L’autorità antitrust francese ha multato Shein per 40 milioni di euro per pratiche commerciali ingannevoli. Il marchio cinese di abbigliamento a basso costo avrebbe falsamente aumentato i prezzi prima di applicare sconti, facendo credere ai consumatori di ottenere offerte vantaggiose. L’indagine ha rivelato che l’11% degli sconti erano in realtà aumenti mascherati e il 57% non comportava alcuna reale riduzione. Shein è stata inoltre accusata di fornire informazioni fuorvianti sul proprio impatto ambientale, vantando una sostenibilità non dimostrata. A giugno, l’Organizzazione europea dei consumatori aveva già presentato un reclamo contro l’azienda.
In Italia il piano per la rete 5G annaspa tra le proteste: realizzato solo il 38%
Tre anni dopo l’avvio del Piano Italia 5G, la promessa di una connessione ultraveloce per tutti si è scontrata con la realtà: a un anno dalla scadenza fissata dal PNRR, è stato completato solo il 38,63% delle aree da coprire. Nonostante l’ottimismo ostentato dal Dipartimento per la trasformazione digitale, il rischio concreto è di perdere quasi 350 milioni di euro di fondi europei. Nel frattempo, i cantieri si muovono al rallentatore tra contenziosi legali e un braccio di ferro tra Inwit, cui è stato affidato il progetto, e i Comuni sul canone d’affitto per le antenne. In molte regioni si diffondono progressivamente le proteste dei comitati e delle associazioni, con la Regione Toscana che, lo scorso autunno, ha commissionato una ricerca per attestare i possibili danni sulla salute degli impianti.
L’obiettivo del piano è portare il 5G in 1.385 aree bianche, ossia quelle zone rurali o montane che non interessano ai privati per la loro scarsa redditività. Il progetto, gestito da un consorzio guidato da Inwit (partecipata da fondi come Ardian, Vodafone, Kkr e Global Infrastructure Partners), prevede l’installazione di 900 torri. Al momento, 259 sono attive, mentre 402 risultano «in lavorazione». Tuttavia, solo una parte di queste è effettivamente prossima alla conclusione. Il Dipartimento guidato dal sottosegretario Alessio Butti sostiene che l’80% dei lavori sia stato “sostanzialmente” completato, includendo nel computo i siti in fase avanzata. Ma i numeri ufficiali raccontano tutt’altro. Ad aggravare la situazione è lo scontro tra Inwit e le amministrazioni locali, soprattutto sui costi di occupazione del suolo pubblico. In base a un emendamento al decreto n. 77/2021, il canone annuo per antenna è stato fissato a 800 euro, contro i 5-20 mila euro chiesti dai Comuni. Secondo i sindaci, questo ha causato una perdita secca di 400 milioni di euro per le casse pubbliche e favorito il colosso delle torri, che avrebbe risparmiato fino a 180 milioni l’anno. Il risultato? Centinaia di ricorsi e un conflitto legale diffuso che rallenta l’implementazione della rete.
In Italia, la questione delle antenne 5G è da tempo al centro dell’attenzione mediatica. Non sono infatti pochi i comuni che ostacolano la loro creazione, invitando alla prudenza e chiedendo maggiori evidenze scientifiche che rassicurino circa gli effetti sulla salute dei cittadini. A mobilitarsi contro la costruzione di antenne sono anche privati cittadini, come nel caso delle comunità del piccolo borgo di Cassol, in Veneto, o di Siderno, in Calabria, o come nel caso Fleximan del marzo 2024, che, sempre in Veneto, ha preso di mira proprio un antenna 5G. Nel frattempo, nel giugno dello stesso anno, il Senato ha approvato con voto di fiducia un emendamento al cosiddetto “Decreto Coesione”, destinato a cambiare le sorti del Piano “Italia 5G”. Nello specifico, il provvedimento stabilisce che «la localizzazione degli impianti nelle aree bianche oggetto dell’intervento è disposta anche in deroga ai regolamenti comunali di cui all’articolo 8, comma 6, della legge 22 febbraio 2001, n. 36». Consentendo dunque allo Stato centrale di passare sopra l’amministrazione locale in merito alla installazione delle antenne, anche quando i Comuni si oppongono.
