venerdì 7 Novembre 2025
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Meta pubblicizza gli insediamenti israeliani illegali (ma censura chi denuncia il genocidio)

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Facebook ha consentito, nell’ultimo anno, la pubblicazione di annunci pubblicitari da parte di agenzie immobiliari israeliane che promuovono la vendita di abitazioni in villaggi e località della Cisgiordania occupata. La piattaforma, controllata dalla società Meta fondata e guidata da Mark Zuckerberg, ha ospitato inserzioni relative a immobili situati all’interno di insediamenti considerati illegali secondo il diritto internazionale. Alcuni annunci chiedevano anche la demolizione di edifici palestinesi, comprese scuole, mentre altri sollecitavano donazioni a favore dei soldati israeliani impegnati nelle operazioni militari nella Striscia di Gaza. Secondo diverse segnalazioni, Meta ha quindi permesso la diffusione di contenuti pubblicitari a sostegno di azioni considerate in violazione del diritto internazionale. Allo stesso tempo, la piattaforma ha rimosso contenuti che documentavano tali operazioni, ha oscurato pagine e profili pro-Palestina e ha licenziato alcuni dipendenti che avevano espresso dissenso rispetto a queste scelte.

Facebook ha pubblicato oltre 100 annunci pubblicitari a pagamento che promuovono insediamenti illegali e attività di coloni nella Cisgiordania occupata: è quanto emerge da un’inchiesta pubblicata da Al Jazeera. La maggior parte degli annunci riguarda la vendita di immobili situati nei territori occupati, rivolti ad acquirenti israeliani, statunitensi e britannici. Le inserzioni sono apparse per la prima volta nel marzo 2024 e molte risultano ancora attive. Tra queste, 48 sono state pubblicate dall’agenzia Gabai Real Estate, che promuove abitazioni all’interno degli insediamenti di Ma’ale Adumim e Efrat. Le abitazioni fanno parte di un piano di espansione approvato nello stesso mese dal Comitato di pianificazione superiore israeliano, organo sottoposto al Ministero delle Finanze guidato da Bezalel Smotrich, il quale, dal 2023, non necessita più di approvazioni politiche o militari per l’autorizzazione di nuovi insediamenti.

Tra le pubblicità individuate da Al Jazeera figurano quattro annunci della società immobiliare Ram Aderet, che promuovono la vendita di proprietà nell’insediamento israeliano di Ariel, situato a circa 20 chilometri a est della Linea Verde, nella Cisgiordania occupata. Ram Aderet ha ricevuto finanziamenti dalla Prima Banca Internazionale di Israele, istituto oggetto di una campagna di boicottaggio da parte del movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni), che accusa la banca di sostenere il sistema degli insediamenti nei territori occupati. Il 12 febbraio 2020, le Nazioni Unite hanno incluso la Prima Banca Internazionale di Israele in una lista di 112 entità coinvolte nel sostegno all’espansione degli insediamenti israeliani. L’inserimento è motivato dalla «fornitura di beni e servizi a sostegno della manutenzione e dell’esistenza degli insediamenti» e dalle «attività bancarie e finanziarie che contribuiscono allo sviluppo, all’espansione o al mantenimento degli insediamenti e delle loro operazioni».

Secondo il diritto internazionale, tutti gli insediamenti israeliani in Cisgiordania sono illegali. Il trasferimento della popolazione civile di una potenza occupante all’interno di territori occupati è classificato come crimine di guerra dallo Statuto di Roma della Corte penale internazionale. Oltre alla promozione di vendite immobiliari, tra gli annunci individuati da Al Jazeera figurano anche richieste di demolizione di abitazioni, scuole e parchi giochi palestinesi, allo scopo di liberare spazio per nuovi insediamenti. Inoltre, al di là della questione insediativa, Meta ha pubblicato annunci pubblicitari destinati alla raccolta fondi per unità militari israeliane impegnate nelle operazioni di sterminio nella Striscia di Gaza.

