martedì 25 Novembre 2025
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Il contenzioso Epic-Google è a un punto di svolta e potrebbe cambiare il mondo delle app

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Il contenzioso Epic v. Google sembra aver raggiunto una svolta definitiva. Alphabet, la società madre di Google, ha annunciato di aver trovato con Epic Games, azienda nota ai più per il videogioco Fortnite, un’intesa che punta a riformulare l’ingiunzione al centro della disputa. L’accordo prevede una riforma sostanziale dell’ecosistema Android e del suo sistema di distribuzione delle app. Se approvato dal tribunale, il patto potrebbe riscrivere le regole di funzionamento degli smartphone e avere ripercussioni globali, incidendo su chiunque abbia in tasca un dispositivo elettronico.

La proposta è stata ufficialmente depositata presso il tribunale federale di San Francisco, all’attenzione del giudice distrettuale che sta seguendo il caso, James Donato. I dettagli dell’intesa sono però già stati anticipati anche sui canali social dal presidente di Google Android, Sameer Samat, e dal CEO di Epic Games, Tim Sweeney, entrambi apparsi entusiasti del compromesso intavolato. L’11 dicembre 2023, Donato aveva di fatto decretato la vittoria di Epic Games, decisione seguita, nell’ottobre 2024, da un’ingiunzione permanente che obbligava Google Play a introdurre modifiche sostanziali al proprio modello di business negli Stati Uniti, tra cui l’apertura per tre anni ai negozi digitali di terze parti.

Ingiunzione che Google ha cercato di far sospendere, ma con scarso successo. L’accordo attuale riparte proprio dai presupposti fissati dal giudice, ma ridefinendo i dettagli così che le specifiche siano dettate dalle due aziende, evitando l’intervento del sistema giudiziario. Secondo la proposta di modifica, Google introdurrà un nuovo programma da integrare nei prossimi aggiornamenti di Android, il quale permetterà ai marketplace di terze parti di registrarsi in un elenco ufficiale gestito dall’azienda, semplificandone così il download e l’installazione da parte degli utenti. La misura verrebbe inizialmente applicata negli Stati Uniti, per poi essere estesa progressivamente ad altri Paesi fino a coprire l’intero mercato globale.

Più complessa resta la questione delle commissioni sulle transazioni digitali, ambito in cui Google – come Apple – viene spesso accusata di pratiche scorrette e predatorie nei confronti degli sviluppatori. La nuova struttura prevede trattenute che variano tra il 20% e il 9% sugli acquisti in-app, una quota che viene determinata in base alla natura dell’acquisto: i miglioramenti che incidono attivamente sul gameplay saranno per esempio soggetti a tariffe più alte, mentre gli oggetti cosmetici o i servizi in abbonamento beneficeranno di aliquote ridotte. A titolo di confronto, l’attuale modello di Google Play applica una commissione standard del 30%, con alcune agevolazioni per le app minori e accordi preferenziali con gli sviluppatori più importanti. Secondo quanto riportato da The Verge, i nuovi accordi prevedono inoltre una trattenuta aggiuntiva del 5% per i pagamenti effettuati tramite il sistema Play Billing, inoltre Google si manterrebbe aperta la possibilità di imporre costi di servizio ai meccanismi di fatturazione alternativi al suo.

Restano dunque diversi margini di ambiguità e interpretazione che il giudice Donato potrebbe chiedere di chiarire in modo più puntuale. Tuttavia, è la prima volta dall’inizio di questa disputa – risalente ormai al lontano 2020 – che le due aziende sembrano essere entrambe soddisfatte da una soluzione condivisa. È opportuno chiarire che non ci troviamo davanti a una battaglia “Davide contro Golia”, nel 2022 Epic Games era stata valutata per 32 miliardi di dollari, tuttavia un’applicazione coerente e trasparente di questi principi potrebbe davvero modificare l’approccio degli sviluppatori al mercato delle app, stimolando reazioni anche in altri settori. Con una trattenuta Android ridotta al 9%, anche Apple potrebbe trovarsi costretta ad abbassare le proprie richieste finanziarie, mentre Sony, Microsoft, Valve e Nintendo – che controllano ampie fette del mercato videoludico – potrebbero essere spinte a loro volta a rivedere le proprie politiche di distribuzione.