Nel frattempo, lo scorso settembre, la Regione Toscana ha avviato un’indagine approfondita in merito agli effetti dei campi elettromagnetici prodotti dalle nuove antenne 5G. Il progetto, commissionato all’Agenzia regionale per la protezione ambientale (Arpat) e all’Agenzia regionale di Sanità (Ars) della Toscana, prevede uno studio che esaminerà se e in quale misura tali impianti possano rappresentare un rischio per la salute, con particolare riguardo all’incidenza di malattie come i tumori. Il monitoraggio, che include misurazioni sul campo e l’acquisizione di nuova strumentazione, finanzia con 220 mila euro un’analisi in parte teorica e in parte pratica.
Disputa diplomatica USA-Colombia: richiamati gli ambasciatori
Le relazioni USA-Colombia attraversano un momento delicato, con gli Stati Uniti che hanno richiamato il loro diplomatico John McNamara da Bogotá per «consultazioni urgenti» a causa di dichiarazioni considerate «infondate e riprovevoli» da parte del governo colombiano. In risposta, il presidente colombiano Gustavo Petro ha richiamato l’ambasciatore Daniel García-Peña per discutere dell’agenda bilaterale. La crisi si inserisce in un contesto di tensioni crescenti, alimentate anche dalle dimissioni della ministra degli Esteri colombiana Laura Sarabia, che aveva denunciato penalmente il suo ex cancelliere Álvaro Leyva per un presunto complotto contro di lui, emerso da un’inchiesta del quotidiano spagnolo El País.
Bugie di guerra e servilismo
«Caro Donald, grazie per la tua azione decisiva in Iran, è stata davvero straordinaria… Riuscirai a ottenere qualcosa che NESSUN presidente americano è riuscito a fare in decenni. L’Europa pagherà in GRANDE misura, come dovrebbe, e sarà una tua vittoria». Questa sviolinata a Trump, con tanto di maiuscole per imitare lo stile sui social del capo, non è stata scritta da un bambino di otto anni affascinato dal presidente americano, ma dal segretario generale della NATO, Mark Rutte, che in teoria dovrebbe rappresentare gli interessi di tutti i Paesi dell’Alleanza Atlantica e che, come cittadino ed ex premier olandese, sarebbe pure un cittadino europeo. Non contento, davanti alle telecamere, all’ultimo vertice dell’Alleanza, Rutte ha chiamato «paparino» (daddy) l’uomo che aveva appena dato ordine di bombardare le basi nucleari iraniane facendosi beffe del diritto internazionale.
Chi con freddezza, chi con ironia, il grosso dei media ha riportato la notizia come se fosse una nota di colore su cui fare gossip. Non c’è da stupirsi. Sono gli stessi che hanno propagato senza alcuno spunto critico tre clamorose bugie di guerra. Prima hanno assecondato l’ennesimo crimine israeliano, facendo passare i bombardamenti sull’Iran come “legittima difesa”. Poi hanno ripetuto l’idea che il regime di Teheran fosse prossimo ad avere l’arma nucleare, nonostante la smentita diretta dell’Agenzia atomica dell’ONU. Infine hanno ribadito senza alcuno spunto di riflessione la teoria occidentale secondo cui l’atomica in mano a Teheran sarebbe il più grande pericolo per la pace, omettendo di scrivere che i bombardamenti “difensivi” venivano dall’unico Paese del Medio Oriente che le armi atomiche le ha per davvero (Israele) e dall’unico Paese che nella sua storia l’atomica l’ha anche usata, radendo al suolo Hiroshima e Nagasaki (gli USA).
La verità è che i media dominanti, in quanto organi di propaganda del potere politico, non sono altro che uno specchio delle miserie della politica europea. La guerra in Medio Oriente e le imbarazzanti dichiarazioni di Rutte hanno avuto almeno il merito di aver reso palese quanto appariva chiaro da tempo: la classe politica europea è talmente abituata al ruolo di governatore coloniale per conto di Washington da aver perso del tutto la capacità di immaginare un futuro libero dagli ordini americani. E, tra tutti, i più servili sono proprio quei governi i cui leader, con sprezzo del ridicolo, continuano a definirsi “patrioti” o “sovranisti”. Come quello italiano, con la Meloni che non solo non ha detto una parola contro l’attacco all’Iran – come d’altra parte non è riuscita a dirla in un anno e mezzo sul genocidio in Palestina – ma che ha obbedito senza batter ciglio all’aumento delle spese militari al 5% del PIL ordinato da Trump, assecondando l’accusa che dà agli europei degli ingrati che usufruiscono a scrocco della difesa americana.