Interessante notare come, mentre lucrava sulla pubblicazione di annunci che promuovono l’espulsione nei confronti dei palestinesi, Meta ha costantemente censurato i contenuti che denunciano il genocidio ed esprimono sostegno nei confronti della resistenza palestinese. Arrivando al punto di denunciare chi, all’interno della stessa azienda, si opponeva alla censura. Come accaduto a Ferras Hamad, che ha fatto causa a Meta per il suo licenziamento che sostiene sia basato sulla condotta contraria agli algoritmi che oscurano i contenuti che riguardano il massacro subito dal popolo palestinese. Anche in Italia, la censura di Meta ha colpito i contenuti contrari agli interessi di Israele e in favore del popolo palestinese.

La scoperta di una fossa comune di soldati romani racconta la storia di un disastro militare

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Nella città di Vienna, in Austria, è stata scoperta per caso una fossa comune romana durante i lavori di ristrutturazione di un campo da calcio. A rivelarlo è il Dipartimento di archeologia della città insieme al Wien Museum, che parlano di «un ritrovamento unico in Europa che potrebbe contenere la chiave per decifrare la storia della fondazione di Vienna». Gli scavi hanno portato alla luce i resti di oltre 150 individui, per lo più soldati romani, probabilmente vittime di una battaglia conclusasi con una tragica ritirata. Gli scheletri, datati tra il I e il II secolo d.C., testimoniano una fase della storia della città finora conosciuta solo attraverso fonti scritte, secondo gli esperti, i quali avvertono però che saranno necessarie ulteriori indagini per comprendere le condizioni e gli stili di vita dei soldati. «A Vienna si è sempre pronti a imbattersi in tracce romane non appena si apre un marciapiede o si apre la terra», commenta Veronica Kaup-Hasler, assessora alla Cultura e alla Scienza della città.

Nel periodo in cui è avvenuta la scoperta, l’area che oggi corrisponde a Vienna faceva parte dell’Impero Romano. La città di Vindobona, che in seguito sarebbe diventata Vienna, era un avamposto militare situato lungo il Limes del Danubio, la linea di difesa che separava l’Impero dalle tribù germaniche. Fino al III secolo d.C., la cremazione era la pratica funeraria più comune nelle province romane d’Europa, e solo raramente si registravano sepolture di corpi interi. La fossa comune di Simmering rappresenta quindi, secondo gli esperti, un’anomalia, poiché contiene resti di soldati sepolti in modo disordinato e con segni evidenti di ferite da combattimento. Nonostante la scoperta sia avvenuta per caso durante i lavori di ristrutturazione di un campo da calcio, un team di archeologi e antropologi ha successivamente analizzato i resti scheletrici e i reperti associati, tra cui armature, elmi e pugnali.

Il sito ha rivelato che i resti appartengono quasi esclusivamente a uomini giovani, alti oltre 1,70 metri e con un’età media compresa tra i 20 e i 30 anni, probabilmente soldati. Gli scheletri mostrano pochi segni di malattie infettive, un buono stato di salute generale e ferite da combattimento, tra cui lesioni a cranio, torace e bacino, attribuite a scontri armati, secondo i ricercatori. «In base alla disposizione degli scheletri e al fatto che si tratta esclusivamente di resti maschili, si può escludere che il sito fosse legato a un ospedale o a una struttura simile, o che un’epidemia sia stata la causa della morte», ha dichiarato l’antropologa Michaela Binder, precisando che le ferite risultano compatibili con l’uso di armi di epoca romana come lance, spade e pugnali. I reperti sono stati datati tra la fine del I secolo e l’inizio del II secolo d.C. e, secondo il contesto, indicano che queste persone siano morte durante un conflitto lungo il confine dell’Impero con popolazioni barbariche. «La fossa comune di Simmering rappresenta la prima prova fisica di combattimenti in questo periodo e individua il possibile luogo di una battaglia nell’area dell’attuale Vienna. L’evento attestato qui potrebbe essere stato una delle ragioni per l’ampliamento della piccola base militare in un accampamento legionario a Vindobona, a meno di sette chilometri dal sito. Hasenleitengasse potrebbe quindi segnare l’inizio della storia urbana di Vienna», ha dichiarato Martin Mosser, archeologo del Dipartimento di archeologia urbana, precisando che saranno necessarie ulteriori analisi, tra cui studi sul DNA e sugli isotopi, per approfondire le origini e le condizioni di vita dei soldati.

