martedì 28 Ottobre 2025
Home Blog Pagina 196

Sugar Tax: il grande inganno della tassa sullo zucchero

0

Salvo ripensamenti dell’ultimo minuto, il 1° luglio prossimo dovrebbe entrare in vigore in Italia la «tassa sullo zucchero» (Sugar Tax). Forza Italia e Lega avevano chiesto di rinviarla al 2026, ma la proposta è stata respinta dalla Ragioneria dello Stato. Cos’è esattamente la tassa sullo zucchero? In realtà, il nome scelto per questa norma è ingannevole, in quanto essa si applica solo alle bevande zuccherate e a quelle energetiche, ma non a tutti i cibi e prodotti che contengono zucchero aggiunto, come ad esempio merendine, brioche, caramelle, ecc. Una denominazione precisa sarebbe quindi «tassa sulle bibite zuccherate», non «tassa sullo zucchero». Ma sorvoliamo su questo e concentriamoci sulla sostanza.

Che cos’è la Sugar Tax italiana

La sugar tax (tassa sulle bevande zuccherate) è una misura fiscale introdotta da diversi Paesi europei e nel mondo, con l’obiettivo di ridurre il consumo di zucchero aggiunto nelle bevande e promuovere comportamenti alimentari più sani. In Italia, questa tassa si applica alle bevande zuccherate, incluse quelle energetiche, tè freddi, cedrate, chinotto, bitter, succhi di frutta con zucchero aggiunto e altre bevande dolcificate con edulcoranti artificiali.

La cosiddetta «tassa sullo zucchero» nasce con diversi obiettivi. In primis, quello di tutelare la salute pubblica, riducendo l’incidenza di malattie croniche come obesità, diabete di tipo 2, malattie cardiovascolari e tumori, fortemente correlate al consumo eccessivo di zuccheri. A questo si aggiungono obiettivi economici, ovvero generare entrate fiscali da reinvestire in programmi di salute pubblica e di educazione alimentare. Un ulteriore obiettivo è incentivare i produttori a riformulare ricette e ingredienti dei loro prodotti, riducendo il contenuto di zucchero e offrendo ai consumatori alternative più salutari.

Inizialmente, l’aliquota prevista era di 10 centesimi di euro per litro e, per i prodotti in polvere da diluire, di 0,25 euro per kg. Tuttavia, a seguito dei vari emendamenti introdotti dal governo dal 2020 a oggi, l’aliquota è stata dimezzata: per il primo anno sarà pari a 5 centesimi di euro al litro per le bibite zuccherate e 13 centesimi al chilogrammo per i prodotti da diluire (es. tè in polvere in bustina). Dal 2026, salirà rispettivamente a 10 e 25 centesimi.

La legge era stata varata dal Governo Conte II, nell’ambito della manovra finanziaria (Legge di Bilancio) del 2020, quando ministra della Salute era Giulia Grillo. Successivamente, anche a causa della forte opposizione del ministro Antonio Tajani, la sua entrata in vigore è stata rinviata otto volte, fino a quando, nel maggio scorso, è stata fissata al 1° luglio 2025.

Prima di attribuire però dei meriti — del tutto ingiustificati, come vedremo tra poco — al governo Conte, è bene ricordare che nel 2019 la testata Il Fatto Alimentare aveva promosso una raccolta firme a favore di una sugar tax del 20% sulle bibite zuccherate, sostenuta da dieci società scientifiche italiane operanti in ambito nutrizionale e diabetologico, e da 340 nutrizionisti, pediatri e medici. La proposta fu ignorata dal governo. E chi c’era al governo nel 2019? Nel corso di quell’anno si sono succeduti due esecutivi guidati da Giuseppe Conte: il Conte I, fino a settembre, e il Conte II, in carica dal 5 settembre 2019 al 13 febbraio 2021.

Il risultato netto finale: è stata ignorata una proposta seria per contenere i consumi di zucchero, ed è stata invece varata una misura giudicata alquanto irrilevante, che difficilmente potrà avere effetti concreti nella riduzione del consumo di bevande zuccherate e nella tutela della salute pubblica.

Critiche alla Sugar Tax italiana

Per rendersi conto della completa irrilevanza di questo provvedimento normativo in Italia, basta il semplice buon senso e un minimo di spirito critico. Da quando entrerà in vigore la tassa, un litro di Coca-Cola o Fanta costerà, ai prezzi correnti, 1,85 euro anziché 1,80, mentre una bibita alla cola o un’aranciata a marchio del supermercato costerà 0,85 euro invece di 0,80.

