesa molto lunghi. Downdetector ha registrato un picco di segnalazioni poco prima delle 11:00. In Italia, le città che vedono il maggior numero di segnalazioni sono Milano, Roma, Napoli, Venezia, Bologna, Torino e Perugia. OpenAI ha confermato il problema e sta lavorando per risolverlo. Al momento la piattaforma risulta ancora instabile a livello globale.

I dubbi dell’anticorruzione sul Ponte sullo Stretto: “Nessuna chiarezza sui costi”

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Il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, Giuseppe Busia, ha espresso numerose perplessità sul Ponte sullo Stretto in occasione di un’audizione davanti alle Commissioni riunite Ambiente e Trasporti della Camera. Nonostante il via libera definitivo del ministero dell’Ambiente, Busia ha denunciato l’assenza di un progetto esecutivo completo, che impedisce una visione chiara dei costi e aumenta i rischi economici. Ha chiesto un piano unitario e maggiori controlli antimafia, anche sui subappalti e gli affidamenti inferiori ai 150mila euro. Ha poi sollevato dubbi sul rispetto delle norme UE sugli appalti, evidenziando il rischio di sforamenti di spesa oltre il limite consentito del 50%. La palla è ora in mano al Cipess, che riunisce i ministri economici coinvolti, che sarà chiamato a esaminare il progetto. Dopo tale passaggio, potrà partire la fase operativa.

Busia ha tenuto la sua audizione in occasione dell’esame del decreto Infrastrutture, cui hanno partecipato anche DIA, Federbalneari e l’Associazione Rete Civica per le Infrastrutture nel Mezzogiorno. Una delle problematiche messe al centro dal presidente dell’ANAC circa l’annoso dibattito sulla realizzazione del Ponte sullo Stretto è quello della attuale «assenza del progetto esecutivo completo». Busia ha affermando che «sarebbe auspicabile si arrivasse nel frattempo al progetto esecutivo complessivo per dare al governo e al Parlamento una visione chiara di quali sono almeno i costi iniziali». Infatti, ha spiegato, «sappiamo che dopo l’approvazione del progetto esecutivo ci possono essere delle varianti e la storia insegna che spesso aumentano i costi ma non essendo stata fatta la gara e quindi, essendo al limite della soglia di tolleranza, anche nell’interpretazione più benevola questo sarebbe molto importante». Il presidente dell’ANAC ha fatto notare come la normativa europea richieda «che non ci si discosti, in termini di costi, di più del 50% del valore messo ordinariamente in gara», evidenziando che «il valore messo a base di gara del Ponte era molto inferiore, quasi la metà, di quello preso come riferimento oggi». Dunque, se l’Aula del parlamento ratificherà il decreto, «ci sarà una copertura di tipo normativo per la responsabilità, ma residua il fatto che il legislatore nazionale non può derogare alla disposizione che peraltro il decreto correttamente richiama come vincolo», ha detto.

I rilievi avanzati da Busia non finiscono qui. Il presidente dell’anticorruzione evidenzia infatti che, relativamente al Ponte sullo Stretto, nel Dl Infrastrutture «non si fa riferimento alle verifiche antimafia, alle verifiche sulle imprese», affermando che «un’opera di queste dimensioni, anche finanziaria, richiede un innalzamento delle verifiche». Busia ha spiegato che questo decreto possa «rappresentare l’occasione per prevedere l’utilizzo nella progettazione di tutti gli elementi della digitalizzazione, anche dei cantieri, in modo da verificare tutte le imprese, anche quelle in subappalto dove si realizzano, più volte, le più pericolose infiltrazioni di mafia e per garantire la sicurezza dei lavoratori». Secondo il presidente dell’ANAC si tratterebbe di «un aumento, credo condiviso da tutti, che può essere inserito in questo decreto abbassando le soglie dei controlli antimafia, che sono ordinariamente fissati a 150mila, invece estendendolo per le imprese che hanno affidamenti anche inferiori». Perplessità condivise anche dalla vice direttrice operativa della Dia, Lorena Di Galante DIA, segnalando che «per i contratti di lavori, forniture e servizi» nel decreto si richiedono «solamente liberatorie provvisorie». Snellendo, di fatto, il procedimento relativo alle verifiche antimafia in materia di Protezione civile.

Nel mese di maggio è arrivato il via libera definitivo del ministero dell’Ambiente al Ponte sullo Stretto, con il progetto che ora deve passare all’esame del Cipess, il Comitato interministeriale per la programmazione economica e lo sviluppo sostenibile. Ad aprile, il governo italiano aveva inviato un dossier alla Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen in cui il Ponte sullo Stretto è stato inquadrato addirittura come una questione di sicurezza continentale. La realizzazione dell’opera è stata infatti definita dall’esecutivo «imperativa e prevalente per l’interesse pubblico» non solo per ragioni economiche o di protezione civile, ma anche e soprattutto per motivazioni geopolitiche e militari, fondamentali in caso di scenari di guerra per «il passaggio di truppe e mezzi della NATO». La strategia del governo è infatti quella di inserire il ponte nel Military Mobility Action Plan dell’UE, il piano continentale per facilitare il movimento rapido delle forze armate, contando così sull’etichetta di “opera strategica militare” al fine di ottenere le indispensabili deroghe ambientali. Se la Commissione europea darà l’ok, il Ponte sullo Stretto potrebbe perfino rientrare nel novero delle spese militari utili a far crescere il rapporto spesa-difesa/Pil, come auspicato dall’Alleanza Atlantica.