[di Roberto Demaio]

Gaza, raid israeliano su tenda per giornalisti: 2 morti

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Un attacco aereo dell’esercito israeliano ha colpito una tenda a Khan Yunis, nel sud della Striscia di Gaza, dove si trovavano alcuni giornalisti nei pressi dell’ospedale Nasser. Lo ha reso noto la Difesa civile palestinese, affiliata al ministero degli Interni di Gaza. L’offensiva ha causato due morti, tra cui un giornalista, e il ferimento di altre persone, tra cui due giornalisti. Il numero di cronisti morti dallo scoppio del conflitto sale così a 210. I nuovi attacchi sono avvenuti dopo che l’esercito israeliano ha ucciso più di 50 persone, ordinando agli abitanti di cinque quartieri del centro di Deir el-Balah di fuggire.

Ad Anagni saranno adibiti 11 capannoni alla produzione di munizioni per missili e bombe

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Dopo oltre trent’anni, l’industria militare potrebbe tornare ad Anagni. La città dei Papi, nota per la sua storia millenaria, si prepara a un futuro molto diverso: la produzione di esplosivi. La Knds Ammo Italy, multinazionale franco-tedesca leader europeo nella difesa terrestre e navale, ha infatti presentato un progetto per riconvertire l’ex stabilimento Winchester. Finora destinato alla “demilitarizzazione” – cioè al disassemblaggio e recupero di materiali bellici – il sito potrebbe diventare, a partire dalla primavera 2026, un polo produttivo di nitrogelatina, sostanza base per i propellenti di missili e bombe. Il progetto, ora in fase di valutazione da parte della Regione Lazio, prevede la costruzione di 11 nuovi capannoni su un’area di circa 2500 metri quadri.

La decisione della Knds arriva sulla scia dell’approvazione dell’ASAP (Act to Support Ammunition Production), il piano europeo varato nel 2023 per potenziare la produzione di munizioni dopo lo scoppio della guerra in Ucraina. Un’opportunità che il gruppo franco-tedesco – già presente a Colleferro con un altro stabilimento – ha scelto di cogliere rilanciando la storica area industriale di Anagni, nascosta tra l’autostrada e la via Casilina, in un polmone verde della Valle del Sacco. In passato, l’area ospitava la Winchester, importante realtà industriale chiusa nei primi anni Novanta. Dopo anni di abbandono e passaggi di gestione, era stata recuperata dalla Simmel Difesa e successivamente assorbita dalla Knds. L’attuale progetto prevede la produzione fino a 150 chilogrammi all’ora di nitrogelatina, ottenuta mescolando nitroglicerina diluita in acqua con una piccola percentuale di nitrocellulosa, derivata dal cotone trattato con acidi. Questo composto è relativamente più sicuro da maneggiare rispetto alla nitroglicerina pura, ed è fondamentale per la realizzazione di propellenti militari.

L’iniziativa promette benefici economici e occupazionali per il territorio, sebbene gran parte del personale che verrà richiesto sarà altamente specializzato. Le perplessità e le preoccupazioni fioccano invece sul piano ambientale e della sicurezza. Gli stabilimenti sorgono infatti vicino a zone abitate e ad aree agricole, alimentando timori per un uso intensivo di risorse idriche e per l’impatto potenziale sulle falde acquifere e sull’ecosistema locale. Tra le voci critiche si è levata quella di Sara Battisti, consigliera regionale del Partito Democratico, che ha denunciato il progetto come «un rischio inaccettabile per l’ambiente e per la salute delle nostre comunità». Battisti ha annunciato un’interrogazione a risposta immediata al presidente della Regione Lazio, chiedendo chiarimenti sulle misure di tutela per il territorio e per i cittadini coinvolti.