Si tratta di aumenti irrilevanti, che potrebbero non portare a una diminuzione dei consumi. La riduzione dei consumi si è verificata nei Paesi dove la tassa è elevata, attorno al 20% del prezzo base, e soprattutto progressiva, cioè cresce con l’aumentare della concentrazione di zucchero in un prodotto (come nel Regno Unito, Ungheria, Messico e Cile). La sugar tax italiana non possiede nessuna di queste due caratteristiche.

Questa misura è dunque destinata al fallimento già in partenza, ma potrà servire per offrire un’immagine di facciata di attenzione alla salute da parte del governo, e per venire incontro alle esigenze dell’industria delle bibite e dello zucchero. Quest’ultima ha più volte protestato e ottenuto tavoli di confronto col governo italiano, prospettando un futuro disastroso per il settore e per l’occupazione, riuscendo a ottenere ripetute dilazioni per una tassa che si ha il coraggio di presentare come un provvedimento a tutela della salute pubblica.

Persino Coldiretti e Confagricoltura si sono detti contrari, sostenendo che la tassa sullo zucchero scoraggerebbe il consumo di prodotti Made in Italy come chinotti e cedrate.

La Sugar Tax degli altri

In Europa, la sugar tax è presente in Norvegia, Finlandia, Francia, Spagna, Polonia e Ungheria. In Cile e Messico, dove la sugar tax è elevata e progressiva, i consumi sono calati del 12%. In Danimarca, invece, la tassa è stata ritirata perché era facile procurarsi bevande non tassate in Germania o Svezia.

Il Belgio (dal 2016) applica un’imposta fissa per litro di bevande, così come l’Ungheria (dal 2011), dove la tassa è estesa anche a numerosi alimenti solidi. La Norvegia ha introdotto un’imposta fissa per litro sulle bevande zuccherate oltre un secolo fa, nel 1922, aumentandola nel 2018.

Laddove l’incremento di prezzo ha raggiunto il 20–30%, si è registrato un vistoso calo dei consumi, soprattutto quando i ricavi statali non sono stati destinati solo a fare cassa, ma reinvestiti in campagne di educazione alimentare e promozione della salute. Senza un contemporaneo investimento in programmi educativi e in robuste campagne di sensibilizzazione ai corretti stili di vita, può verificarsi uno spostamento dei consumi verso altre fonti di zucchero o calorie.

Secondo dati aggiornati al 2023, la sugar tax è presente in 105 Paesi, coprendo il 51% della popolazione mondiale: in particolare, il 67% nei Paesi a basso reddito e il 29% in quelli ad alto reddito.

Quanto è grave il problema dello zucchero?

A conclusione di questo articolo, è importante offrire un quadro, seppur sintetico, del grave problema alla base di queste misure statali contro le bevande contenenti zucchero o dolcificanti artificiali. Secondo gli ultimi dati disponibili del Centro di Ricerca Alimenti e Nutrizione del CREA, in Italia consumiamo in media 83 grammi di zuccheri semplici al giorno pro capite, contro i 25 grammi massimi raccomandati per una dieta da 2.000 calorie.

Percentuale di bambini di 8-9 anni che consuma ogni giorno bevande zuccherate (Fonte: Osservatorio Okkio alla salute ISS)

Ogni anno beviamo 54 litri di bevande gassate e zuccherate a testa, equivalenti a 5 kg di zucchero pro capite. L’ultimo dato elaborato dall’Istituto Superiore di Sanità indica che il 24,6% dei bambini italiani consuma bibite zuccherate e/o gassate tutti i giorni. Si tratta di dati di estrema gravità, che impongono una riflessione seria e lo studio di misure realmente efficaci volte a cambiare i comportamenti alimentari.

Consulta sul reato di abuso d’ufficio: l’abrogazione è costituzionale

0

La Corte Costituzionale ha stabilito che l’abrogazione del reato di abuso di ufficio non è incostituzionale. La sentenza arriva dopo un’udienza in cui la Corte ha esaminato 14 questioni di legittimità costituzionale sollevate da altrettante autorità giurisdizionali, tra cui la Corte di Cassazione. Il reato di abuso di ufficio è stato abolito lo scorso 17 luglio, con l’appoggio di maggioranza, Azione e Italia Viva. Esso sanzionava “un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle sue funzioni, compie un atto in violazione di leggi o regolamenti, con l’intenzione di procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale oppure di arrecare ad altri un danno ingiusto”.

