martedì 1 Luglio 2025
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Frode fiscale per “serbatoi” di lavoratori, sequestrati 46 milioni a FedEx

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La Guardia di Finanza di Milano ha eseguito un sequestro preventivo d’urgenza da oltre 46 milioni di euro nei confronti della filiale italiana di FedEx, su disposizione della Procura milanese. L’inchiesta, riferiscono i pm, riguarda una complessa frode fiscale basata sulla somministrazione illecita di manodopera. In particolare, secondo gli investigatori FedEx avrebbe utilizzato un sistema di fatture per operazioni inesistenti, servendosi di società “filtro” e cooperative “serbatoio” per schermare i rapporti di lavoro, evitando il versamento di contributi e IVA. Nell’inchiesta sono indagati la società per la responsabilità amministrativa degli enti e due responsabili.

Repubblica Democratica del Congo, i ribelli prendono Goma: si aggrava la crisi col Ruanda

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La capitale della provincia del Nord Kivu, Goma, nella Repubblica Democratica del Congo, è ora definitivamente sotto il controllo della milizia ribelle M23 (sostenuta, secondo diverse indagini delle Nazioni Unite, dal Ruanda). Dall’inizio del nuovo anno, questa ha lanciato una massiccia offensiva, conquistando la più grande parte di territorio degli ultimi 10 anni. La battaglia per la conquista della capitale regionale è durata 4 giorni, durante i quali sono stati uccisi un numero imprecisato di cittadini e numerosi ospedali sono andati in tilt, oltre ad essersi verificata un’evasione di massa dal carcere della città, con almeno 4 mila fuggitivi. E mentre nella capitale del Paese, Kinshasa, i cittadini protestano con rabbia contro l’inattività della comunità internazionale, l’ONU cerca di capire come gestire una crisi che sembra muoversi sempre più nella direzione di uno scontro diretto tra RDC e Ruanda.

Goma è conquistata

Già nel 2012 la M23 era riuscita a conquistare e mantenere il controllo di Goma. Dopo due settimane, tuttavia, la città fu liberata, sotto la pressione internazionale e la chiusura dei programmi di sviluppo in Ruanda. Questa volta, la battaglia è durata 4 giorni: a partire dal 25 gennaio scorso, infatti, i miliziani hanno intimato ai soldati congolesi e alle milizie filo-governative presenti a Goma di arrendersi, consegnando le armi ai soldati della missione delle Nazioni Unite MONUSCO. Secondo quanto affermato sul profilo X delle forze armate uruguaiane, facenti parte del contingente di pace, nella serata di domenica 26 gennaio almeno 100 tra miliziani e soldati regolari hanno lasciato le armi. Tuttavia, una volta entrati a Goma i ribelli hanno trovato ancora molti pronti a respingerli. Per due giorni la città è stata teatro di scontri che hanno ucciso un numero imprecisato di civili e mandato in tilt gli ospedali cittadini: «ci sono al momento centinaia di persone negli ospedali, la maggior parte con ferite d’arma da fuoco» ha affermato ieri il Adelheid Marschang, coordinatore dell’unità di emergenza per la RDC dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Secondo l’agenzia stampa francese AFP, solo lunedì sono morti 17 civili e ne sono stati feriti 367. Cifre che, secondo diverse ONG locali, sarebbero molto più alte ma difficilmente calcolabili fino a che non ci sarà la possibilità di raccogliere i corpi senza vita lasciati per le strade. Secondo quanto riportato dal portavoce dell’Ufficio Umanitario delle Nazioni Unite, Jens Laerke durante i giorni di combattimento ci sono stati «stupri commessi dai combattenti, saccheggi di proprietà… e strutture sanitarie umanitarie colpite». In tutto questo, è stata riportata anche un’evasione di massa dal carcere della città, con almeno 4.000 fuggitivi. È accertata anche la morte di almeno 17 soldati facenti parte delle missioni di pace di ONU e SADC (South African Development Community), tra questi almeno 9 provenienti dal Sudafrica. 