Il sito di Anagni, oggi gestito da Knds Ammo Italy, si trova a pochi passi dall’autogrill “La Macchia”, ben nascosto alla vista in mezzo a campi e boschi. Il ritorno della produzione militare – dopo anni di quiete e smantellamento – rischia di cambiare radicalmente il volto di questa zona della Ciociaria. Il futuro della “capitale della nitrogelatina” dipenderà dalle decisioni della Regione Lazio, chiamata a bilanciare crescita economica e tutela della salute pubblica. In attesa del responso, ad Anagni si respira una tensione crescente: quella che accompagna ogni grande trasformazione industriale, soprattutto quando in gioco ci sono esplosivi e munizioni.

Il programma europeo ASAP (Act in Support of Ammunition Production) – lanciato nel maggio del 2023 per il sostegno all’esercito ucraino – è stato messo a punto per aumentare rapidamente la produzione di munizioni e missili nei Paesi dell’Unione Europea. L’obiettivo è finanziare e potenziare le aziende che producono armamenti, riducendo i tempi di consegna e migliorando la capacità industriale. L’UE ha stanziato circa 500 milioni di euro per il progetto, con la possibilità di ulteriori fondi. Nello specifico, la Commissione Europea ha selezionato una trentina di progetti per sostenere l’industria europea nell’aumento della produzione delle polveri. Il nostro Paese è presente con le aziende Simmel Difesa e Bachieri&Pellagri.

Pakistan, uccisi 9 filo-talebani al confine con l’Afghanistan

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Continuano gli scontri tra milizie filo-talebane ed esercito regolare pakistano. Oggi l’esercito pakistano ha affermato di aver ingaggiato degli scontri con un gruppo di talebani pakistani, uccidendo nove militanti, tra cui un capobanda. Gli scontri, in particolare, sono avvenuti a Dera Ismail Khan, una città nella provincia di Khyber Pakhtunkhwa al confine con l’Afghanistan. Le persone uccise facevano parte del Movimento dei talebani del Pakistan (Tehrik-e-Taliban Pakistan, o TTP), che è un alleato dei talebani in Afghanistan e rafforzatosi da quando i talebani afghani hanno preso il potere nel Paese nel 2021.

Trump ha approvato la vendita di ventimila fucili d’assalto a Israele

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Gli Stati Uniti continuano ad approvare vendite di armi a Israele, lontano da occhi indiscreti. L’ultima, infatti, sarebbe avvenuta circa un mese fa, ma ne è stata diffusa notizia solo a inizio aprile. Secondo un documento visualizzato dall’agenzia di stampa Reuters, gli USA avrebbero autorizzato la vendita di oltre 20.000 fucili d’assalto di fabbricazione statunitense a Israele, nell’ambito di un accordo ritardato dalla precedente amministrazione Biden per timore che le armi potessero essere utilizzate dai coloni israeliani in Cisgiordania. Almeno in teoria, le armi, fucili d’assalto automatici, sarebbero destinate alla dotazione della polizia nazionale, ma il Dipartimento di Stato ha preferito non rilasciare alcuna dichiarazione quando gli è stato chiesto se Israele avesse fornito rassicurazioni sul loro uso. Il totale della transazione sarebbe pari a 24 milioni di dollari, che andrebbero così ad aggiungersi ai miliardi già sbloccati dall’amministrazione Trump.

La vendita dei 20.000 fucili d’assalto a Israele sarebbe avvenuta il 6 marzo, ma è stata resa nota solo venerdì 4 aprile. Il documento visualizzato dall’agenzia di stampa Reuters parla di fucili completamente automatici Colt Carbine calibro 5,56 mm. Questa stessa vendita era stata sospesa dopo che i legislatori democratici avevano sollevato obiezioni e chiesto informazioni su come Israele intendesse utilizzare i fucili. Quando era presidente, infatti, Biden aveva diffuso un memorandum in cui ricordava gli obblighi legali degli USA, che impediscono al Paese di trasferire armi quando è «più probabile di quanto non lo sia» che esse vengano utilizzate per commettere o facilitare il compimento di atti che violano i diritti umanitari. Contrariamente a quanto sostenuto da molti media, non si trattava di un «embargo parziale», tuttavia il documento aveva sortito qualche limitato effetto, bloccando indirettamente alcune vendite, proprio come quella di fucili potenzialmente utilizzabili dai coloni o quella di bombe ad alto impatto distruttivo.