L’ultima enorme bugia del leader americano, che nessun media e nessun governo europeo smaschera occupandosi di spiegare ai cittadini una verità scomoda: il motivo per cui gli USA pagano da decenni spese militari enormi coprendo gran parte del bilancio della NATO è perché questa serve direttamente gli interessi imperiali a stelle e strisce e perché le decine di basi americane in Europa non servono solo contro fantomatici aggressioni russe, ma sono lo strumento attraverso il quale, dal lontano 1945, gli USA hanno trasformato le nazioni europee in Stati a sovranità limitata, con tanto di organizzazioni paramilitari pronte a effettuare colpi di Stato se i governi nazionali avessero alzato troppo la testa (chi volesse saperne di più cerchi informazioni sulla “Organizzazione Gladio”, operativa per oltre 30 anni in Italia). Le azioni e le richieste fuori controllo dell’amministrazione americana potrebbero essere l’occasione per dire a Trump «Non smantelleremo quello che rimane dello Stato sociale per pagare i tuoi soldati. Non ci serve la tua protezione, riporta pure i marines a casa e libera il nostro territorio dalle 120 strutture militari americane che occupano l’Italia da ormai ottant’anni». Ma ovviamente nessun politico avrà il coraggio di dirlo. Servirebbero leader anziché amministratori coloniali, e all’orizzonte non se ne vedono.
Roma, esplosione e incendio in pompa di benzina: almeno 21 feriti
Una violenta esplosione seguita da un incendio si è verificata in una pompa di benzina a Roma, in via dei Gordiani, zona Villa De Sanctis. L’incidente, avvenuto intorno alle 8, sarebbe stato causato dal distacco di una pompa mentre una cisterna riforniva un impianto Gpl. Almeno 21 i feriti, tra cui un vigile del fuoco, un sanitario e otto poliziotti. Nessuno, a quanto si apprende, sarebbe in gravi condizioni. Il boato è stato avvertito in diversi quartieri della Capitale. L’esplosione ha causato danni a edifici vicini e a un deposito giudiziario. Dieci squadre dei vigili del fuoco sono ancora al lavoro per spegnere le fiamme.
Russia-Ucraina, attacchi incrociati nella notte con missili e droni
Il conflitto tra Mosca e Kiev prosegue con un nuovo attacco russo a Kiev, colpita nella notte da missili balistici e droni, e con raid effettuati dalle forze ucraine in alcune regioni russe. Le esplosioni hanno interessato almeno 13 zone della capitale ucraina, causando 14 feriti, di cui 12 ricoverati, e danni alle infrastrutture ferroviarie. In risposta, droni ucraini hanno colpito la regione russa di Rostov, dove è morta una persona, e la regione di Mosca, dove due uomini sono rimasti feriti. Colpita una stazione elettrica, con interruzioni di corrente. Oltre 50mila persone sono rimaste senza elettricità nel distretto di Sergyev-Posad della capitale russa.
Il debito pubblico italiano continua ad aumentare ed è sempre più in mano a fondi stranieri
Nonostante i propositi e gli annunci del governo Meloni circa la volontà di aumentare la quota del debito pubblico nelle mani degli investitori italiani, in particolare famiglie e imprese, dagli ultimi dati della Banca d’Italia emerge un quadro contrario alle aspettative e agli annunci fatti dall’esecutivo di centro-destra. Dall’ultimo rapporto di Palazzo Koch dal titolo “Finanza pubblica: fabbisogno e debito”, infatti, risulta che la percentuale di debito nelle mani dei fondi stranieri è salita a marzo dal 31,9 al 32,4% del totale, mentre quella detenuta dagli altri residenti (principalmente famiglie e imprese non finanziarie) è lievemente diminuita al 14,3 per cento (dal 14,4 per cento). Anche la quota di debito in mano alla stessa Banca d’Italia ha continuato a diminuire, scendendo ad aprile al 20,2%, dal 20,5% del mese precedente. I dati smentiscono la dichiarazione di Giorgia Meloni risalente al 28 aprile 2024, secondo cui «Il debito sta tornando nelle mani degli italiani grazie al successo dei Btp Valore». Allo stesso tempo si registra anche un aumento del debito delle pubbliche amministrazioni, in aumento di 30,1 miliardi rispetto al mese precedente, raggiungendo la cifra di 3.063,5 miliardi.