Fino a lunedì 27 era difficile riuscire a capire chi avesse il controllo della città. Diversi esponenti delle milizie ribelli assicuravano di aver conquistato Goma, come già aveva dichiarato lunedì a Reuters Corneille Nangaa, leader delle milizie alleate al M23. Dall’altra parte, sempre lunedì, il ministro della RDC per lo Sviluppo Rurale, Muhindo Nzangi, affermava tramite la radio locale Top Congo FM che almeno l’80% della città era sotto il controllo delle forze armate congolesi. Fino a ieri entrambe le parti hanno continuato a dichiarare di avere la città sotto controllo: in serata, tuttavia, è arrivata la conferma della conquista dell’aeroporto della città da parte del M23 e del controllo totale delle vie d’accesso e uscita dalla capitale regionale. Secondo diverse fonti anonime delle Nazioni Unite, sembrerebbe accertata la presenza di soldati in uniforme ruandese nella capitale del Nord Kivu. Ma non solo nella città si è arrivati allo scontro diretto tra truppe congolesi e ruandesi. Poco distante da Goma c’è infatti il confine che separa Ruanda e RDC, dove da lunedì sono stati riportati diversi scontri a fuoco. Un ufficiale dell’esercito ruandese ha dichiarato a AFP che sono stati riportati 5 morti e 25 feriti nei pressi di Gisenyi, città al confine con la RDC. 

Violente proteste nella capitale Kinshasa

Le violenze e la tensione non sono state circoscritte alle regioni orientali dell’enorme Paese africano. Ieri a 1.500 chilometri da Goma, nella capitale della RDC Kinshasa, la popolazione è scesa in piazza manifestando contro l’inattività della comunità internazionale nel sanzionare e fermare il Ruanda dal suo obbiettivo di conquistare i centri estrattivi più importanti nelle regioni orientali della RDC. Durante le proteste sono state prese d’assalto le ambasciate di diversi Paesi sia del continente africano – come quelle di Uganda, Sudafrica e chiaramente Ruanda – sia quelle di Stati Uniti, Francia, Belgio e strutture delle Nazioni Unite. I manifestanti hanno dato alle fiamme macchine e pneumatici per le strade della capitale, arrivando allo scontro con le forze dell’ordine. A stretto giro dall’assalto alle ambasciate è arrivata la condanna da parte del segretario per gli affari esteri del Kenya Korir Sing’Oei, al quale ha fatto eco il ministro degli esteri francese Jean-Noel Barrot definendo gli attacchi «inaccettabili». 

Venti di guerra

Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU si è riunito in seduta straordinaria 3 volte da sabato chiedendo sempre più insistentemente al Ruanda di smettere il rifornimento e l’appoggio al M23 e alla milizia di ritirarsi dalle posizioni conquistate, soprattutto per evitare l’aggravarsi di una crisi umanitaria che vede più di 7 milioni di sfollati interni. Secondo le Nazioni unite sono presenti sul suolo congolese almeno 4.000 effettivi dell’esercito ruandese, che però Kigali ha giustificato come missione a protezione dei suoi confini. La tensione tra i due Stati della Regione dei Grandi Laghi è sempre più alta e sembra possibile l’inizio di una guerra regionale, dopo che sabato 25 Kinshasa ha richiamato il suo ambasciatore a Kigali e ha cacciato i funzionari ruandesi dal suolo della RDC. La ministra degli esteri congolese, Thérèse Kayikwamba Wagner, in sede ONU, ha anche detto che «la presa di Goma da parte delle forze ruandesi e i suoi alleati equivale a una dichiarazione di guerra». Domenica il presidente Keniano William Ruto – oggi presidente di turno dell’East African Community, di cui fanno parte sia la RDC che il Ruanda – ha annunciato una seduta straordinaria dell’EAC con l’obbiettivo di far sedere a un tavolo i presidenti Tshisekedi e Kagame per arrivare a una soluzione diplomatica della situazione. Nessuno dei due però ha rilasciato commenti su questo incontro che dovrebbe tenersi tra oggi e domani. Questa mattina, invece, il presidente ruandese Paul Kagame, tramite il suo profilo X , ha dichiarato di aver avuto un colloquio con il segretario di Stato americano Marco Rubio, con il quale si è trovato d’accordo sulla necessità di arrivare il prima possibile a un cessate il fuoco, senza però dire nulla per quanto riguarda il ritiro delle truppe dalla RDC. Anche la contro parte congolese, Felix Tshisekedi ha avuto un colloquio con Rubio l’altro ieri nel quale il Segretario di Stato USA ha condannato la posizione del Ruanda nella guerra in corso.