La vendita di marzo si colloca all’interno di una generale accelerazione nella spedizione di armi statunitensi verso lo Stato ebraico. Sin da quando si è insediata, l’amministrazione Trump ha sbloccato vecchie transazioni e approvato nuove vendite per un valore totale di almeno 12 miliardi di dollari. Per quanto dal lato democratico ci sia maggiore contrarietà alla vendita di armi a Israele, il sostegno di cui godono le varie iniziative è quasi sempre bipartisan. Giovedì scorso, il Senato degli Stati Uniti ha respinto a larga maggioranza una proposta avanzata da Bernie Sanders per bloccare 8,8 miliardi di dollari di vendite di armi a Israele, votando separatamente due risoluzioni che hanno ottenuto solo 15 voti contrari su un totale di poco meno di 100 votanti.

Intanto non si fermano le aggressioni israeliane in Palestina. Domenica, dopo che le brigate di Al Qassam, il braccio armato di Hamas, hanno lanciato un bombardamento verso Israele, lo Stato ebraico ha intensificato le proprie operazioni a Gaza. Stamattina, l’aviazione israeliana ha bombardato una tenda che ospitava giornalisti vicino all’ospedale Nasser di Khan Younis, uccidendo almeno 2 persone e ferendone altre 7. Sempre in mattinata, Israele ha bombardato un edificio residenziale a Deir al Balah, nel centro della Striscia. Solo tra ieri e oggi, Israele ha ucciso oltre 50 persone. In totale, dall’escalation del 7 ottobre, l’esercito israeliano ha ucciso direttamente almeno 50.695 persone, anche se il numero totale dei morti potrebbe superare le centinaia di migliaia, come sostenuto da un articolo della rivista scientifica The Lancet e da una lettera di medici volontari nella Striscia. Dalla ripresa delle aggressioni su larga scala del 18 marzo, invece, Israele ha ucciso almeno 1.338 persone.

Denunce, sospensioni e incatenamenti: la lotta del liceo di Bologna contro la repressione

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«Disturbavano le lezioni, così ho chiamato la Digos»: bastano le parole del preside per restituire il clima che si respira oggi nei licei italiani, dove l’intervento delle forze dell’ordine sembra essere diventato una risposta ordinaria a ogni forma di protesta studentesca. L’ultimo episodio si è verificato al Liceo Classico Minghetti di Bologna, dove un collettivo studentesco ha occupato l’istituto per manifestare contro le misure repressive introdotte dal governo con il nuovo Decreto Sicurezza. La reazione non si è fatta attendere: dieci studenti sono stati sospesi e per cinque di loro è scattata addirittura una denuncia per interruzione di pubblico servizio.

Tutto è cominciato il 18 marzo, quando il Collettivo Minghetti ha dato il via all’occupazione dell’istituto, protestando non solo contro il decreto sicurezza, ma anche contro la politica di riarmo europeo, la complicità del governo nell’assedio a Gaza e la riforma della scuola voluta dal ministro Valditara. Questioni che, secondo gli studenti «incombono sul nostro futuro come una spada di Damocle» e che li hanno spinti a utilizzare gli spazi scolastici per far sentire la propria voce.

Una scelta che, tuttavia, si è ritorta contro di loro seguendo la classica legge del contrappasso. «Già nei giorni precedenti, mentre circolava la voce di una possibile occupazione, il preside aveva minacciato conseguenze legali – ha raccontato a L’Indipendente Matteo Carrozzieri, uno degli studenti del Minghetti – Una volta iniziata l’occupazione, invece di fare denuncia contro ignoti, come da prassi consolidata, ha deciso di denunciare arbitrariamente alcuni di noi come responsabili dell’atto». Al momento sarebbero cinque gli studenti denunciati per il reato di interruzione di pubblico servizio, anche se non è ancora arrivata nessuna comunicazione ufficiale.

 «Siamo entrati nell’ufficio del preside assieme ai ragazzi del collettivo per discutere dell’occupazione – ci ha spiegato Giorgia Carlotta Spezia, rappresentante d’istituto – Il preside ha preso i nomi di chi era nel suo ufficio e li ha segnalati alle forze dell’ordine».

