Nasce in Italia il primo comprensorio sciistico europeo senza impianti di risalita
Corea del Sud, cancellato l’ordine di arresto per il presidente Yoon
La Corte Distrettuale Centrale di Seoul, capitale della Corea del Sud, ha annullato il mandato di arresto nei confronti del presidente Yoon Suk Yeol, accusato di insurrezione. La decisione della Corte potrebbe portare al suo rilascio dal carcere, in cui si trova dallo scorso 15 gennaio. La Corte ha spiegato la sua decisione facendo riferimento a problemi di tempistiche nell’emissione del mandato e ha rilevato «questioni sulla legalità» del processo di indagine. Nessuna delle accuse contro Yoon è caduta. Lo scorso 3 dicembre, il presidente Yoon ha provato a imporre la legge marziale, tentativo che gli è costato un impeachment, ora sotto analisi della Corte Costituzionale, e l’arresto.
L’Estonia intensifica la guerra culturale con Mosca: il russo diventa lingua straniera
Con il pretesto della minaccia di invasione da parte della Russia e in un contesto sempre più ostile tra gli Stati Baltici e lo Stato eurasiatico, il governo estone ha deciso, attraverso una riforma del sistema scolastico, di abolire la lingua russa dalle scuole entro il 2030, sostituendola con l’uso esclusivo dell’estone e rendendo il russo una lingua «straniera». Si tratta di una decisione che intensifica la già presente guerra culturale dell’Estonia, e in generale dei Paesi baltici, contro la minoranza russa: i russi sono, infatti, considerati storicamente alla stregua di occupanti all’interno delle società baltiche divenute indipendenti dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica nel 1991. Il provvedimento rischia così di generare ulteriori attriti e discriminazioni etniche, andando a colpire quasi quattrocentomila persone. La minoranza russofona in Estonia comprende, infatti, circa il 30% della popolazione, con oltre il 40% dei russofoni che vive nella capitale Tallin e la restante parte che vive invece a Nord-Est del Paese, vicino al confine russo, con città come Narva dove i russofoni rappresentano il 90% dei residenti.
Sebbene rischi di inasprire una situazione già tesa nei rapporti con la Russia, proprio in un momento in cui le nazioni europee risultano particolarmente vulnerabili a causa delle decisioni dell’amministrazione Trump, la decisione del governo estone non sorprende: l’ex primo ministro del Paese, e attuale Alta rappresentante per gli Affari Esteri dell’Unione Europea, Kaja Kallas, infatti è una delle figure politiche più ostili alla Russia, sostenitrice della necessità di prepararsi alla guerra con Mosca. La recente decisione sulla lingua russa, d’altra parte, è solo l’ultima di una serie di azioni simili: nel 2022, ad esempio, il governo estone si era impegnato a smantellare i monumenti di epoca sovietica da tutta la nazione, a partire dalle zone russofone. «In quanto simboli della repressione e dell’occupazione sovietica, questi monumenti sono diventati una fonte di crescenti tensioni sociali», aveva scritto l’ex premier Kallas su Twitter, aggiungendo che «In questi momenti, dobbiamo ridurre al minimo il rischio per l’ordine pubblico». La mossa aveva indotto il governo russo a inserire la Kallas nella lista dei ricercati, in quanto la profanazione dei monumenti di guerra è un reato penale nella Federazione russa.
Un altro problema che riguarda la minoranza russa fin dall’indipendenza dei Paesi baltici dall’URSS è quello della cittadinanza: al momento dell’indipendenza, Lettonia e Estonia non hanno concesso la cittadinanza ai russi, tranne per quelli che erano residenti nei due Paesi da prima del 1940, anno dell’occupazione sovietica. La Lituania si è dimostrata, invece, quella più inclusiva, concedendo alle minoranze retaggio dell’ex Unione sovietica la sua cittadinanza. Se in Estonia circa il 30% della popolazione è russa, in Lettonia la percentuale di russi ammonta ad oltre un quarto dell’intera popolazione: ciò significa che migliaia di persone vivono senza essere riconosciuti da alcuna madrepatria. Si tratta dei cosiddetti russi “apolidi”, che ancora oggi posseggono i passaporti grigi per non-cittadini e non hanno accesso al diritto di voto o al pubblico impiego.