L’obbiettivo di Kigali sembrerebbe sempre più chiaro: la conquista delle miniere di coltan, tungsteno e tantalio, tutti minerali indispensabili alla fabbricazioni di batterie elettriche. L’M23 ha fatto sapere agli abitanti di Goma di rimanere tranquilli e che da adesso la città sarà gestita dai miliziani, che hanno imposto la loro struttura di comando anche nelle altre città conquistate e nelle miniere limitrofe. Tutto sembra far pensare a una annessione de facto delle regioni conquistate dall’M23. 

Negli ultimi 30 anni l’est della RDC è stato teatro di continui scontri, sfollamenti di massa e uccisioni perpetrate dai più di 100 gruppi armati presenti nella regione. Ognuno di questi gruppi combatte per il controllo delle miniere e delle vie commerciali della regione al soldo di potenze straniere, nascondendo i propri obbiettivi dietro divergenze etniche. In più di 30 anni si parla di quasi 5 milioni di morti, centinaia di migliaia di violenze contro le donne congolesi, milioni di sfollati e  migliaia di persone che soffrono la fame. Quella che è stata chiamata la maledizione delle risorse, più che una maledizione sembra un obbiettivo perseguito con efferatezza da tutti quelli che quelle risorse non le hanno ma le bramano, una bramosia distruttiva.  

[di Filippo Zingone]

India, media: “Decine di morti nella calca per evento religioso”

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All’alba di questa mattina, mercoledì 29 gennaio, decine di persone «sono state uccise nella calca avvenuta al Maha Kumbh Mela», un pellegrinaggio hindu di massa nel quale i fedeli si ritrovano per immergersi in un fiume sacro. Lo riportano le agenzie di stampa e Reuters, che attraverso reporter sul campo informa che a più di 12 ore dall’evento diversi corpi sono ancora in arrivo all’ospedale locale. Secondo le fonti della polizia sarebbero 40 i deceduti, di cui 39 vittime della calca. «Stanno arrivando altri corpi. Ne abbiamo quasi 40 qui. Li stiamo trasferendo e li stiamo consegnando alle famiglie uno per uno», hanno riferito ai media, aggiungendo che non è ancora possibile fornire i numeri ufficiali.

Egitto, confermata la condanna a 25 anni a Giacomo Passeri

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Un tribunale egiziano ha confermato in sede di appello la condanna a 25 anni nei confronti di Giacomo Passeri, pescarese arrestato nell’agosto del 2023 con l’accusa di possesso e traffico di sostanze stupefacenti. Il 31enne pescarese era stato condannato con le stesse accuse lo scorso agosto, sentenza contro cui la difesa ha presentato ricorso. La famiglia sostiene che, al momento dell’arresto, Passeri fosse in possesso solo di una piccola quantità di marijuana per consumo personale.

Clima, colonialismo e moda: un intreccio pericoloso

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Le promesse di regolamentazione del settore tessile sono state posticipate ancora una volta e, con esse, anche le prospettive di un cambio di direzione radicale nelle politiche di gestione delle imprese che operano in questo campo. Si rafforza così la convinzione che il sistema non abbia assolutamente intenzione di cambiare rotta, ma di continuare ad arricchirsi grazie allo sfruttamento delle terre e delle popolazioni che vi abitano, seguendo dinamiche coloniali predatorie già viste ripetersi più e più volte nel corso della storia.