Gaza: alla vigilia della “soluzione finale” di Israele, l’ONU condanna il silenzio globale

2

Un gruppo di oltre 20 esperti e relatori dell’ONU ha condannato il silenzio complice degli Stati sul genocidio in Palestina, lanciando un appello globale perché si muovano per fermarlo. Giusto qualche giorno prima, il Parlamento Europeo ha rigettato due mozioni di modifica dell’agenda che chiedevano di inserire un dibattito assembleare sull’attacco alla nave Conscience della Freedom Flotilla, e uno sul piano israeliano di occupare militarmente la Striscia di Gaza. Durante quella stessa sessione, gli europarlamentari sono stati impegnati a parlare di riarmo e ad approvare con procedura d’urgenza il passaggio immediato al voto per la revisione dei fondi di coesione prevista dal piano von der Leyen. «Mentre gli Stati dibattono sulla terminologia – si tratta o non si tratta di genocidio? – Israele continua la sua incessante distruzione della vita a Gaza, massacrando impunemente la popolazione sopravvissuta». A permetterlo, denunciano gli esperti, è proprio l’omertà generale; come nel caso degli Stati europei, che quotidianamente ignorano la distruzione, lo sfollamento, i massacri, e la carestia che Israele sta portando avanti e provocando in Palestina.

La lettera dei relatori ed esperti ONU è stata condivisa ieri, mercoledì 7 maggio. Siamo davanti a un bivio, scrivono gli esperti: «Agire ora per porre fine alla violenza o assistere all’annientamento della popolazione palestinese a Gaza». È arrivato il momento di «superare la retorica e adottare misure coercitive per porre immediatamente fine alla carneficina», tenendo a mente che chiunque continui «a sostenere Israele materialmente o politicamente, in particolare tramite trasferimenti di armi e la fornitura di servizi militari e di sicurezza privati, rischia di rendersi complice di genocidio e altri gravi crimini internazionali». La lettera vuole condannare e spezzare il clima di omertà generale sulla questione palestinese e arriva proprio due giorno dopo la decisione di ignorare il piano di occupazione della Striscia e l’attacco alla nave Conscience da parte del Parlamento europeo. Contro il primo, l’UE si è limitata a rilasciare la solita dichiarazione di circostanza, in cui si professa «preoccupata». Sul secondo, non ha rilasciato alcun commento.

«La decisione è netta: rimanere passivi e assistere al massacro di innocenti o partecipare alla creazione di una giusta soluzione», scrivono i relatori. Per farlo, gli strumenti a disposizione degli Stati ci sono, e sono diversi, come già espresso dalla relatrice speciale Francesca Albanese svariate volte: fermare il commercio di armi con Israele, prendere misure di natura politica ed economica – come le sanzioni – per esercitare pressioni su Tel Aviv, supportare il Sudafrica nella sua causa contro Israele per genocidio, costringere Israele ad ammettere i propri crimini e a ripagare per i danni causati, continuare a fornire aiuto economico alle organizzazioni presenti sul posto. Alcuni Stati europei, come Spagna e Irlanda, si sono effettivamente mossi per provare a esercitare pressioni sullo Stato ebraico, chiedendo di rivedere l’accordo UE-Israele. Esso sta alla base delle relazioni economiche dell’Unione con Tel Aviv, e si fonda sul rispetto dei principi democratici e dei diritti umani. Recentemente anche l’Olanda, finora uno dei Paesi membri dell’UE che ha mostrato più supporto a Israele, ha richiesto una revisione dell’accordo.

Come sottolineano i relatori, mentre il mondo ignora quello che succede in Palestina, a Gaza, la gente inizia a morire di fame: dopo oltre due mesi di blocco totale dell’entrata degli aiuti umanitari, World Central Kitchen ha affermato di avere terminato le scorte di cibo. L’annuncio di WCK fa seguito a quello del Programma Alimentare Mondiale, che ha dichiarato di aver ormai terminato le scorte di cibo per le famiglie, mentre la maggior parte degli altri magazzini nella Striscia sono già chiusi da tempo. Parallelamente, il prezzo dei beni alimentari è aumentato a dismisura, con la farina che ha raggiunto i 72,60 dollari al chilo (contro i 6,70 dollari al chilo di ottobre 2023) e l’olio i 12,60 dollari al litro (prima di ottobre 2023 il prezzo era di 1,90 dollari al litro); le cucine comuni stanno chiudendo e hanno finito il carburante, mentre i cittadini che provano a cucinare per sé stanno facendo ricorso alla combustione dei rifiuti e dei resti di cibo deteriorati. In un video pubblicato sui social, la giornalista Bisan Owda ha rilasciato una video-testimonianza in cui racconta che «la gente, la mia gente, cammina per le strade senza essere in grado di riconoscere cosa ha attorno» a causa della fame. «Israele sta usando la fame come strumento di guerra».