Nepal, doppia valanga: 4 alpinisti italiani perdono la vita

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Il sogno della vetta, immaginata nei lunghi allenamenti, sognata mentre si dorme nel campo base, e quasi toccata durante l’ascesa, è stato spezzato dalla furia delle valanghe. Ci troviamo in Nepal, sulla catena himalayana, dove un’ondata di maltempo ha generato intensi accumuli di neve e condizioni di forti instabilità. Due diverse spedizioni, una diretta alla cima del Panbari e l’altra dello Yalung Ri, sono state colpite e travolte. Attualmente il bollettino è impietoso e parla di 4 alpinisti italiani deceduti, come parte di un bilancio di almeno 9 vittime complessive tra stranieri e nepalesi.

Mentre le operazioni di soccorso procedono a rilento a causa del maltempo e delle condizioni difficili, la Farnesina ha attivato l’unità di crisi e mantiene i contatti con il consolato di Calcutta: “Diversi connazionali sono irraggiungibili, forse per problemi di comunicazione”, ha dichiarato un portavoce dopo le conferme dei primi decessi. Ma cerchiamo di riavvolgere il nastro per capire cosa sia successo.

Per la prima spedizione, quella diretta sulla cima del Panbari, una vetta di 6887 metri che fa parte del Gandaki Pradesh, l’Himalaya nepalese, i problemi sono iniziati venerdì scorso, quando una valanga ha travolto e ucciso il milanese Alessandro Caputo, 28enne maestro di sci e Stefano Ferronato, arboricoltore di 50 anni di Bassano del Grappa. Per entrambi l’impatto è stato fatale. Valter Perlino, veterinario di Pinerolo 64enne, è invece sopravvissuto perché, a causa di un infortunio, sarebbe rimasto al campo base. Dalle prime testimonianze sembra che sia stato proprio lui a lanciare l’allarme.

L’altra tragedia ha come teatro un’altra montagna nepalese, lo Yalung Ri, con un’altitudine di 5630 metri nel distretto di Dolakha. Qui la valanga ha colpito direttamente il campo base della spedizione. Il bilancio provvisorio parla di 6 vittime totali, tra cui 2 italiani, Paolo Cocco, fotografo della provincia di Chieti e Markus Kirchler, 30enne di Bolzano. Continuano, pur tra mille difficoltà, le ricerche della guida alpina abruzzese Marco Di Marcello, 37enne, che per ora risulta ancora disperso. Il fratello ha dichiarato che il segnale del satellitare in possesso della guida è ancora attivo, e ieri risultava in movimento.

“Sono molto triste per questo fatto, penso ai genitori, ai figli e alle persone a loro vicine”, sono le dichiarazioni di Reinhold Messner al TG1, che avvalora l’ipotesi della valanga come causa dei disastri. “La montagna non è maligna, ma è infinitamente più grande di noi, è un maestro severo e noi alpinisti abbiamo la responsabilità di ciò che facciamo, il pericolo è sempre presente”.

Nel frattempo le salme di Stefano Farronato e Alessandro Caputo sono giunte a Kathmandu. Nelle prossime ore saranno completate le formalità per il rientro in Italia, come riferiscono i soccorritori italiani.

L’UE verso un nuovo allargamento: Montenegro e Albania i prossimi, poi Moldavia e (forse) Ucraina

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Bruxelles accelera sull’allargamento e guarda ai Balcani occidentali come alla prossima frontiera dell’Unione. Montenegro e Albania sono ormai a un passo dall’adesione, Moldavia e Ucraina restano in corsa, tra progressi e incognite politiche, mentre la Georgia arretra e la Turchia resta bloccata, con i negoziati di adesione fermi dal 2018. Dopo anni di promesse e rinvii, l’Unione Europea, nell’Enlargement Summit organizzato da Euronews a Bruxelles, indica per la prima volta un orizzonte concreto: il 2026-2027 come finestra temporale per l’ingresso dei due Paesi balcanici. Un segnale politico forte, che traduce la strategia europea di stabilizzare il suo “vicinato” e contenere le influenze di Mosca e Pechino. Dietro l’entusiasmo diplomatico restano, però, nodi strutturali ancora irrisolti: il rafforzamento dello stato di diritto, la lotta alla corruzione e la capacità dell’UE di accogliere nuovi membri senza compromettere la propria coesione interna.