Tuttavia, al contrario di quanto propugnato a reti unificate dalla narrazione dominante neoliberista, il problema del debito non è un problema in termini assoluti, ma è da mettere in relazione a due elementi fondamentali: il suo valore in rapporto al PIL (prodotto interno lordo) e la composizione del debito per detentori. A questo si aggiunge un altro elemento importante che è la spesa per interessi che ogni anno una nazione paga sull’emissione dei titoli e che può incidere significativamente sul debito complessivo. La composizione del debito per detentori è un aspetto particolarmente rilevante, in quanto l’elevata percentuale di debito nelle mani del mercato e di fondi stranieri rende il debito vulnerabile: i titoli, infatti, possono essere repentinamente liquidati, creando forti pressioni ribassiste sui prezzi e innescando di conseguenza un rialzo dei rendimenti, per via della relazione inversa tra prezzi e rendimenti che caratterizza le obbligazioni. Ciò significa anche che chi detiene il debito pubblico di una nazione, in questo caso quello italiano, può arrivare piuttosto facilmente ad influenzare le scelte politiche utilizzando strumentalmente la leva del debito, minacciando ad esempio di vendere repentinamente i titoli di Stato. Ecco perché detenere internamente il debito è un’opzione più sicura e sovrana che non dipendere in tutto o in parte dai mercati e dagli investitori internazionali.
Secondo le ultime rilevazioni, la percentuale di debito detenuta dai non residenti, ossia singoli investitori e istituti finanziari che non hanno la residenza in Italia, a marzo era pari al 32,4% del totale ed è in aumento da marzo 2023, quando è stato toccato il valore minimo degli ultimi anni (26,1 per cento), ma resta ancora lontana dal picco registrato a ottobre 2009 (41,3 per cento). Se più del 32% del debito è nelle mani dei non residenti, sarebbe sbagliato pensare che il restante 70% sia nelle mani di famiglie e imprese italiane: secondo gli ultimi dati, infatti, 20,2% del debito è detenuto da Banca d’Italia, mentre il 20,4% da altre banche centrali o banche e il 12,4% da altre istituzioni finanziarie, come la Cassa depositi e prestiti. Solo il rimanente 14,4% è detenuto dagli “altri residenti”, una categoria dove rientrano principalmente le famiglie e i singoli investitori italiani. Il Rapporto sul debito pubblico 2023 del Ministero di Economia e Finanza (MEF) analizza, inoltre, le principali tipologie di investitori relative ai BTP (Buoni del Tesoro Poliennali), titoli di debito a medio-lungo termine. In particolare, per quanto riguarda i BTP con scadenza ventennale, la quota sottoscritta dalle banche è stata la più rilevante (39%), seguita da quella dei fondi d’investimento (24,7%), risultata in diminuzione rispetto all’anno precedente. Banche centrali e istituzioni governative hanno, invece, contribuito all’acquisto dei titoli ventennali con una quota del 24,2%, seguite dai Fondi pensione e assicurazioni (6,3%) e dai fondi speculativi (5,8%).
La questione di chi possiede il debito pubblico influenza anche quella relativa agli interessi sul debito: la forte dipendenza dai fondi d’investimento e da banche estere, infatti, aumenta il rischio di rifinanziamento perché, senza un prestatore di ultima istanza, ossia una banca centrale che garantisce i titoli, gli investitori richiedono rendimenti più elevati per investire nel nostro debito sovrano, con conseguenze negative per i conti pubblici. Non a caso, la vera e propria esplosione del debito italiano si registra a partire dal 1981, in seguito al cosiddetto divorzio tra il Tesoro e la Banca d’Italia deciso dall’allora ministro del Tesoro Beniamino Andreatta e Carlo Azeglio Ciampi, allora governatore della Banca d’Italia: un evento che ha provocato l’impennata del debito poiché la banca centrale non garantiva più i titoli, determinando quindi un aumento dei tassi d’interesse. A partire da allora, l’aumento del debito è stato determinato proprio dall’interesse più alto preteso dagli investitori: si stima, infatti, che la spesa per interessi sia raddoppiata tra il 1981 e il 1984, passando dal 4% all’8% del PIL. Secondo Eurostat nel 2022, ultimo anno in cui sono disponibili i dati, l’Italia è stato il Paese che ha pagato più interessi sul proprio debito pubblico in percentuale del prodotto interno lordo all’interno dell’Unione europea: il 4,4 per cento, davanti a Ungheria (3 per cento), Grecia (2,7 per cento) e Spagna (2,4 per cento). La spesa media in interessi sul debito dei 27 Paesi Ue è invece molto più bassa, pari all’1,7 per cento.