Il genocidio continua anche a colpi di bombe. Ieri Israele ha lanciato intensi bombardamenti in tutta la Striscia sullo sfondo del nuovo piano approvato per occupare militarmente Gaza che dovrebbe entrare in vigore dopo la visita di Trump in Medio Oriente tra il 13 e il 16 maggio. Ieri, l’aviazione israeliana ha colpito la scuola Abu Hamisa nel campo profughi di Bureij, situato nel Governatorato di Deir al-Balah, uccidendo almeno 32 palestinesi. Israele ha bombardato anche Gaza City, colpendo un ristorante thailandese e la scuola di al-Karama, uccidendo rispettivamente 33 e 15 persone. Altri attacchi sono stati registrati nel Governatorato di Nord Gaza, dove Israele sta portando avanti il piano di demolizione degli edifici, e a sud, a Khan Younis, dove Israele ha bombardato una residenza familiare, uccidendo 8 persone. Solo nella giornata di ieri Israele ha ucciso almeno 102 persone, ferendone altre 193.

Dall’escalation del 7 ottobre, Israele ha distrutto o danneggiato il 92% delle case (l’ultimo aggiornamento risale a prima del cessate il fuoco del 19 gennaio), l’82% delle terre coltivabili (i dati più recenti sono di ottobre 2024), l’88,5% delle scuole (dato del 25 febbraio 2025) e, in generale, il 69% di tutte le strutture della Striscia (1 dicembre 2024). Il 59% del territorio della Striscia risulta sotto ordine di evacuazione o interdetto ai civili. In totale, l’esercito israeliano ha inoltre ucciso direttamente almeno 52.653 persone, anche se il numero totale dei morti potrebbe superare le centinaia di migliaia, come sostenuto da un articolo della rivista scientifica The Lancet e da una lettera di medici volontari nella Striscia.

Perù: l’industria del legno minaccia la sopravvivenza delle popolazioni incontattate

0

La distruzione della foresta amazzonica peruviana al confine con il Brasile sta mettendo a serio rischio la sopravvivenza dei Mashco Piro, la popolazione nativa “incontattata” più numerosa al mondo. Ad esserne responsabile è l’azienda Canales Tahuamanu, compagnia privata del taglio del legno che dal 2016 ha costruito oltre 200 chilometri di nuove strade nell’area, dando via a una urbanizzazione che sta spezzettando il territorio. A denunciarlo è l’organizzazione per la tutela delle popolazioni native Survival International, che ha lanciato una campagna di pressione pubblica affinchè all’azienda venga ritirata la certificazione FSC, che attesta la corretta gestione forestale.

Da ormai diversi anni la compagnia per il taglio del legno Canales Tahuamanu estrae legname dalla terra dei Mashco Piro mettendo in serio pericolo la loro sopravvivenza: la distruzione della foresta, incontri fortuiti con i taglialegna e la diffusione di malattie potrebbero sterminarli. «La cosa più incredibile», denuncia Survival International, «è che Canales Tahuamanu abbia persino ricevuto la certificazione di FSC (Forest Stewardship Council), un riconoscimento che dovrebbe garantire l’operato etico e sostenibile delle aziende – ma, chiaramente, non è questo il caso». L’organizzazione chiede a FSC di revocare definitivamente la certificazione, al momento soltanto sospesa. «Perdere la certificazione manderebbe un segnale forte sia alla compagnia sia al governo peruviano: le attività di taglio del legno nell’area devono essere fermate prima che per i Mashco Piro sia troppo tardi», è scritto nel lancio della campagna di Survivol International.

Nel settembre scorso, FSC ha sospeso per otto mesi la sua certificazione per Maderera Canales Tahuamanu (MCT), una società di disboscamento la cui concessione confina con la riserva territoriale Madre de Dios istituita nel 2002, di 829.941 ettari, sede dei Mashco Piro, uno dei popoli isolati della zona. La decisione di FSC era arrivata dopo alcuni rapporti che riportavano di incontri violenti tra taglialegna e Mashco Piro, con anche almeno due morti e alcuni feriti. Gli incidenti sono stati segnalati da FENAMAD, una federazione indigena locale che rappresenta 39 comunità nelle regioni peruviane di Cusco e Madre de Dios. Survival International, con FENAMAD e AIDESEP, organizzazioni indigene locali, vogliono garantire che la terra di Mashco Piro sia adeguatamente protetta e chiedono al governo peruviano di rimuovere tutte le società di disboscamento dal loro territorio, oltre che di ingrandire la riserva. Quando questa fu istituita, su pressione di FENAMAD, il governo peruviano concesse infatti solo un terzo dell’area richiesta.