La Commissione europea ha indicato Montenegro e Albania come i Paesi più prossimi all’ingresso, con negoziati avanzati e un percorso di riforme quasi completato, ma devono accelerare le riforme per non perdere il treno dell’adesione, secondo il nuovo pacchetto dell’esecutivo europeo. «Nel complesso, il 2025 è stato un anno di progressi significativi per l’allargamento dell’UE», è il bilancio tracciato da Marta Kos, commissaria per l’Allargamento. «Montenegro, Albania, Ucraina e Moldavia si distinguono» per ragioni diverse, ma in comune hanno il fatto di «essere stati loro a compiere i maggiori progressi nelle riforme nell’ultimo anno». Il Montenegro, capofila del gruppo, ha chiuso buona parte dei capitoli negoziali, mostrando un allineamento crescente alle politiche europee. L’Albania segue a ruota, spinta dal sostegno politico della Commissione e da progressi tangibili nella magistratura e nella lotta alla criminalità organizzata. L’obiettivo, dichiarato dai funzionari europei, è di arrivare a una piena adesione entro la fine del decennio, a condizione che i due Paesi mantengano la rotta sulle riforme. L’allargamento ai Balcani rappresenta per Bruxelles una scelta strategica: consolidare la propria influenza in un’area storicamente instabile e oggi cruciale per la sicurezza e l’energia del continente.

Più complesso il quadro per Moldavia e Ucraina. La Moldavia resta un partner privilegiato, ma deve ancora completare l’apertura di tutti i capitoli negoziali e rafforzare la sua tenuta istituzionale. Per l’Ucraina, la Commissione europea ha riconosciuto “progressi notevoli” verso l’adesione, ma ha messo in guardia contro “tendenze negative” legate alla corruzione e all’indipendenza della magistratura. La Commissione si dice pronta a sostenere Kiev, che continua a spingere per un’accelerazione politica del processo entro fine 2028, ma avverte: «È necessaria un’accelerazione del ritmo delle riforme, in particolare per quanto riguarda i princìpi fondamentali, in particolare lo stato di diritto». A porre un freno alle ambizioni dell’Ucraina è il veto dell’Ungheria al suo status di candidato: Viktor Orbán ha bloccato l’avvio formale dei negoziati, poiché ritiene che l’ingresso di Kiev metterebbe in pericolo l’Europa. La reazione di Volodymyr Zelensky, non si è fatta attendere e ieri, in videocollegamento al summit sull’allargamento, ha ribadito che il veto al suo Paese rappresenta un favore diretto al Cremlino: «Non vorremmo che Orbán sostenesse la Russia, perché bloccare il nostro ingresso nell’UE rappresenta un sostegno specifico a Putin», ha insinuato il leader ucraino. L’Unione si trova così di fronte a un bivio: sostenere Kiev come segnale geopolitico, ma senza compromettere i propri criteri interni di adesione.

L’accelerazione sull’allargamento segna per l’Unione Europea una svolta strategica, ma il cammino resta irto di ostacoli. Bruxelles punta a consolidare unità e stabilità nel continente, ma deve confrontarsi con i propri limiti e con le fragilità dei Paesi candidati, sotto osservazione per lo stato di diritto, l’indipendenza della magistratura, la corruzione e la lentezza delle riforme. È soprattutto Kiev a rappresentare la prova più complessa: pur avendo compiuto passi avanti significativi, continua a essere osservata speciale per la persistenza di fenomeni corruttivi, pressioni politiche e lentezza nelle riforme, aggravate dal contesto bellico. Anche Serbia e Bosnia-Erzegovina faticano a garantire efficienza e affidabilità delle istituzioni. L’Europa guarda a Est con ambizione, ma l’integrazione potrà compiersi solo se le promesse si tradurranno in riforme reali. L’allargamento è ormai una prova di credibilità, non solo di geopolitica.