Il dato sull’aumento degli investitori esteri nel debito pubblico italiano offre l’occasione per ricordare che l’attuale debito pubblico non è dovuto alla spesa eccessiva, secondo il mantra dominante per cui vivremmo “al di sopra delle nostre possibilità”, bensì all’enorme massa di interessi passivi pagati alle banche e agli investitori privati. A riprova di ciò vi è il fatto che il nostro Paese risulta tra i più virtuosi a livello europeo, e non solo, per quanto riguarda l’avanzo primario: negli ultimi 30 anni, infatti, ha sempre speso meno del totale delle entrate, al netto degli interessi sul debito. Si tratta di un dato confermato anche dall’FMI che ha una sezione dedicata agli avanzi primari registrati in rapporto al Pil per 115 Paesi del mondo dal 1990 a oggi: stilando una classifica, è emerso che l’Italia si posiziona all’undicesimo posto con un avanzo primario medio annuo dell’1,75% rispetto al PIL.
Quello del debito pubblico, dunque, è un tema che riguarda innanzitutto la sovranità economica e monetaria, senza la quale non è possibile avere alcuna sovranità nemmeno in ambito geopolitico, energetico e nelle relazioni internazionali. L’Italia, prima con il divorzio tra il Tesoro e la Banca d’Italia, poi con l’ingresso nello SME e successivamente con l’adesione al sistema dell’euro ha rinunciato alla sua sovranità economico-monetaria, diventando dipendente dai mercati finanziari. Il che ha accresciuto ulteriormente il potere dei fondi speculativi e d’investimento come Blackrock, Vanguard e State Street che muovono cifre pari o superiori a quelli del PIL di intere nazioni europee. Un risultato ottenuto proprio grazie alla sottomissione dello Stato alle forze economico-finanziarie. Nel settembre 2024, l’amministratore delegato di Blackrock, Larry Fink, è stato accolto a Palazzo Chigi da Giorgia Meloni per scambiare «un approfondito scambio di vedute su possibili investimenti del fondo USA in Italia». Secondo lo storico Alessandro Volpi, la Meloni potrebbe aver chiesto a Fink «di comprare una parte del debito italiano magari avendo una corsia privilegiata per ulteriori future privatizzazioni». Dunque, non solo il debito pubblico in mani italiane non è aumentato, ma la Penisola risulta sempre più nell’orbita dei mercati finanziari e dei grandi fondi internazionali – soprattutto statunitensi – da molti definiti i veri «padroni del mondo».
Gaza: uccisi 94 palestinesi, 45 in cerca di aiuti umanitari
Nelle ore notturne, 94 palestinesi sono stati uccisi nella Striscia di Gaza da attacchi aerei e sparatorie israeliane, tra cui 45 persone mentre cercavano aiuti umanitari, secondo il ministero della Salute locale. Altre 13 persone sono morte in un attacco su una tenda ad al-Mawasi, mentre 12 sono decedute a causa di un bombardamento su una scuola per sfollati a Gaza City. In totale, oltre 300 palestinesi sono stati uccisi nelle ultime 48 ore. Dall’inizio del massacro, nell’ottobre 2023, più di 57mila palestinesi sono morti, la metà donne e bambini, secondo le autorità sanitarie di Gaza.
Alligator Alcatraz: il nuovo carcere show per migranti voluto da Donald Trump
In mezzo alle cosiddette Everglades della Florida, le paludi dello Stato a sudest degli Stati Uniti, è nata una prigione per persone migranti, circondata da alligatori e pitoni: è Alligator Alcatraz, struttura che sorge su una vecchia pista da jet abbandonata. Il nuovo carcere è stato fortemente voluto dall’amministrazione Trump, che per la sua apertura ha organizzato un evento mediatico che ha fatto rapidamente il giro di tutto il Paese: «Se vuoi fuggire devi correre a zigzag, così le tue chance di sopravvivere aumentano dell’1%», ha detto Trump mimando il movimento ondulatorio con le mani. Quello che vuole essere la nuova prigione statunitense, insomma, è esplicito: una struttura detentiva di massima sicurezza – come del resto quella da cui prende il nome -, con dei «coccodrilli come poliziotti» perché «costano meno» e sanno essere molto più letali. Alligator Alcatraz ospiterà fino a 5.000 persone migranti, e, secondo le prime stime, dovrebbe costare 450milioni di dollari all’anno.