Tornando alla questione della lingua, elemento che ricopre un ruolo chiave all’interno dell’identità di una Nazione, nel 2018 la Lettonia ha vietato l’insegnamento di materie in lingue non riconosciute come ufficiali all’interno dell’UE, russo incluso. La decisione aveva suscitato il disappunto delle minoranze linguistiche, ma anche la contrarietà del Cremlino, che aveva definito il provvedimento «un atto di discriminazione e di assimilazione forzata». In Estonia, invece, è stato istituito un organo chiamato «ispezione linguistica», volto a multare le persone per l’uso di qualsiasi lingua straniera in un cartello o in qualsiasi altro testo pubblico. In un contesto dove l’unica lingua straniera usata nei documenti pubblici è di fatto il russo. Tra le decisioni di questo tipo si può annoverare anche la legge sulla lingua firmata nel 2019 dall’allora presidente ucraino Petro Porošenko: la legge ha tolto alle lingue minoritarie, russo compreso, lo status di lingue regionali limitando drasticamente il loro utilizzo nella sfera pubblica. Una decisione che ha alimentato le discriminazioni nelle regioni russofone del Donbass.
La decisione del governo estone si inserisce, dunque, in un clima di tensione dovuto al mancato superamento degli attriti e dei retaggi storici e, lungi dall’attenuare il divario sempre più ampio che si è creato tra Russia e Europa, non fa altro che inasprirlo, a scapito di minoranze destinate a pagare sulla propria pelle gli scontri in atto tra i governi.
[di Giorgia Audiello]
Uno studio spiega come lo stress cronico altera la capacità di prendere decisioni
Lo stress cronico può risultare così impattante da alterare il processo decisionale, favorendo abitudini e azioni automatiche a scapito della riflessione consapevole. Per questo meccanismo biologico, quindi, le persone sotto stress tenderebbero a ripiegare su abitudini consolidate come fumare, bere alcol o consumare cibo spazzatura: è quanto emerge da un nuovo studio scientifico condotto da un team internazionale guidato da ricercatori dell’Università della California, sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista scientifica Nature. Attraverso esperimenti sui topi, gli scienziati hanno dimostrato che lo stress prolungato silenzia un circuito cerebrale responsabile della flessibilità decisionale, mentre attiva un secondo percorso che spinge verso comportamenti ripetitivi e automatici. Si tratta della scoperta di ulteriori dettagli riguardanti un meccanismo biologico che spiegherebbe diversi comportamenti, dichiarano gli autori, anche se i risultati andranno confermati sugli esseri umani. «Questo studio individua uno dei modi in cui lo stress aumenta la formazione di abitudini», commentano i ricercatori, sottolineando il potenziale per aprire nuove strade per comprendere e gestire disturbi legati alla compulsività e alla dipendenza.
Lo stress cronico è noto per alterare la capacità di prendere decisioni ponderate, favorendo l’adozione di comportamenti automatici. Studi precedenti avevano osservato questa tendenza negli esseri umani, ma il meccanismo biologico alla base del fenomeno era ancora poco chiaro. Per questo motivo, gli autori hanno utilizzato un modello sperimentale su topi per studiare come lo stress influisca sulle reti neurali coinvolte nella scelta tra un’azione deliberata e un’abitudine consolidata. In particolare, gli animali sono stati esposti a una serie di fattori di stress lievi, come rumori improvvisi e lettiera umida, prima di essere addestrati a premere una leva per ottenere cibo. I ricercatori hanno poi osservato il comportamento dei topi una volta sazi, analizzando la loro tendenza a ripetere l’azione anche quando il premio non era più necessario. Le differenze tra topi stressati e non stressati – i quali hanno smesso di premere la leva una volta sazi – hanno permesso di individuare specifici circuiti cerebrali coinvolti nel processo.
Il team ha così scoperto che due percorsi neurali, entrambi connessi all’amigdala – la regione cerebrale che elabora lo stress – e allo striato dorsomediale, giocano un ruolo chiave nel bilanciare decisioni consapevoli e comportamenti automatici: nei topi non stressati, il primo percorso era attivo durante l’apprendimento e favoriva scelte adattive, mentre nei topi stressati risultava inibito. Al contrario, il secondo circuito, normalmente inattivo, si attivava nei soggetti stressati, potenziando la dipendenza dalle abitudini. Utilizzando l’optogenetica – una tecnica che permette di modulare l’attività neuronale con la luce – i ricercatori hanno riattivato il primo percorso nei topi stressati, ripristinando la loro capacità decisionale. Gli esseri umani avrebbero probabilmente percorsi neuronali simili, il che rende «molto plausibile che questo si traduca in qualche forma simile anche nell’uomo», commenta Eike Buabang, neuroscienziato cognitivo al Trinity College di Dublino, aggiungendo che tali risultati potrebbero portare a trattamenti migliori per i disturbi che sono stati collegati al pensiero abituale. Ad esempio, «è possibile che una condizione psichiatrica influenzi solo uno dei due percorsi correlati allo stress. Quel tipo di comprensione potrebbe aiutare a progettare un qualche tipo di terapia mirata in futuro», conclude il ricercatore.