USA-Cina, tregua commerciale: stop ai dazi aggiuntivi del 24%

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Gli Stati Uniti e la Cina hanno stipulato un’intesa che segna un’importante deviazione nella loro guerra commerciale: la Cina estenderà per un anno la sospensione dei dazi aggiuntivi pari al 24% applicati sulle importazioni statunitensi, mantenendo però un’aliquota base del 10%. Contemporaneamente, gli USA ridurranno le tariffe “reciproche” sulle merci cinesi all’10%, in vigore dal 10 novembre. L’accordo, firmato dopo il vertice tra Donald Trump e Xi Jinping, mira a riequilibrare gli scambi e riattivare forniture strategiche, come soia e minerali critici, alleviando le tensioni che pesavano sulle catene globali.

Vita nel bosco, senza scuola: per una famiglia è un diritto o un abuso?

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Una donna australiana di 45 anni e il marito inglese di 51 hanno scelto di vivere in Italia, nei boschi, per far crescere i figli a contatto con la natura. Per loro si tratta di una scelta, consapevole, per vivere lontani dalla “tossicità” della società attuale, ma la Procura dei minori ha chiesto la sospensione della potestà genitoriale e l’affidamento temporaneo dei tre bambini, parlando di “grave pregiudizio per la loro crescita”. Ci troviamo nell’entroterra di Vasto, in provincia di Chieti, all’interno di un ex casa colonica che la famiglia ha acquistato per vivere una vita con ritmi naturali, senza elettricità ma con i pannelli solari, dove i due genitori stanno crescendo i tre figli, una di 8 anni e i due gemelli di 6 anni, circondati da natura e animali, a pochi chilometri dal mare e seguendo il modello dell’unschooling, che non prevede le lezioni tradizionali a scuola, ma un apprendimento più libero, seguito direttamente dai genitori.

La loro disavventura ha inizio nel settembre de 2024, quando tutta la famiglia era stata ricoverata per un’intossicazione da funghi che avevano raccolto nel bosco e i carabinieri segnalano la situazione ai servizi sociali parlando di “isolamento” e di “condizioni abitative non idonee”. I servizi sociali intervengono, ma i genitori inizialmente si rendono irreperibili. Rientrano nel marzo 2025 e ad aprile arriva la relazione, dopo la visita a sorpresa degli stessi servizi sociali, in cui l’abitazione è descritta come un rudere, senza acqua corrente ed elettricità, e un ambiente definito come “inadeguato”. A quel punto il pm chiede l’affidamento dei bimbi al comune. I servizi sociali fissano altre visite altre visite e colloqui, ma la famiglia, ormai diffidente, cambia legale e non si presenta. E quindi arriva la nuova visita a sorpresa, questa volta con i carabinieri e il curatore del minori al seguito, e in questa occasione i servizi sociali propongono un progetto che, tra e altre cose, prevede una visita settimanale in un centro socio-psico-educativo comunale, per incontrare una psicologa. La coppia però non è interessata e, all’incontro successivo, porta con sé il certificato di idoneità alla classe terza per la figlia maggiore, rilasciato da un istituto privato lombardo, una perizia tecnica sullo stato dei luoghi, un estratto conto, e i certificati medici dei 3 bambini. Dopo questo passaggio la Procura chiede la sospensione della potestà genitoriale oltre all’affidamento dei 3 bambini, che, in attesa della decisione del giudice, per ora sono rimasti con i genitori. Secondo l’avvocato Giovanni Angelucci, che difende la coppia, “non si tratta di un caso di violenza o degrado, ma di una famiglia economicamente indipendente che ha scelto uno stile di vita alternativo, spinta da un ideale di libertà e rispetto per la natura”.

Una versione confermata dagli stessi genitori che, nel rispedire le accuse al mittente, spiegano che i bambini, in ottima salute, sono seguiti da un pediatra, vengono portati regolarmente al parco per conoscere altri coetanei, e vanno a fare la spesa al supermercato una volta alla settimana. Le loro ragioni sono state messe nero su bianco su una lettera pubblicata da Il Centro, inviata ai giudici in cui difendono ed argomentano la loro scelta.