Più che incontattate, queste popolazioni sono comunità che si sono isolate per conservare la propria esistenza dopo aver conosciuto il colonialismo europeo. Nel 1880, con il famigerato “Gomber Boom”, il boom della gomma, che spazzò l’Amazzonia occidentale in quel momento. Furono decine di migliaia gli schiavi che vi lavorarono, di indigeni sulla loro terra uccisi, frustati, incatenati, cacciati, violentati e derubati della loro foresta, della loro casa e della loro spiritualità. Ma alcuni sono riusciti a fuggire e isolarsi. E tra questi popoli ci sono i Mashco Piro, che oggi dovrebbero essere circa 750, che sono riusciti a sopravvivere inoltrandosi nella foresta, verso le sorgenti dei fiumi remoti e sono rimasti lontani, nascosti. Oggi, i loro discendenti, che continuano a vivere in isolamento, ma vedono le loro terre invase ancora una volta, nell’inesorabile tritatutto del sistema capitalistico che avanza inesorabile.

Strage Enel di Suviana, 5 indagati

0

Sono 5 le persone indagate per la strage dovuta all’esplosione nello stabilimento della centrale elettrica di Enel Green Power sul lago di Suviana (Bologna), nella quale morirono 7 lavoratori. Le accuse sono di disastro colposo, omicidio colposo sul lavoro plurimo e lesioni colpose sul lavoro. I fatti risalgono al 9 aprile 2024 quando, a causa di un’anomalia meccanica per la quale i periti hanno avanzato sei possibili cause, si verificò un’esplosione nel piano -8 dello stabilimento, a circa 40 metri di profondità, dove diversi lavoratori stavano eseguendo il collaudo di un generatore.

Meloni riferisce in Senato dopo 18 mesi e non parla di niente (anche grazie alle opposizioni)

0

Dopo circa un anno e mezzo dall’ultima occasione, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha tenuto il suo quarto question time in Parlamento, ossia una seduta parlamentare dedicata al dialogo diretto tra la premier e i legislatori. In sede di interrogazione, tra i vari temi trattati, Meloni ha parlato di economia, difesa, energia, politica estera, riforme e immigrazione, sottolineando i presunti successi del proprio governo e abbozzando possibili scenari futuri. A conti fatti, tuttavia, poche sono state le effettive domande poste dai rappresentanti di partito, e ancora meno le risposte della presidente: quella che dovrebbe essere un’occasione per discutere dei piani dell’esecutivo su temi chiave è stata così trasformata da ambo le parti in uno scontro politico tra maggioranza e opposizione, in cui si è parlato di tutto, ma non si è detto niente.

Il question time di Giorgia Meloni si è tenuto ieri, mercoledì 8 maggio, nell’Aula del Senato. Il question time è un dibattito tra partiti e rappresentanti di governo che fornisce ai legislatori la possibilità di porre al ministro interessato delle domande. Ogni interlocutore ha posto una domanda alla presidente del Consiglio, per poi replicare alla sua risposta. Ad aprire il question time di ieri è stato il senatore Calenda, rappresentante e segretario di Azione, che ha chiesto a Meloni come il governo intenda operare in materia di difesa nazionale. Meloni ha confermato i piani dell’esecutivo di raggiungere l’obiettivo del 2% del PIL entro la fine dell’anno, e ha affermato di non voler utilizzare i fondi di coesione dell’UE per gli investimenti nella difesa. In un aspro confronto col senatore Renzi, Meloni ha confermato la propria intenzione di portare avanti la riforma per il premierato, nonché l’apertura a introdurre le preferenze in un’eventuale riforma della legge elettorale, fornendo agli elettori la possibilità di scegliere direttamente il candidato da eleggere. Parlando di politica estera, invece, ha ribadito il proprio sostegno all’Ucraina, al cosiddetto “piano arabo” per Gaza e al mantenimento dei rapporti di vicinanza con gli USA.

Proprio il rapporto di vicinanza con gli USA è stato centrale, e parecchio criticato, in diverse interrogazioni dei parlamentari. Uno dei temi su cui più si è dibattuto a riguardo è quello che i partiti di opposizione descrivono come un servilismo italiano nei confronti degli Stati Uniti, specialmente in materia di interessi economici e nel settore dell’energia. Su questi temi, più che porre domande, si è passati a un confronto acceso, denso di accuse reciproche e, considerando quello che dovrebbe essere il fine del question time, poco produttivo. Meloni è stata accusata di stare destinando «40 miliardi di euro dei contribuenti italiani» agli USA nell’ambito degli accordi lanciati in occasione della sua visita a Washington; la presidente ha affermato che il calcolo di tale somma «è inventato». Per quanto riguarda la questione energetica, Meloni ha affermato di stare portando avanti una strategia di diversificazione dell’approvvigionamento del Paese, che include anche il GNL statunitense. Meloni ha poi parlato di economia, rispondendo prevalentemente a interrogazioni provenienti dagli alleati di governo. I suoi interventi in merito si sono limitati a esporre i presunti successi del governo e a parlare in termini molto generici di piani futuri, senza nominare vere e proprie iniziative. Sempre un parlamentare dei partiti di governo ha chiuso il question time introducendo il tema dell’immigrazione. Anche in questo caso, Meloni ha celebrato i presunti successi dell’esecutivo ed è tornata a criticare la magistratura sul caso Albania.