[di Roberto Demaio]
Cassazione: governo deve risarcire migranti della “Diciotti”
Le sezioni unite della Corte di Cassazione hanno accolto il ricorso presentato da un gruppo di migranti a cui, dal 16 al 25 agosto 2018, fu impedito dall’allora Ministro dell’Interno Matteo Salvini di sbarcare dalla nave “Diciotti” della Guardia Costiera. I giudici hanno stabilito che l’esecutivo dovrà risarcirli. Secondo la Corte, infatti, il divieto di sbarco per dieci giorni «non può considerarsi un atto politico sottratto al controllo giurisdizionale, ma atto amministrativo». I giudici scrivono che «l’obbligo del soccorso in mare, oltre che fondamento di convenzioni internazionali e diritto marino, è un dovere».
Dopo mezzo secolo c’è una nuova svolta giudiziaria sulla strage di Piazza della Loggia
Oltre cinquant’anni di attesa, di inchieste, di processi. Ma per Brescia la ferita della strage di Piazza della Loggia non si è mai rimarginata. Ieri, davanti al Tribunale dei Minori, l’ultimo tassello della vicenda giudiziaria ha visto la pm Caty Bressanelli chiedere il massimo della pena possibile per Marco Toffaloni: 30 anni di carcere. L’uomo, oggi 68enne, all’epoca aveva solo 16 anni ed era militante del gruppo neofascista Ordine Nuovo. La sua colpevolezza, secondo l’accusa, emerge con chiarezza da tre pilastri: le testimonianze, una fotografia che lo immortalerebbe sulla scena e la sentenza di appello bis che ha già portato a due ergastoli. Sullo sfondo della strage, come per tutti gli attentati riconducibili all’era della “strategia della tensione”, si stagliano ancora imponenti ombre mai del tutto chiarite.
Era il 28 maggio 1974 quando una bomba nascosta in un cestino dei rifiuti esplose in Piazza della Loggia, durante una manifestazione contro il terrorismo nero. Otto morti, 102 feriti, un’Italia ancora una volta colpita dalla violenza dell’eversione neofascista. Da allora, indagini e processi si sono susseguiti, portando nel tempo alla condanna all’ergastolo di Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte. E ora Marco Toffaloni, il presunto esecutore dell’attentato, colui che avrebbe materialmente piazzato l’ordigno, rischia una condanna a 30 anni di galera. Dopo la strage, Toffaloni si trasferì in Svizzera, cambiò nome in Franco Maria Muller e ottenne la cittadinanza elvetica. Oggi non si è mai presentato in aula e, anche in caso di condanna, difficilmente sconterà la pena: per le autorità svizzere, infatti, il reato è ormai prescritto e non prevedono l’estradizione. Eppure, la Procura di Brescia non ha dubbi: giustizia deve essere fatta. L’accusa poggia su una serie di elementi ritenuti decisivi. Primo fra tutti, le dichiarazioni di Ombretta Giacomazzi – fidanzata di Silvio Ferrari, estremista di destra morto il 19 maggio 1974 a Brescia nell’esplosione di una bomba che trasportava sulla sua Vespa – che ha raccontato della presenza di Toffaloni in ambienti eversivi dell’epoca, e di Gianpaolo Stimamiglio, ex ordinovista, che dichiarò di aver ricevuto da lui una confessione implicita: «A Brescia c’ero anche io». In aula sono state citate anche altre testimonianze: una libraia veronese che riferì un’oscura ammissione dell’imputato su «una cosa grave» commessa in Italia, e un vicino di casa, che affermò di aver sentito il padre di Toffaloni ammettere che il figlio era coinvolto nella strage. Infine, c’è la fotografia scattata in Piazza della Loggia il giorno dell’attentato: secondo gli esperti, ritrarrebbe proprio Toffaloni tra la folla.
