lunedì 24 Novembre 2025
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Come Amazon cerca di impedire ai lavoratori di unirsi per i propri diritti

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Messaggi persuasivi, manifesti e persino un sito internet apposito, sono i mezzi con cui Amazon sta cercando di convincere i propri dipendenti a non entrare nel primo sindacato nato in assoluto negli stabilimenti del gigante della distribuzione, fondato da un gruppo di lavoratori del magazzino BHM1 di Bessemer, in Alabama.

Nonostante Amazon abbia assistito ad una crescita impressionante dei propri fatturati durante la pandemia, le condizioni dei lavoratori non sono migliorate. Sono anzi state aggravate dall’attuale situazione sanitaria e dalla generale mancanza di organizzazione protezione garantita ai dipendenti. Fattori che hanno portato una spinta decisiva tra un gruppo di lavoratori, che ha fondato un sindacato per reclamare migliori condizioni di lavoro. Ma Amazon ha risposto con una dura campagna antisindacale. Oltre a messaggi e manifesti, appesi persino nei bagni del magazzino, l’azienda ha creato un sito per convincere i dipendenti di non partecipare in nessuna iniziativa sindacale. “Se non ti iscrivi risparmi la quota e puoi risparmiare”,  afferma il sito parlando ai lavorati; come se Amazon stessa non potesse permettersi di aumentare gli stipendi. Il 16 febbraio 2021, circa seimila lavoratori del magazzino hanno comunque votato in favore della sindacalizzazione, dimostrando che la retorica di Amazon non è stata accolta acriticamente. Un importante traguardo per una cittadina posta in uno stato tradizionalmente conservatore e quindi anti-sindacalista. Un esempio che in molti potrebbero seguire.

Nigeria, oltre 40 studenti rapiti a scuola

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Una banda di uomini armati ha assaltato una scuola nella Nigeria centrale. L’attacco è avvenuto nella notte ed al momento dell’irruzione dei banditi erano presenti 650 studenti. Almeno 42 le persone rapite: 27 studenti, 3 insegnanti e 12 parenti. Secondo quanto riferito dalle autorità uno studente è stato ucciso per aver cercato di scappare.

Covid, non tutti sono uguali di fronte al virus: etnia e povertà sono fattori di rischio

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L’etnia e la classe sociale di appartenenza sono fattori di rischio che aumentano notevolmente l’esposizione ai rischi pandemici, a dimostrarlo sono ormai diversi studi scientifici. Negli Usa se la mortalità tra i bianchi è di 1 su 825, tra gli afroamericani diventa 1 su 645 e tra gli indigeni 1 su 475. Allo stesso modo, uno studio commissionato dal governo britannico ha certificato che oltremanica i rischi di morire di coronavirus sono più che doppi per un inglese di origine pachistana rispetto ad un connazionale bianco. La stessa disuguaglianza che colpisce le persone a basso reddito e che provengono dai quartieri popolari.

Dati che rendono l’idea di come non sia vero che di fronte al virus tutti siano uguali, e che hanno diverse spiegazioni. La più immediata è che le persone povere, spesso appartenenti alle minoranze, vivono sovente in abitazioni anguste, dove è difficile che un contagiato possa effettivamente rispettare la quarantena. Inoltre, sia per l’alimentazione spesso più povera e basata su prodotti industriali a basso costo, sia per ragioni naturali, gli appartenenti alle minoranze hanno spesso livelli più bassi di vitamina D, fattore che si è dimostrato importante nel superare il contagio con meno probabilità di sviluppare i sintomi della malattia. Fattori di rischio sanitario che si aggiungono a quelli socio-economici: poveri e minoranze sono infatti anche coloro che hanno perso maggiormente il lavoro nella crisi.

Mario Draghi ha terminato il primo discorso al Senato

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53 minuti di discorso dinnanzi al Senato, in attesa del voto di fiducia al nuovo governo che si terrà in serata. Il presidente del Consiglio incaricato Mario Draghi, in uno dei passaggi più attesi è tornato sugli aiuti economici, affermando che  «Il governo dovrà proteggere tutti i lavoratori, ma sarebbe un errore proteggere indifferentemente tutte le attività economiche». Draghi ha inoltre proposto di rivedere il calendario scolastico alla luce della pandemia, ridurre il carico Irpef e spingere per una politica comune europea su immigrazione e rimpatri.

Google si arrende all’Australia e accetta di pagare per i contenuti che pubblica

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Il colosso di Mountain View china la testa e cede allo stato australiano, accettando un accordo che gli impone di pagare milioni di euro ai media australiani per le notizie prodotte e che, pubblicate online, generano traffico e introiti pubblicitari per i colossi tecnologici. Con l’accordo con la grande società di media Seven West Media, Google ha accettato di pagare per i contenuti prodotti dai giornalisti, parallelamente la multinazionale americana ha lanciato la piattaforma “News Snowcase”, attraverso la quale i piccoli editori riceveranno compensi in base alle visualizzazioni sul motore di ricerca.

Le mosse di Google sono il frutto della posizione del parlamento australiano, che sta approvando una legge per imporre ai colossi del web di pagare gli autori per i contenuti. Google, dopo l’iniziale minaccia di ritirare i propri servizi dal Paese, di fronte alla determinazione del governo ad andare avanti ha cercato – tramite il lancio di News Snowcase e gli accordi privati con gli editori – di giocare d’anticipo. Meglio perdere qualche milione che vedere approvata una legge che costituirebbe un pericoloso precedente mondiale. Tuttavia il governo australiano pare comunque intenzionato ad andare avanti e approvare la legge, pensata per supportare il giornalismo, sempre più in balia di un mercato pubblicitario dominato dai colossi del web: per ogni $ 100 di spesa pubblicitaria online, 53 vanno a Google , 28 a Facebook e 19 a tutti gli altri.