Tirando una riga, si potrebbe affermare che il question time tenutosi ieri sia stato prevalentemente caratterizzato da una vena polemica da entrambe le parti. Malgrado i temi affrontati siano stati diversi, gli interventi dei legislatori si sono, nella maggior parte dei casi, concentrati sul lanciare critiche (quelli dell’opposizione) o nel tessere lodi (quelli della maggioranza) a Meloni, senza scendere davvero nel merito. I piani di spesa sul riarmo sono stati a malapena menzionati; i presunti strumenti economici a sostegno dei più poveri coperti da semplici slogan; come verrà realmente affrontato il caro bollette resta ignoto; di come l’Italia intenda perseguire la pace in Ucraina non si è parlato; della situazione a Gaza neanche. A quasi 18 mesi dall’ultimo question time, insomma, il dibattito in Parlamento tanto richiesto dalle opposizioni si è concretizzato in un’interrogazione politicizzata, fornendo l’assist al governo per ribadire quello che ripete ogni giorno ed evadere le domande che davvero interessano i cittadini.

Dopo 40 anni di sfratti, gli indigeni indiani Jenu Kuruba si sono ripresi le terre ancestrali

0
Jenu Kuruba

Il villaggio di Karadikallu Hattur Kollehaadi, nel cuore della foresta di Nagarhole, a sud dell’India, si è popolato di nuovo. Gli abitanti, appartenenti alla comunità Adivasi dei Jenu Kuruba, uno dei popoli indigeni più antichi del Karnataka, hanno iniziato a ricostruire le loro case con materiali tradizionali, dichiarando di non voler più lasciare le terre da cui furono sfrattati quarant’anni fa. È la prima volta che una comunità indigena indiana torna a vivere in massa dentro un’area protetta, rivendicando diritti sanciti dalla legge ma mai rispettati.
«Non siamo invasori. Siamo i protettor...

Questo è un articolo di approfondimento riservato ai nostri abbonati.
Scegli l'abbonamento che preferisci 
(al costo di un caffè la settimana) e prosegui con la lettura dell'articolo.

Se sei già abbonato effettua l'accesso qui sotto o utilizza il pulsante "accedi" in alto a destra.

ABBONATI / SOSTIENI

L'Indipendente non ha alcuna pubblicità né riceve alcun contributo pubblico. E nemmeno alcun contatto con partiti politici. Esiste solo grazie ai suoi abbonati. Solo così possiamo garantire ai nostri lettori un'informazione veramente libera, imparziale ma soprattutto senza padroni.
Grazie se vorrai aiutarci in questo progetto ambizioso.

Germania, i richiedenti asilo potranno essere respinti alla frontiera

0

Il giorno dopo l’insediamento del governo Merz, il ministro degli Interni tedesco Alexander Dobrindt ha annunciato di avere dato indicazioni per autorizzare la polizia a respingere al confine le persone richiedenti asilo. «Ho rimosso le istruzioni per la polizia di confine in base alle quali non potevano essere respinti soggetti che intendevano fare richiesta di asilo», ha dichiarato il ministro in conferenza stampa, riferendosi a una legge del 2015 che impediva proprio il respingimento delle persone migranti che intendevano chiedere asilo al Paese. Per portare avanti tale operazione, ha sottolineato Dobrindt, la Germania rafforzerà i controlli e aumenterà il personale di polizia schierato presso i confini.

Guerra in Sudan: gli attacchi contro la capitale aggravano la crisi umanitaria del Paese

0

Da domenica mattina Port Sudan non è più un luogo sicuro. Dall’inizio della devastante guerra civile tra le Forze armate sudanesi e la milizia paramilitare delle Rapid Support Force (RSF), cominciata nell’aprile 2023, la città costiera era diventata la safe zone del Paese, nonché la capitale de facto. Tutti gli uffici delle Nazioni Unite, delle ONG e le istituzioni sudanesi, una volta perso il controllo della capitale da parte dell’esercito sudanese, hanno spostato i propri uffici a Port Sudan. La città è anche rifugio per centinaia di migliaia di sfollati in fuga dai combattimenti. Sulle sponde del Mar Rosso e negli aeroporti della città costiera arrivano gli aiuti alla popolazione e i beni di prima necessità, rendendo così Port Sudan l’hub umanitario del Paese. Ma se fino a domenica mattina la città sembrava un oasi in mezzo ai massacri, oggi le cose sono cambiate.