In questo lungo arco temporale, il lavoro degli inquirenti è sfociato in tre diversi processi: due con esito assolutorio, un altro finito nel 2017 con la condanna definitiva all’ergastolo dei membri veneti di Ordine Nuovo Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte. Sono state accertate anche le responsabilità di Carlo Digilio (artificiere), Marcello Soffiati (commesso viaggiatore e latore dell’ordigno) e Ermanno Buzzi (basista). Un altro criminale neofascista, Vincenzo Vinciguerra – che per anni operò a stretto contatto con Maggi in Ordine Nuovo – nel 1985 ha messo a verbale davanti ai magistrati che proprio Maggi sarebbe stato inserito all’interno di un apparato occulto formato da civili e militari, legati da forti convinzioni anticomuniste e aderenti all’idea di un rafforzamento della NATO. La strage di Piazza della Loggia viene infatti inserita nel contesto della “strategia della tensione”, sfociata in quegli attentati che, dal 1969 al 1980, insanguinarono il Paese, vedendo un ruolo esecutivo dei gruppi neofascisti e, sullo sfondo, la partecipazione attiva di entità istituzionali a livello nazionale e internazionale, in nome di macroscopici interessi geopolitici. Quando si verificò l’eccidio di Brescia, il Paese veniva dallo storico risultato del referendum sul divorzio, vinto dai progressisti e simbolo plastico della prospettiva di un reale spostamento a sinistra dell’asse politico.
Molti sono i punti di non ritorno che hanno contraddistinto le indagini sulla strage. Tra questi, il lavaggio della scena del delitto dopo solo un’ora e mezza dall’esplosione; l’omicidio di Ermanno Buzzi, strangolato nella prigione di Novara nell’aprile 1981 da Pierluigi Concutelli e Mario Bruti; la “bufala” di una fantomatica pista alternativa italo-cubana emersa da un’informativa del SID. Ma anche e soprattutto, come ricordato dall’allora giudice istruttore Gianpaolo Zorzi, «l’inqualificabile e sistematica condotta dei vertici dei Servizi Segreti» finalizzata a occultare all’autorità giudiziaria «l’esistenza delle veline, rivelatesi poi decisive, contenenti le informazioni in tempo reale della fonte “Tritone”, alias Maurizio Tramonte». In ultimo, non si può non fare menzione delle dichiarazioni rese da Ombretta Giacomazzi, fidanzata dell’ordinovista Ferrari morto nel maggio ’74, in merito alle indagini sull’attentato. Ancora terrorizzata per la sua incolumità, la donna ha in anni recenti rivelato al generale Massimo Giraudo di riunioni clandestine che avrebbero avuto luogo presso la stazione dei Carabinieri di Verona-Parona, tra elementi dell’Arma, ordinovisti e, verosimilmente, elementi del SID. Lei stessa avrebbe partecipato con Ferrari a due riunioni, identificando tra i presenti il Capitano Francesco Delfino, l’Appuntato Vittore Sandrini, alcuni neofascisti e, dopo un riconoscimento fotografico, il Colonnello Angelo Pignatelli, allora capo del SID di Verona. Dopo la morte di Ferrari, Giacomazzi avrebbe giurato di mantenere il silenzio davanti ai Carabinieri, tra cui Delfino, Pignatelli e Mario Mori (figura nota per essere stato processato e infine assolto al processo “Trattativa Stato-mafia”), che l’avrebbero incontrata nel carcere di Venezia nell’estate del 1974.
[di Stefano Baudino]
L’iceberg più grande del mondo si è arenato sulle coste della Georgia del Sud
Dopo aver sostato per tre decenni sul fondale marino e trascorso circa cinque anni alla deriva nell’Oceano Antartico, l’iceberg più grande al mondo, denominato A23a, si è arenato al largo della Georgia del Sud. Lo ha rivelato alla stampa il British Antarctic Survey (BAS), organizzazione britannica responsabile della ricerca scientifica nell’area, sottolineando che, sebbene inizialmente si temesse che il gigantesco blocco di ghiaccio potesse ostacolare l’accesso alle aree di alimentazione di foche e pinguini, la sua presenza potrebbe persino favorire l’ecosistema locale grazie al rilascio di nutrienti nell’acqua. Tuttavia, i ricercatori avvertono che le sue considerevoli dimensioni potrebbero portare a future frammentazioni, rappresentando un pericolo per la navigazione e la pesca. «Se l’iceberg rimane sulla terraferma, non prevediamo che avrà effetti significativi sulla fauna selvatica locale della Georgia del Sud», ha commentato Andrew Meijers, oceanografo del British Antarctic Survey.