Con il termine colonialismo si intende il controllo o il dominio di un Paese su un altro, che in genere comporta lo sfruttamento di risorse, terra e persone. Storicamente, le potenze coloniali, principalmente europee, hanno imposto un controllo economico, politico e culturale su regioni in Africa, Asia, Americhe e Pacifico. Il colonialismo, nei secoli, ha causato profondi impatti sociali e ambientali che hanno eredità ed impatti dannosi che durano ancora oggi. Pensare che sia una storia ormai passata sarebbe negare l’evidenza del fatto che le nazioni e le aziende più ricche continuano ad usare in modo sproporzionato le risorse e la manodopera dei paesi più poveri, (di solito quelli colonizzati in precedenza), per alimentare la crescita economica e compensare i propri impatti climatici. A trarre vantaggio da tutto ciò sono le nazioni più ricche, mentre quelle più povere vengono schiacciate dal peso del degrado ambientale e della disgregazione sociale, senza avere la possibilità di gestire le proprie risorse e le proprie politiche in maniera autonoma ed indipendente. Il modello coloniale, dunque, si ripete ad oltranza, perpetuando dinamiche di ingiustizia sociale, ambientale e climatica. 

In una società che tende ad alimentare costantemente il consumismo, l’industria della moda non ha fatto altro che cavalcare l’onda ed espandersi a macchia d’olio. Rapidamente. La velocità con cui cambiano le tendenze e la conseguente elevata domanda di moda implicano che in tutta la filiera, dall’estrazione alla produzione alla gestione dei rifiuti, le pratiche debbano essere rapide (e sconsiderate). Il modello di business è chiaramente insostenibile e lo sfruttamento è all’ordine del giorno, con un impatto notevole sia su coloro che vivono nel Sud del mondo sia sull’ambiente. I modi in cui l’industria della moda è responsabile del colonialismo climatico sono molteplici e si manifestano lungo tutta la filiera (non solo nella gestione pessima dei rifiuti).

L’estrazione delle materie prime, ad esempio, è uno dei primi momenti in cui l’industria approfitta in malo modo dei territori altrui. Molti materiali utilizzati nella produzione dei vestiti, come cotone e pelle, provengono da paesi del Sud del mondo. Queste nazioni sono costrette a sopportare il peso del degrado ambientale causato da pratiche agricole intensive, dalla deforestazione e dall’inquinamento delle acque. La coltivazione del cotone in Paesi come India e Uzbekistan, ad esempio, ha portato a gravi carenze idriche e all’impoverimento del suolo, colpendo le comunità locali che dipendono da queste risorse per sopravvivere. In Punjab, l’uso eccessivo di prodotti chimici ha portato a contaminazioni del suolo, del cibo e dell’acqua, causando gravi patologie tra la popolazione locale. 

Quello dei danni alle persone è un’altra questione frutto di una mentalità tipicamente coloniale, dove la vita di un essere umano di un’altra zona del pianeta sembra avere un valore mediamente inferiore. Lo sfruttamento del lavoro è una pratica costante di molti marchi di moda. Il colosso del settore Shein, per esempio, è già più volte finito sotto accusa per le condizioni di sfruttamento estremo alle quali vengono sottoposti i suoi “dipendenti”, in cambio di paghe misere. La manodopera proveniente da Paesi economicamente meno sviluppati come Vietnam e Bangladesh, vede i lavoratori, spesso donne e bambini, che affrontano condizioni di lavoro dure, lunghe ore e stipendi minimi. Le cattive condizioni di lavoro sono spesso accompagnate da una mancanza di regolamentazione ambientale, che porta allo smaltimento di rifiuti pericolosi e all’inquinamento tossico, con un impatto sproporzionato sulla vita delle comunità locali. 

Potrebbe finire qui, e già ci sarebbero danni sufficienti ai quali tentare di porre rimedio. Ma il colonialismo prende anche la forma di rifiuti: l’industria della moda scarica tonnellate di spazzatura in Paesi in via di sviluppo come Ghana e Kenya, dove va a costruire discariche a cielo aperto. Una delle più grandi al mondo si trova nel deserto di Atacama, in Cile, dove ogni anno arrivano fino a 60 mila tonnellate di abiti usati che vengono poi bruciati illegalmente, con l’inquinamento e la contaminazione ambientale che tutto ciò comporta. Il colonialismo dei rifiuti ricrea pericolosamente la dinamica dello sfruttatore e dello sfruttato. Non aiutano in tutto ciò pratiche come quella della “obsolescenza programmata” (ovvero della vendita di prodotti di seconda mano che già in partenza erano di scarsissima qualità e che quindi non sono destinati a durare, nella quale, di nuovo, Shein è campione in negativo), che trasformano anche il mercato dell’usato in niente di più che una mera operazione di greenwashing.