«Alle 4,30 del mattino di domenica 4 maggio si è sentita una forte esplosione, i vetri della casa dove stiamo hanno tremato» racconta a Camilla Passarotti, programme manager di Emergency, ONG presente in Sudan dal 2007 con un centro di cardiochirurgia a Khartoum e dal 2011 anche a Port Sudan con un centro pediatrico. Nella giornata di domenica sono stati colpiti «la base aerea di Osman Digna, un deposito merci e alcune strutture civili nella città di Port Sudan. Non sono state riportate vittime», ha riferito un portavoce dell’esercito. Il comandante della zona militare del Mar Rosso, il generale Mahjoub Bushra, ha affermato che «almeno 11 droni sono stati colpiti dalle forze antiaeree della città e la situazione è  sotto controllo, siamo in grado di affrontare questo tipo di attacchi». Con l’aeroporto chiuso nella mattina di domenica 4 maggio, ma riaperto la sera stessa, sembrava che la situazione fosse rientrata. Tuttavia, già lunedì mattina altre esplosioni hanno tuonato nella città. Secondo quanto riporta una fonte militare che ha parlato con l’agenzia stampa Reuters, l’attacco di lunedì ha colpito dei depositi di carburante. Il ministro dell’Energia e del Petrolio, Mohiedienn Naiem Mohamed Saied, durante una visita sul luogo dell’attacco ha affermato che «questa operazione si aggiunge alla fedina penale sporca dei criminali che continuano a prendere di mira strutture civili e di servizio in Sudan. L’obiettivo è quello di sconvolgere la vita nel Paese». Dopo una notte di sbigottimento e paura, martedì mattina, Port Sudan si è risvegliata ancora al suono di diverse esplosioni che sembra abbiano colpito un altro deposito di carburante, l’aeroporto internazionale, una centrale elettrica e un hotel. La compagnia elettrica sudanese ha confermato che alcuni droni hanno colpito la principale sottostazione elettrica della città, provocando un blackout in tutta Port Sudan. Secondo quanto riportato da Al jazeera l’hotel colpito si troverebbe proprio nei pressi di alcune strutture governative tra cui la Presidential Guest House, dove il capo delle Forze armate sudanesi e presidente ad interim, Abdel Fattah al-Burhan, riceve i visitatori e ha i suoi uffici. Sebbene gli uffici umanitari e i magazzini delle Nazioni Unite a Port Sudan non siano stati colpiti il Servizio aereo umanitario delle Nazioni Unite (UNHAS) ha temporaneamente sospeso i voli da e per la città sul Mar Rosso, ha affermato il vice portavoce delle Nazioni Unite, Farhan Haq.  

Le esplosioni che stanno sconvolgendo Port Sudan rappresentano un pericoloso allargamento del conflitto nella parte orientale del Paese. Anche se ancora non ci sono state rivendicazioni da parte delle RSF riguardo questi attacchi, sia le Nazioni Unite che delle organizzazioni della società civile sudanese ritengo le RSF responsabili dei bombardamenti. Gli attacchi arrivano un mese dopo la massiccia offensiva dell’esercito sudanese, che è riuscito a riconquistare una buona parte della capitale Khartoum, in mano ai paramilitari già da poche settimane dopo lo scoppio del conflitto. Bisogna però ricordare che, nonostante la perdita di importanti posizioni, le RSF mantengono un pressoché totale controllo della grande regione del Darfur nella parte occidentale del Paese e della maggior parte delle regioni del sud. Da marzo, quando le RSF hanno perso la capitale, i paramilitari hanno fatto sempre più affidamento sui droni, attaccando in profondità nel territorio controllato dall’esercito. Fino a domenica sembrava che le Forze armate sudanesi avessero il controllo del nord est mentre le RSF del sud ovest, però questi attacchi contro la città orientale di Port Sudan potrebbero portare a un cambio degli equilibri sul campo. 

Proprio mentre lo scorso lunedì mattina la città costiera veniva colpita dal secondo bombardamento in meno di 24 ore, la Corte Internazionale di Giustizia ha respinto il caso presentato dal Sudan contro gli Emirati Arabi Uniti (EAU), accusati di aver violato la Convenzione ONU sul genocidio armando e finanziando le RSF, che più volte si sono macchiate di crimini di guerra e contro l’umanità. Lunedì pomeriggio la Corte ha dichiarato di essere «manifestamente priva» dell’autorità per proseguire il procedimento e ha archiviato il caso. Infatti, anche se, sia il Sudan che gli EAU hanno firmato la Convenzione sul genocidio del 1948, gli Emirati hanno una deroga sulla giurisdizione dell’Aia. Lo scorso mese, quindi, i legali degli EAU hanno sostenuto che il tribunale dell’ONU non potesse giudicare lo stato arabo. Lunedì questa obiezione è stata accolta e il caso archiviato. Il portavoce ufficiale del governo sudanese, il ministro della Cultura e dell’Informazione, Khalid Al-Aiser, sul suo profilo X ha affermato: «Se i giudici della Corte internazionale di giustizia hanno sospeso l’esame del caso per ragioni procedurali e non per ragioni sostanziali, ci sono altre corti internazionali che accettano tali casi, perseguono i criminali, rendono giustizia alle persone». Nel pomeriggio di martedì poi, a seguito di una riunione del Consiglio di sicurezza sudanese è stato deciso all’unanimità di sospendere e relazioni con gli EAU. 