L’iceberg A23a si è originato nel 1986, quando si è staccato dalla piattaforma di ghiaccio Filchner, in Antartide. Nonostante le sue dimensioni imponenti – 3.672 chilometri quadrati, leggermente più piccolo del Rhode Island e più del doppio di Londra – è rimasto incagliato sul fondale marino per oltre trent’anni, fino a quando, nel 2020, ha ripreso a muoversi a causa dell’azione combinata delle correnti oceaniche e dello scioglimento della sua base. La sua traiettoria lo ha portato verso nord, avvicinandosi progressivamente alla Georgia del Sud, una regione di grande importanza ecologica per le numerose colonie di foche e pinguini. Il monitoraggio costante da parte della comunità scientifica ha permesso di seguirne il percorso fino alla recente conferma del suo arenarsi sulla piattaforma continentale a circa 90 chilometri dalla costa.
Gli esperti del BAS hanno spiegato che se A23a rimarrà fermo nella posizione attuale, l’impatto sulla fauna locale sarà limitato e potenzialmente benefico: «I nutrienti liberati dall’impatto e dal suo scioglimento potrebbero aumentare la disponibilità di cibo per l’intero ecosistema regionale, compresi i pinguini e le foche carismatici», ha commentato l’oceanografo Andrew Meijers. Tuttavia, c’è un altro lato della medaglia, anche se per ora si tratta solo di ipotesi: «Anche se per ora l’iceberg sembra mantenere la sua struttura, negli ultimi decenni i grandi iceberg che hanno preso questa strada presto si rompono, si disperdono e si sciolgono. Ora che è a terra, è ancora più probabile che si rompa a causa delle maggiori sollecitazioni, ma è praticamente impossibile prevederlo», ha aggiunto, sottolineando che se in futuro ci dovesse essere una rottura, i frammenti più piccoli rappresenterebbero un pericolo per le operazioni di pesca e navigazione nell’area: «Le discussioni con gli operatori della pesca suggeriscono che i grandi iceberg del passato hanno reso alcune regioni più o meno inaccessibili alle operazioni di pesca per un certo periodo a causa del numero di frammenti di iceberg più piccoli, ma spesso più pericolosi».
Gli iceberg sono enormi blocchi di ghiaccio che si formano quando parti delle piattaforme glaciali si staccano e iniziano a galleggiare nell’oceano. Questo processo, chiamato parto glaciale, avviene soprattutto in Antartide e Groenlandia. Sebbene navighino in acqua salata, gli iceberg sono composti da acqua dolce, poiché derivano da neve accumulata e compressa per millenni sulle calotte glaciali della terraferma. Trasportati dalle correnti marine, possono rimanere solidi per decenni prima di sciogliersi completamente. Solo il 10% della loro massa è visibile sopra il livello del mare, mentre il resto rimane sommerso. Oltre a rappresentare un pericolo per la navigazione, svolgono un ruolo ecologico fondamentale, rilasciando nutrienti che arricchiscono gli ecosistemi marini.
[di Roberto Demaio]
Il Consiglio Europeo ha approvato il piano von der Leyen per il riarmo
«Questo è un momento spartiacque per l’Europa e per l’Ucraina come parte della nostra famiglia europea». Con queste parole, la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha presentato ai leader dell’UE il nuovo piano di riarmo europeo, denominato “ReArm Europe”. Duplice l’obiettivo: da un lato rafforzare le capacità militari del continente di fronte alle crescenti tensioni geopolitiche, dall’altro fornire sostegno diretto all’Ucraina. Di fianco a lei c’era il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, giunto a Bruxelles per partecipare al Consiglio straordinario UE. Le conclusioni sulla parte della difesa sono state adottate all’unanimità dai leader degli Stati membri, mentre quelle sull’Ucraina sono state adottate da 26 Paesi, con la sola contrarietà dell’Ungheria di Orbán.