Non solo. Il collegio docenti ha approvato le sospensioni per dieci studenti, abbassando la condotta a 6 e imponendo, agli alunni dell’ultimo anno, la stesura di una tesina sulla cittadinanza attiva e sui principi costituzionali da presentare all’esame di maturità. Una misura calata dall’alto, voluta dal ministero dell’Istruzione guidato da Valditara, che suona come un tentativo di “rieducazione” attraverso gli stessi concetti che quei ragazzi avevano provato a difendere, scendendo in campo contro ciò che ne tradisce il significato profondo.

Una punizione ritenuta dura e ingiustificata non solo dagli studenti del collettivo, ma anche da molti loro compagni che non hanno partecipato all’occupazione. «Noi eravamo contrari alle modalità con cui è stata portata avanti la protesta a scuola – spiega sempre Giorgia Carlotta Spezia – Tuttavia, riteniamo che le ragazze e i ragazzi del collettivo siano giovani che, in un momento storico segnato dal disinteresse verso la politica e da un forte astensionismo, sognano e lottano attivamente per un mondo migliore. Sanzioni disciplinari e denunce rappresentano una reazione sproporzionata».

Solidarietà è arrivata anche da genitori, insegnanti e dalle oltre 15.000 persone che hanno firmato l’appello lanciato dal collettivo per chiedere il ritiro delle sanzioni disciplinari. Il primo aprile si è svolta una nuova manifestazione di protesta davanti alla scuola. «L’operazione è chiara e in linea con quanto sta accadendo nel Paese e nel mondo – ha scritto il regista Nicola Borghesi, ex studente del Minghetti, intervenuto in difesa dei ragazzi – abbattere ogni residuo di alterità e resistenza al progetto mostruoso che le destre stanno attuando. Colpirne uno, il Minghetti, per educarne cento».

La mobilitazione cittadina a sostegno degli studenti non ha però fatto cambiare idea al preside, deciso a procedere con sospensioni e denunce, che rivendica come aventi una «funzione simbolica e pedagogica».

È anche per questo che venerdì gli studenti sono tornati in piazza e, uniti al corteo del collettivo OSA e Cambiare Rotta, si sono recati davanti alla Prefettura per protestare contro le politiche repressive del governo nelle scuole e nelle università. Qui sono state consegnate le 15.000 firme raccolte nei giorni precedenti. Proprio in quelle ore il governo approvava, tramite decreto urgente, nuove misure in materia di sicurezza: pene più severe per le manifestazioni di dissenso, un nuovo reato di occupazione abusiva, fino a due anni di carcere per i blocchi stradali, aggravanti per chi ostacola la costruzione di opere pubbliche e aggravanti per i reati commessi in stazioni o mezzi pubblici.

E così si torna al liceo Minghetti, trasformato in un laboratorio sperimentale per l’applicazione della dottrina sempre più repressiva del governo. «È chiaro che c’è un intento intimidatorio nei nostri confronti – continua Matteo Carrozzieri – ma è altrettanto evidente che questo rappresenta un messaggio per tutti gli studenti che, in futuro, vorranno esprimere dissenso. Lo si vede anche nei licei romani, dove piovono sospensioni e bocciature per chi è accusato di aver ostacolato il diritto allo studio. Ma quattro giorni di occupazione al Minghetti non sono un pericolo per il diritto allo studio quanto lo sono i 350 milioni di tagli alla scuola previsti dalla riforma Valditara».

A chiudere, un altro episodio preoccupante. Al termine della manifestazione di venerdì, uno studente del Minghetti e un attivista di Potere al Popolo si sono incatenati davanti alla prefettura, annunciando che vi sarebbero rimasti fino a domenica, in segno di protesta non violenta. Poche ore dopo, entrambi sono stati prelevati con la forza dalla Digos e portati in questura, dove è stata notificata l’apertura di un’indagine a loro carico. Arriverà un’altra denuncia, questa volta per occupazione abusiva di suolo pubblico.