Birmania, non si fermano le proteste contro il golpe

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Continuano senza sosta le proteste popolari contro il golpe attuato l’1 febbraio scorso dai militari in Birmania. A migliaia sono scesi in piazza nella capitale Rangoon. La giunta militare, sempre più sotto pressione e isolata dopo che anche la Cina ha condannato il golpe, è intervenuta ieri per dichiarare che al più presto si terranno nuove elezioni democratiche, ma senza fissare la data. Nel frattempo però la leader democratica Aung San Suu Kyi rischia tre anni di carcere dopo che all’accusa di importazione illegale di walkie-talkie è stata aggiunta quella di “violazione della legge sulle catastrofi naturali”.

Spagna, rapper condannato al carcere solo per i suoi testi contro il Re e lo stato

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Pablo Hasél il rapper catalano è stato condannato  a nove mesi di carcere e sei anni d’interdizione dall’impiego pubblico per il reato di esaltazione al terrorismo e ingiurie alla corona. Venerdì 12 febbraio il rapper indipendentista classe 1988,  dopo le accuse doveva costituirsi volontariamente alla polizia catalana ma invece si è barricato all’interno dell’Università di Lleida, per sfuggire alla cattura e difendere la sua libertà di espressione. Questo ha fatto aumentare le proteste ottenendo il sostegno da parte di molti artisti spagnoli, tra cui il regista Pedro Almodóvar  il cantante Joan Manuel Serrat e l’attore Javier Bardem che hanno firmato, insieme a molti altri, una petizione contro il suo arresto. All’alba di questa mattina la polizia con un blitz ha fatto irruzione nell’università prelevandolo di forza davanti a una folla protestante.

Hasél, per la sua condotta rivoluzionaria, nel 2014 era già stato condannato a due anni di carcere sempre per incitamento al terrorismo e altre due volte nel 2017 per resistenza a pubblico ufficiale e nel 2018 per violazione di domicilio. Vista la situazione, palesemente antidemocratica, gran parte della politica spagnola si è mossa a favore del rapper, ritenendo che nessuno dovrebbe essere arrestato per aver espresso la  propria opinione. Anche il presidente Pablo Sanchez ha promesso di revisionare il prima possibile la legge relativa al reato di esaltazione al terrorismo, nata per colpire gli indipendentisti baschi dell’ETA.

Italia, export crollato del 9,7% nell’ultimo anno

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Nel 2020 l’Italia ha registrato un calo del 9,7% delle esportazioni collezionando il peggior dato dal 2009, lo comunica l’Istat. Nello stesso periodo sono diminuite ancor più marcatamente le importazioni: – 12,8%. Tuttavia, specifica l’Istat, entrambi i dati sono in ripresa nell’ultimo trimestre, nel quale l’export ha segnato un + 3,3% e l’import + 4,3%.

Uk, la Shell andrà a processo per il disastro ambientale causato nel delta del Niger 

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Oltre 42mila agricoltori e pescatori nigeriani, hanno fatto causa al colosso petrolifero anglo-olandese Shell, per il disastro ambientale nel delta del fiume Niger, causato dalle fuoriuscite di greggio nell’area. Lo studio legale Leigh Day, rappresentante delle comunità nigeriane di cui fanno parte gli accusatori, ha convinto la Corte Suprema di Londra a far rispondere la compagnia petrolifera dei danni ambientali della sua filiale nigeriana, l’SPDC. Secondo uno studio dell’UNEP (United Nations Environment Programme), il petrolio fuoriuscito dagli oleodotti Shell, ha contaminato non solo gli ecosistemi sulle cui risorse si basano le attività economiche delle comunità locali, ma anche le fonti di acqua potabile, le quali risultano piene di elementi cancerogeni in quantità 900 volte superiore alle linee guida dell’OMS. Un danno ambientale complessivamente comprendente un’area di 20 chilometri quadrati. 

Il colosso petrolifero anglo-olandese, nonostante non abbia mai negato – o cercato di negare – le conseguenze disastrose del suo agire sull’ambiente e sulle comunità nigeriane, ha tentato di risolvere la questione offrendo alle popolazioni locali 4mila euro, 50 sacchi di riso, 50 sacchi di fagioli e qualche confezione di zucchero, pomodori e olio di arachidi. Un proposta definita “offensiva, provocatoria e misera”, la quale è stata categoricamente rifiutata dagli abitanti della zona. Questi infatti, hanno chiesto la bonifica dei corsi d’acqua e dell’area contaminata, un’equa redistribuzione dei proventi dell’estrazione del petrolio e il risarcimento per i danni subiti.

Naufragio fiume Congo: 60 morti e centinaia di dispersi

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Un’imbarcazione sovraccarica si è inabissata nel fiume Congo, all’interno dell’omonima repubblica africana. Secondo quanto riferito dal ministro per gli Affari umanitari, Steve Mbikayi, a bordo vi erano circa 700 persone ed al momento sono stati ritrovati 60 corpi privi di vita e solo 300 sopravvissuti. Il bilancio è quindi destinato ad aggravarsi visto che mancano all’appello circa 340 dispersi.