Nella cornice del vertice, Von der Leyen ha ribadito che l’Europa si trova ad affrontare un pericolo chiaro e immediato e che il piano ReArm Europe risponde a questa necessità con un aumento significativo della spesa per la difesa. «Non c’è bisogno di descrivere la natura grave delle minacce che affrontiamo – ha affermato -. La vera domanda è se l’Europa è pronta ad agire con la velocità e l’ambizione necessarie». Diversi i punti principali del piano, che ha ottenuto il semaforo verde del Consiglio. In primis, si prevede che gli Stati membri potranno aumentare significativamente le spese militari senza incorrere nelle restrizioni del Patto di stabilità e crescita, generando fino a 650 miliardi di euro di investimenti nei prossimi quattro anni. Si mette mano inoltre alla creazione di un fondo da 150 miliardi di euro per prestiti agli Stati membri destinati a investimenti nel settore della difesa, aprendo all’utilizzo del bilancio dell’UE per incentivare investimenti militari attraverso programmi della politica di coesione e altri strumenti finanziari comunitari. Si prevede poi il coinvolgimento del settore finanziario privato nella produzione e nello sviluppo di tecnologie per la difesa e una revisione dello statuto della Banca Europea degli Investimenti, che potrà finanziare l’industria della difesa.
Zelensky ha accolto con favore il piano di von der Leyen, sottolineando l’importanza del continuo supporto europeo nella guerra contro la Russia. «Siamo molto grati di non essere soli. E queste non sono solo parole, lo sentiamo», ha dichiarato il presidente ucraino. Il piano prevede infatti la possibilità per i paesi europei di investire nell’industria della difesa ucraina o fornire direttamente equipaggiamenti militari a Kiev. Il Patto, ha detto von der Leyen, «è a vantaggio del riarmo dell’Europa, del riarmo dell’Unione europea, ma anche dell’armamento dell’Ucraina nella sua lotta esistenziale per la sua sovranità e integrità territoriale». Contestualmente, in una dichiarazione alla stampa la presidente della Commissione UE ha ringraziato Zelensky per essere approdato a Bruxelles, parlando di «un momento molto importante per dimostrare che siamo al fianco dell’Ucraina per tutto il tempo necessario».
Il piano ReArm Europe è stato accolto con favore da diversi leader europei, tra cui il presidente francese Emmanuel Macron e il cancelliere tedesco Olaf Scholz, che hanno sottolineato l’importanza di una strategia comune per garantire la sicurezza dell’Europa. Tuttavia, alcuni Stati membri, tra cui l’Ungheria di Viktor Orbán, hanno espresso perplessità sulla possibilità di aumentare la spesa militare senza compromettere gli equilibri di bilancio nazionali. Zelensky, nel frattempo, ha avuto un bilaterale con Macron, che ieri aveva denunciato una minaccia russa all’Europa intera e proposto di estendere l’ombrello nucleare francese al continente. Dopo aver ringraziato Macron per la sua «posizione chiara nel sostenere l’Ucraina e per la necessità di misure nuove e più serie per proteggere l’intera Europa», il presidente ucraino ha reso noto su Telegram che l’11 marzo si terrà una riunione a livello dei rappresentanti militari dei Paesi «volenterosi» per il sostegno a Kiev. Parallelamente, la Russia continua a consolidare la sua posizione nelle regioni occupate del Donbass, mentre i negoziati tra Mosca e Washington avanzano senza il coinvolgimento diretto dell’UE. Nel frattempo, dopo la lite avuta con Trump nello studio ovale la scorsa settimana, Zelensky ha confermato di aver ripreso a collaborare con gli USA, dicendo che i funzionari dei due Paesi dovrebbero incontrarsi la prossima settimana.
[di Stefano Baudino]
Siria, scontri tra forze di sicurezza e militanti pro-Assad: oltre 70 morti
Violenti scontri nel nord-ovest della Siria tra membri delle forze di sicurezza e militanti fedeli al deposto presidente Bashar al-Assad hanno causato almeno 70 morti, oltre al ferimento e alla cattura di decine di persone. Lo ha riferito l’Osservatorio siriano per i diritti umani (OSDH). Gli scontri, verificatisi nelle città costiere di Tartus e Latakia, sono secondo l’Osservatorio «gli attacchi più violenti contro le nuove autorità dalla caduta di Assad» a dicembre. Il ministero della Difesa siriano ha annunciato che le sue forze hanno cominciato a schierarsi nelle città in cui si sono verificati gli scontri, a supporto delle forze dell’amministrazione per la sicurezza generale.