Alluvioni in Congo, 30 morti

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Nel fine settimana, in Congo, le piogge torrenziali hanno causato inondazioni nella capitale Kinshasa, provocando la morte di circa 30 persone. La notizia arriva dal ministro della Salute provinciale, che ha informato l’agenzia di stampa Reuters che il bilancio è per ora provvisorio. Le piogge sono iniziate lo scorso venerdì e hanno causato danni ad abitazioni e infrastrutture. Il disastro arriva in un periodo particolarmente difficile per il Congo, alle prese con l’avanzata ribelle dell’M23, con cui il tavolo di trattative per un cessate il fuoco è ancora in fase di preparazione.

L’arte come cura: sempre più medici prescrivono visite gratuite ai musei

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visita museo

Sempre più medici prescrivono visite gratuite ai musei come parte di percorsi terapeutici per migliorare la salute mentale e il benessere psicofisico. La pratica, già diffusa in diverse città del mondo, si sta affermando come una risorsa efficace nella lotta contro lo stress e il disagio emotivo. L'idea ha preso piede a Montréal, in Canada, dove nel 2018 il Museo di Belle Arti ha lanciato uno dei primi programmi di "prescrizione museale", permettendo ai medici di offrire ingressi gratuiti ai pazienti. Il successo dell’iniziativa ha ispirato progetti simili in città come Montpellier, nel Massac...

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Migliaia di persone scendono in piazza in tutta la Spagna per il diritto alla casa

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BARCELLONA – Ancora una volta la rivoluzione delle chiavi scuote le strade di Barcellona. Ieri, 5 aprile, il Sindicat de Llogateres ha organizzato una manifestazione contro il caro affitti: alle 18, secondo le stime del sindacato più di centomila persone si sono riversate in Plaça Espanya, alle spalle delle Torres Venecianes, per esprimere il proprio dissenso contro l’inefficacia delle politiche adottate in merito alla crisi abitativa, tra le quali la nuova Ley de Vivienda, approvata nel corso di questa legislatura dal governo del Partido Socialista Obrero Español (PSOE) e Sumar. Sul palco collocato alla fine di Avinguda de la Reina Maria Cristina esponenti di collettivi e sindacati hanno espresso il proprio dissenso contro la gestione politica della crisi, incitando alla resistenza della classe lavoratrice.

«Siamo donne migranti e come collettivo siamo profondamente colpite da questa crisi» spiega una manifestante, senza nascondere la frustrazione di una situazione che sembra peggiorare precipitevolmente, «nel nostro caso non parliamo nemmeno di appartamenti, ma addirittura di stanze in case condivise». Nonostante siano passati pochi mesi dalla vittoria agrodolce della Casa Orsola, quando la resistenza popolare sventò lo sgombero di un inquilino da un appartamento destinato ad entrare nel mercato turistico, la «crisi de la vivienda» non accenna a smettere, divenendo, una delle principali preoccupazioni della società spagnola. 

Manifestanti a Barcellona.

La stessa capitale catalana sta mostrando gradualmente l’intenzione di abbandonare quelle misure che per anni l’hanno resa, quantomeno simbolicamente, il faro della resistenza contro la turistificazione. Il sindaco socialista Jaume Collboni, infatti, ha più volte messo in evidenza profonde contraddizioni ideologiche nella gestione della crisi abitativa e dei flussi turistici. La sua costante propaganda elettorale, caratterizzata dalla promessa di applicare politiche particolarmente aggressive verso il turismo, tra le quali si annovera il divieto alle licenze per gli appartamenti turistici dal 2028 (anno in cui il suo mandato sarà già volto al termine), si accosta al desiderio di foraggiare un turismo «di qualità», attirato dall’organizzazione di grandi eventi, come l’edizione della America’s Cup di vela del 2024, che farà largo a progetti incentrati sull’accoglienza del turismo di lusso e rivela di conseguenza il classismo dietro al termine «qualità».