“Noi, genitori consapevoli che desiderano una vita diversa per i nostri figli, abbiamo deciso con grande impegno di andare contro le norme della società e di tornare al modo in cui la natura stessa è stata progettata per crescere i bambini, per la loro salute, la loro pace, la loro crescita e, soprattutto, per il loro futuro”, raccontano. Assicurano che i figli sono “al sicuro, al caldo e puliti”, che sono seguiti da “innumerevoli esperti in vari campi”, compreso un pediatra, e che le “numerose lettere di supporto” messe a punto da professionisti, amici e vicini – che attestavano il loro benessere – siano state “tutte ignorate” dalle autorità. I bambini “vivono costantemente la società attraverso gite e uscite settimanali a negozi, parchi, amici e vicini”, con “cibo e aria puliti”, e un ambiente benefico per il loro “sviluppo cerebrale e fisico”. Nelle loro intenzioni stanno crescendo dei figli “autonomi, liberi di pensare, compassionevoli, connessi, creativi e intelligenti”, perché, a loro dire, non sono stati repressi o costretti a seguire un “sistema guidato dall’avidità”.

Nella lettera traspare poi come questo non sia il primo tentativo di intraprendere questo stile di vita, e le difficoltà incontrate sul percorso, visto che sarebbero stati costretti “ad abbandonare la nostra terra e la nostra casa non una, ma ben tre volte”. Quindi, per scongiurare ulteriori problematiche, raccontato di aver costituito un trust privato, per proteggersi, anche dall’autorità dello Stato: “Ci protegge da qualsiasi ingerenza dello Stato su di noi e sulla nostra proprietà in trust, ovvero i nostri figli e le nostre figlie”.

Mentre la stampa italiana li dipinge come irresponsabili, loro rivendicano la propria scelta. E la vera domanda a questo punto, non riguarda una sola famiglia, ma tutti noi, per arrivare a capire se crescere i propri figli nel modo in cui si ritiene opportuno, in assenza di abusi e mancanze, sia un diritto oppure un abuso.

Zohran Mamdani: il nuovo sindaco di New York è socialista e per la Palestina

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Per la prima volta, New York avrà un sindaco socialista e musulmano: con il 50,4% delle preferenze, Zohran Mamdani è stato infatti eletto primo cittadino, segnando uno stacco netto dall’ex governatore Andrew Cuomo (41,6%) e dal repubblicano Curtis Sliwa (che ha superato di poco il 7%). Tra i sindaci eletti più giovani di sempre, fermo sostenitore della causa palestinese e forte critico dello Stato di Israele e di quello che ha apertamente definito un «genocidio» commesso a Gaza, Mamdani si è posto come obiettivo primario l’abbassamento del costo della vita in città, al fine di renderla più vivibile per le famiglie. Nel discorso a seguito della vittoria, nel quale ha promesso di lottare contro oligarchie e autoritarismi e ha apertamente chiamato Trump un «despota», Mamdani si è rivolto direttamente al presidente: «dal momento che so che ci stai guardando, ho tre parole per te: alza il volume!».

Nato nel 1991 a Kampala, in Uganda, da genitori indiani, Mamdani si è trasferito a New York con la sua famiglia all’età di 7 anni e ha studiato in un liceo del Bronx, prima di ottenere una laurea in Studi Africani presso il Bowdoin College. Solamente nel 2018, all’età di 27 anni, ottiene la cittadinanza americana. Prima di candidarsi alle elezioni, Mamdani ha lavorato prima come consulente per la prevenzione dei pignoramenti immobiliari, aiutando gli inquilini a basso reddito del Queens a combattere gli sfratti, e poi come rappresentante del 36° distretto dell’Assemblea di New York. Mamdani si definisce un socialista democratico impegnato nella lotta per la classe operaia tanto nelle sedi istituzionali quanto in strada, avendo preso parte in prima persona a scioperi e proteste. Tra i punti principali del suo programma elettorale vi è il congelamento immediato degli affitti (il cui prezzo è aumentato del 22% negli ultimi due anni, arrivano a superare i 4100 dollari) e la costruzione di 200 mila nuovi alloggi nei prossimi 10 anni, anche al fine di abbassare i prezzi. In una città dove il costo della vita è in continuo aumento e i cittadini faticano anche a permettersi l’abbonamento ai mezzi pubblici, Mamdani si è impegnato anche ad eliminare del tutto la tariffa sugli autobus urbani e migliorare il trasporto pubblico, rendendolo più rapido e agevole. Il neo eletto sindaco ha poi primesso la creazione del Dipartimento per la Sicurezza della Comunità, che dovrebbe investire in programmi di salute mentale e di «risposta alla crisi» con oltre cento operatori sociali presenti in 100 stazioni della metro, la fornitura di servizi medici in locali commerciali sfitti e programmi di prevenzione della violenza da armi da fuoco, oltre ad aumentare «dell’800% i finanziamenti ai programmi di prevenzione della violenza motivata dall’odio». Tra gli altri punti del programma vi sono poi l’assistenza all’infanzia gratuita fino ai 5 anni, la creazione di una rete di negozi di proprietà della città che mantenga contenuti i prezzi dei generi alimentari e la tassazione dell’1% dei newyorkesi più ricchi, ovvero coloro che guadagnano oltre un milione di euro all’anno.