Alligator Alcatraz è stata inaugurata martedì 1 luglio con una cerimonia mediatica che ha avuto parecchia risonanza in tutti gli Stati Uniti: per promuovere l’apertura della struttura, i funzionari statunitensi hanno pubblicato sui social media immagini di alligatori con indosso cappelli dell’Immigration and Customs Enforcement, mentre il Partito Repubblicano della Florida ha iniziato a vendere abiti e accessori a tema alligatore. Arrivato sulla ex pista da jet, il presidente è apparso insieme al governatore della Florida e suo ex contendente alle primarie repubblicane Ron De Santis, e alla segretaria della Sicurezza Interna Kristi Noem, e ha risposto alle domande dei giornalisti. La struttura è stata messa in piedi in soli 8 giorni, ricorrendo ai poteri di emergenza per la crisi migratoria.
La prigione sorge dove un tempo si trovava l’aeroporto di addestramento e transizione Miami-Dade Collier, a circa 60 chilometri da Miami. Il vecchio aeroporto era grande oltre 100 chilometri quadrati, ma non è ancora chiaro quanta superficie sia stata utilizzata per il centro di detenzione; rispondendo a una domanda di Trump, il governatore De Santis ha detto che non esclude l’ipotesi che la porzione di pista dedicata al carcere venga allargata. Essa ospiterà fino a 5.000 persone, e secondo la segretaria Noem servirà come appoggio per coloro che sono in attesa di espulsione. In occasione dell’inaugurazione, il governatore Ron DeSantis ha dichiarato che avrebbe inviato 100 soldati della Guardia Nazionale nella struttura, e che il carcere avrebbe iniziato a essere operativo entro 24 ore; non sembra che siano ancora arrivate le prime persone migranti. Secondo delle stime apparse sui media il mantenimento del carcere dovrebbe costare un totale di 450 milioni di dollari l’anno, che saranno parzialmente erogati dall’amministrazione federale.
L’iniziativa di costruire un carcere di massima sicurezza in mezzo a una palude dove rinchiudere le persone migranti si colloca sulla scia della dura politica migratoria che Trump – e come lui De Santis – porta avanti sin dalla campagna elettorale, e contro cui i cittadini sono già scesi in piazza diverse volte. Secondo dei documenti visionati dall’emittente CBS lo scorso 23 giugno, il numero di persone detenute nei centri di immigrazione federali è aumentato drasticamente, passando dai 39.000 di inizio anno a 56.000; secondo De Santis la Florida sarebbe responsabile del 20% degli arresti giornalieri di persone irregolari. Questo rapido aumento degli arresti ha spinto l’amministrazione a cercare soluzioni alternative e a spingere perché venissero costruite nuove strutture.
In occasione dell’apertura di Alligator Alcatraz, i gruppi ambientalisti hanno organizzato una protesta per contestare la trasformazione dell’aeroporto in un centro detentivo. Qualche settimana prima, i movimenti Friends of the Everglades e Center for Biological Diversity hanno inoltre presentato una istanza legale per bloccare la costruzione del sito sostenendo che esso violi le leggi ambientali federali, statali e locali. I movimenti contestano il fatto che il sito si trovi nei pressi della Big Cypress National Preserve, un’area protetta in cui risiedono le pantere della Florida, che risultano in via di estinzione. Le contestazioni non si fermano alle questioni ambientali: Mark Fleming, direttore associato del National Immigrant Justice Center, ha infatti criticato le condizioni in cui sono costretti i detenuti, giudicando il sistema di supervisione dei migranti «fuori controllo»: «Il fatto che l’amministrazione e i suoi alleati prendano in considerazione una struttura temporanea così grande in un lasso di tempo così breve», ha affermato, «senza un piano chiaro su come dotarla adeguatamente di personale medico e altri servizi necessari, e nel bel mezzo della calura estiva della Florida, dimostra il loro insensibile disprezzo per la salute e la sicurezza degli esseri umani che intendono imprigionarvi. È semplicemente uno shock per la coscienza».