«C’è stato un cambio di politica nel governo comunale, chiaramente in peggio» racconta un altro manifestante. «Costruiranno case che non saranno accessibili alla maggior parte della popolazione». Un altro dei progetti che sta caratterizzando il mandato del sindaco socialista è quello di abrogare la legge approvata dall’ex sindaca Ada Colau nel 2019, che impone alle aziende costruttrici di destinare il 30% degli edifici nuovi o totalmente ristrutturati ad abitazioni a canone protetto. Questa misura, che al momento permette a quasi quattromila appartamenti di essere esclusi dalla speculazione del prezzo di mercato, secondo le entità vicine agli interessi delle imprese di costruzione, di una buona parte della politica conservatrice e al momento anche del Partito Socialista Catalano è la causa principale della crisi abitativa. Di opinione differente sono i sindacati che lottano per la difesa del diritto all’abitare. Tra questi, lo stesso sindacato organizzatore della manifestazione, che ha stilato un programma di soluzioni in dieci punti, tra le quali si osserva la necessità di regolare i canoni d’affitto, riappropriarsi di tutte le case vuote o di quelle destinate al turismo e al mercato stagionale, per poter ampliare il parco di case pubbliche. Inoltre, si difende il diritto allo sciopero e all’organizzazione da parte degli inquilini, che, come nel caso di alcuni edifici protetti di proprietà di ImmoCaixa, ha portato allo sciopero e alla conseguente interruzione del versamento dei canoni d’affitto dei residenti. 

«Siamo decine di famiglie a tenere testa al più grande multiproprietario della Catalogna» racconta Águeda Amestoy, militante del collettivo Vaga de Lloguers contra la Caixa, facendo riferimento allo sciopero degli affitti, «non lottiamo solo per le nostre case, ma lottiamo per tutte le case della classe lavoratrice». Simultaneamente, sono state organizzate altre manifestazioni in trentanove città spagnole. Anche nella capitale Madrid, più di centomila persone si sono riversate tra le vie del centro, in un corteo condotto tra la stazione di Atocha fino a Plaza España. Dalle ore 12, i manifestanti che hanno risposto alla convocazione fatta dal Sindicato de Inquilinas hanno protestato contro il caro affitti, chiedendo a gran voce garanzie efficaci in difesa della vivienda digna (abitazione degna), diritto difeso dall’articolo 47 della Costituzione spagnola. Alle migliaia di manifestanti si sono aggiunte varie entità locali e nazionali, come la Plataforma de los Afectados por la Hipoteca (Piattaforma delle persone colpite dal mutuo), il Sindicato de bomberas y bomberos contra los desahucios (sindacato dei vigili e delle vigilesse del fuoco contro gli sgomberi) e l’Unitat contre il feixisme i el racisme (Unità contro il fascismo e il razzismo).

A pochi mesi dalla precedente manifestazione tenutasi nel novembre del 2024, appare evidente come questa crisi stia mettendo in evidenza la totale inefficacia delle politiche varate dal governo spagnolo in merito. La stessa Ley de vivienda, come menzionato pochi giorni prima della manifestazione dalla pagina web della Moncloa (il sito nel quale si riportano le comunicazioni del governo), permettono ai proprietari di ottenere fino al 90% di beneficio fiscale nel caso in cui abbassino di almeno un 5% i canoni d’affitto in quelle zone dove il prezzo di mercato sta crescendo sregolatamente. Il governo PSOE-Sumar dimostra ancora una volta di mettere in pratica una propaganda finalizzata da un lato a catturare il voto di quelle classi sociali dilaniate da questa crisi e dall’altro di continuare a curare gli interessi di fondi privati, speculatori e multiproprietari.

«Abbiamo chiaro che né il Governo, né gli imprenditori troveranno una soluzione per permetterci l’accesso alle case» spiega Marta Espriu, portavoce della Confederació Sindical d’Habitatge de Catalunya. «L’unica maniera che abbiamo per mettere fine a questo business è estromettere le case dal mercato, perché finché le case rimarranno un bene di mercato, non saranno mai un diritto universale».

Mentre l’estrema destra sottolinea la presunta criticità del fenomeno delle occupazioni, appoggiata da un comparto mediatico legato a interessi immobiliari, il governo di Pedro Sánchez prova a risolvere la crisi con decreti che dichiarano apertamente quanto continui ad essere conveniente la speculazione sulle abitazioni. Ancora una volta la politica istituzionale sottovaluta il rumore di una popolazione che si organizza per resistere. Sottovaluta il rumore delle chiavi.