Mamdani è inoltre sempre stato un aperto sostenitore della causa palestinese, oltre che fortemente critico di Israele. Ha definito senza mezzi termini quello in atto a Gaza come un genocidio, esprimendo solidarietà all’UNRWA (l’Agenzia ONU per i Territori Occupati, accusata da Israele di essere direttamente coinvolta negli attacchi del 7 ottobre 2023, con la conseguente sospensione dell’erogazione dei fonti da parte degli USA e degli alleati) e partecipando ad attività per la raccolta fondi per l’Agenzia. Mamdani ha anche sostenuto l’azione della Global Sumud Flotilla, criticando la decisione di Israele di incarcerare i 461 attivisti che stavano portando «aiuti salvavita» per la popolazione palestinese e chiedendo di fermare la carestia imposta da Israele al più presto.

La vittoria di Mamdani invia un chiaro segnale di insofferenza nei confronti dell’amministrazione Trump. Questo sarebbe confermato anche da recenti sondaggi, come quello recente condotto dal SSRS per la CNN, che riporta come solamente il 37% della popolazione degli Stati Uniti sarebbe soddisfatta dell’operato del presidente. E a parziale conferma di questo dato vi è il fatto che, contemporaneamente alla vittoria di Mamdani, sono arrivate quelle delle democratiche Mikie Sherrill in New Jersey e Abigail Spanberger in Virginia, le prime donne governatrici nei due Stati. Trump ha commentato i risultati elettorali scrivendo sul proprio social Truth che, secondo i sondaggisti, i repubblicani hanno perso perchè «Trump non era sulla scheda elettorale» e per via dello shutdown federale. Nelle scorse ore, il presidente aveva definito «stupido» qualsiasi ebreo che avesse votato per Mamdani, definendolo un «odiatore di ebrei».

«Che voi siate immigrati, membri della comunità trans, una delle molte donne di colore che Trump ha licenziato dal suo lavoro federale, una madre single che sta ancora aspettando che il costo degli alimenti si abbassi o qualsiasi altra persona con la schiena al muro: la vostra lotta ora è anche la nostra» ha dichiarato Mamdani al pubblico di sostenitori, subito dopo la conferma della vittoria, promettendo un nuovo inizio per la città che non dorme mai.

Leonardo e Rheinmetall: primo contratto per i corazzati italiani

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La joint venture tra Leonardo S.p.A. e Rheinmetall AG ha ottenuto il primo contratto per la fornitura di 21 veicoli corazzati “A2CS Combat” destinati all’Esercito Italiano, con consegna del primo mezzo prevista entro fine 2025. Il pacchetto prevede 5 unità modello Lynx KF-41 con torretta Lance e 16 mezzi configurati con torretta Hitfist 30 mm. L’accordo include anche l’aggiornamento di ulteriori 30 veicoli opzionali e sistemi di addestramento. La JV, detenuta al 50% da Leonardo e da Rheinmetall, si propone come nuovo polo strategico europeo per mezzi da combattimento.

L’Italia si conferma leader europeo nel riciclo e nel riutilizzo dei rifiuti

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In Europa, nessuno ricicla quanto l’Italia. Con un tasso di riciclaggio complessivo pari al 76,5% nel 2022, che ci porta al vertice della classifica, e un utilizzo circolare dei materiali che ha raggiunto il 20,8% nel 2023 - quasi il doppio della media europea, secondi solo ai Paesi Bassi - il nostro Paese si conferma tra i migliori esempi di economia circolare su scala continentale. Lo certificano due fonti ufficiali: il nuovo Rapporto UNIRIMA 2025 e la Relazione sullo Stato dell’Ambiente pubblicata da ISPRA. Insieme restituiscono l’immagine di un sistema industriale capace non solo di ridurr...