Con molta probabilità i droni usati per bombardare Port Sudan sono stati forniti proprio dagli Emirati, che dall’inizio del conflitto combattono una guerra per procura con la vicina Arabia Saudita, che invece sostiene l’esercito sudanese. L’oro e il petrolio rendono il Sudan un Paese in preda a una guerra fratricida, finanziata da chi vuole quelle risorse e la posizione strategica sul Mar Rosso. In due anni di conflitto sono state sfollate 13 milioni di persone e ne sono state uccise decine di migliaia. In più l’ONU ha avvisato che almeno 25 milioni di sudanesi si trovano in una condizione di grave carenza alimentare. Una situazione che non potrà che peggiorare se l’unica città sicura del Paese diventa un altro campo di battaglia.

La CEDU ha condannato l’Italia per l’inquinamento delle fonderie Pisano di Salerno

0

La Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per non aver tutelato i cittadini esposti all’inquinamento delle fonderie Pisano, in provincia di Salerno. Il ricorso, presentato nel 2018 da 151 residenti di Salerno, Pellezzano e Baronissi, è stato accolto: secondo la CEDU, l’impianto ha causato gravi danni ambientali tra il 2008 e il 2016, senza adeguata informazione pubblica. Studi del 2017 mostrano nei residenti livelli di mercurio cinque volte superiori alla media. Nonostante i successivi interventi istituzionali, la Corte ha evidenziato l’assenza di reale protezione per la popolazione già colpita.

Le Fonderie Pisano sono in funzione dal 1960. Nel 2006, il piano urbanistico ha definito l’area «assolutamente incompatibile» con il contesto urbano a meno di una delocalizzazione dell’azienda. La delocalizzazione non c’è mai stata, ma quello stesso anno la zona è stata aperta allo sviluppo residenziale. Una situazione che, fino ad oggi, nessun governo si è mai incaricato di risolvere. L’inquinamento derivante dall’impianto, che ha diffuso nell’ambiente circostante sostanze quali metalli pesanti e idrocarburi policiclici aromatici, ha avuto conseguenze gravi sulla salute della popolazione. Un’analisi portata a termine sulla popolazione nel 2018 ha rivelato che, in media, i residenti dei Comuni vicini all’impianto avevano un tasso di mercurio nel sangue di cinque volte superiore a quello medio della popolazione. In aggiunta a ciò, è stato anche rilevato un aumento delle alterazioni endocrine e dell’insorgenza di patologie tumorali, quali cancro al seno, gastrico, ai polmoni e melanoma, oltre a malattie cardiovascolari e neurologiche.

Lo studio epidemiologico condotto sulla popolazione, insieme ai dati sull’inquinamento ambientale prodotto dall’azienda, hanno costituito la base dalla quale la Corte è partita per giungere alla sentenza. Secondo una delle ultime perizie, effettuata nel 2021, l’area risultava sottoposta a una «forte pressione ambientale», con le aree residenziali collocate molto vicino alle fonti di emissione». Le emissioni inquinanti dell’azienda, inoltre, avevano superato di molto i limiti imposti dalla legge, con conseguenze sulla popolazione. A contribuire alla mancanza di tutele adeguate vi era anche il fatto, secondo la Corte, che la legge sulla prevenzione dei reati ambientali fosse, almeno fino al 2015, di «dubbia efficacia».

La Corte ha sancito quindi l’esistenza della violazione dell’art. 8 della Convenzione dei Diritti Umani, relativo al diritto alla vita privata, e imposto allo Stato di ripagare i ricorrenti entro tre mesi dalla data in cui la sentenza diventa definitiva, in quanto le istituzioni «non hanno preso tutte le misure necessarie per garantire l’effettiva tutela dei diritti dei cittadini». «È stato necessario l’intervento della Magistratura Europea per ripristinare la verità e per restituire dignità alle tante famiglie che, negli anni, hanno vissuto sulla propria pelle le conseguenze di una situazione insostenibile» ha commentato il sindaco di Pellezzano, Francesco Morra. «Oggi questa sentenza rappresenta un passo fondamentale verso il riconoscimento dei diritti, della salute e del rispetto dovuto alla nostra comunità».