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La repressione contro Extinction Rebellion: tutti assolti, ma Roma conferma i fogli di via

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Il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio ha archiviato 107 denunce contro altrettanti attivisti per l’ambiente per una azione dimostrativa condotta il 22 novembre 2024 a Roma. In quell’occasione, gli attivisti si erano riuniti in tenda in piazza del Viminale, davanti al palazzo del Ministero dell’Interno, dove avevano scaricato 5 tonnellate di letame. La manifestazione era stata portata avanti per contestare le politiche climatiche del governo e il pacchetto di leggi “Sicurezza”, poi convertito in decreto legge l’11 aprile 2025. Gli attivisti erano stati portati in Questura, per poi venire denunciati per manifestazione senza preavviso; con la sentenza, il TAR archivia la vicenda per insussistenza del reato. Nonostante ciò, rimangono ancora attivi 33 fogli di via, che vietano agli attivisti di entrare in città; uno di questi, è stato emesso contro una persona che viveva a Roma per motivi di lavoro, ed è stato confermato dallo stesso TAR.

La sentenza del TAR del Lazio è stata resa nota oggi, martedì 4 novembre, dopo quasi un anno di indagini preliminari. Durante la manifestazione, gli attivisti avevano occupato la piazza antistante il palazzo del Viminale con le tende, scaricandovi 5 tonnellate di letame. Al termine della protesta, erano intervenute le forze dell’ordine, portando 74 attivisti in Questura, dove li hanno trattenuti per circa 8 ore; erano poi arrivate le denunce per violazione dell’art. 18 TULPS e 33 fogli di via della durata da 6 mesi a due anni e mezzo. «Il giudice ha adesso disposto l’archiviazione per insussistenza del reato, precisando nel decreto che non è possibile punire con manifestazione non preavvisata chi semplicemente partecipa a quella manifestazione», si legge in un comunicato del gruppo.

Nonostante ciò, restano ancora attivi i fogli di via, uno dei quali confermato dallo stesso TAR. La persona in questione, Sabina, viveva e lavorava a Roma, e la Questura aveva già respinto una sua precedente richiesta di annullamento; nonostante il suo legame con Roma, «i giudici non hanno riconosciuto la documentazione presentata dai legali che attestava i suoi legami con la città, costringendola a lasciare la capitale», spiega il comunicato. «Secondo i legali di Extinction Rebellion, si tratta di un’applicazione illegittima del Codice Antimafia del 2011, che stabilisce chiaramente che il foglio di via non può essere emesso nei confronti di chi vive, lavora o studia nella città interessata».

Non è la prima volta che la repressione contro le azioni di protesta non violente per il clima subisce una battuta d’arresto in tribunale. Nell’ottobre del 2024, era stata disposta l’archiviazione delle accuse contro sessantacinque attivisti – afferenti proprio al movimento XR – che avevano occupato il grattacielo di Intesa Sanpaolo, a Torino, in occasione del G7 per il clima. In quel caso, come in numerosi altri, la procura aveva riconosciuto che «non è stata infranta alcuna norma penale», smontando così le accuse occupazione, violenza privata e manifestazione non preavvisata formulate dalla Digos.

Attacchi israeliani a Gaza: 3 morti

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Il ministero della Salute di Gaza ha riportato che oggi, martedì 4 novembre, in seguito ad attacchi israeliani sono stati uccisi tre palestinesi. Il ministero ha aggiunto che altre sette persone sono state ferite e accolte negli ospedali della Striscia; è stato, inoltre, trovato un corpo sotto le macerie. Il ministero riporta che dall’inizio del cessate il fuoco, lo scorso 11 ottobre, Israele ha ucciso 240 persone ferendone altre 607. In totale, le operazioni di soccorso hanno recuperato i corpi di altri 511 gazawi. Dal 7 ottobre 2023, Israele ha ucciso per via diretta almeno 68.872 persone.