Comprendere queste connessioni serve ad avere chiaro il quadro della situazione, dove le aziende di moda scelgono in maniera conscia e consapevole la propria catena di fornitura, instaurando rapporti di stampo coloniale con i propri fornitori per poter sfuggire agli standard di sicurezza e trarre sempre più benefici (e proprio per questo sempre più ostili ad un cambiamento sostanziale). Purtroppo viviamo ancora in un mondo dove la vita e la dignità altrui vengono immortalate sull’altare del profitto

[di Marina Savarese]

In tutta Italia riprende la protesta dei trattori

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A un anno da quelle che sono state denominate “proteste dei trattori”, gli agricoltori e gli allevatori di tutta Italia sono tornati a riversarsi sulle strade del Paese. Ieri, martedì 28 gennaio, decine di mezzi hanno occupato vari svincoli autostradali da nord a sud, bloccando il traffico e rilanciando la mobilitazione, come già fatto dai colleghi europei di Francia, Spagna e Polonia. Le proteste hanno interessato diverse province di Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna, Toscana, Campania, Puglia e Calabria. Nei prossimi giorni sono attese altre manifestazioni in tutto lo Stivale, da Brescia fino a Reggio Calabria. Le richieste restano le stesse dello scorso anno: «Dallo scorso anno le cose non sono cambiate, anzi in alcuni casi i problemi sono raddoppiati a causa della burocrazia», ha detto Gabriele Ponzano, presidente nazionale degli Agricoltori autonomi italiani. I lavoratori chiedono maggiori tutele «contro il commercio sleale», meno burocrazia, prezzi più equi per la produzione e la dichiarazione dello stato di emergenza per affrontare la crisi che sta mettendo in ginocchio il settore.

Le proteste degli agricoltori e degli allevatori sono state inaugurate lunedì 27 gennaio e si sono diffuse a macchia d’olio. Ieri a Peveragno, in provincia di Cuneo, circa 50 trattori sono giunti da tutta la provincia per tenere un presidio che domani dovrebbe spostarsi nel capoluogo. Nel frattempo, a Brescia, decine di mezzi sono arrivati da Cremona, Mantova e dalla Bassa bresciana, percorrendo a passo d’uomo la tangenziale Sud, accompagnati dalla Stradale e creando disagi alla circolazione. A Ravenna, agricoltori e allevatori sono arrivati in corteo al porto assieme ai pescatori, dove rimarranno per quattro giorni. Proteste anche ad Avellino, Caserta, Grosseto, Lucca, Piacenza, Mantova e Reggio Calabria. Le marce dei mezzi pesanti hanno coinvolto direttamente strade e autostrade di tutto lo Stivale: a Pisa è stata portata avanti una protesta all’imbocco della A11; a Bettolle, in provincia di Siena, alle porte di Arezzo, i trattori hanno marciato al casello della A1; a Foggia, gli agricoltori hanno organizzato un presidio in un’area di servizio sulla statale 17. Nei prossimi giorni, a partire da domani fino a domenica, sono in programma altre mobilitazioni, che dovrebbero arrivare a occupare le strade delle principali città coinvolte. Annunciate ulteriori marce anche verso Alessandria, Orvieto, Pesaro e Cesenatico; in totale, sono in programma almeno 40 presidi in tutte le città, e sembra si stia organizzando un corteo verso Roma.

«Torniamo in strada per difenderci dall’aggressione speculativa, per la dignità nostra e dei cittadini, e perché un Paese senza agricoltori, allevatori e pescatori è un Paese senza futuro», si legge in una nota del Coordinamento Agricoltori e Pescatori Italiani (Coapi). Le rivendicazioni dei lavoratori di categoria non differiscono da quelle avanzate esattamente un anno fa e non sono dissimili da quelle che, in questi primi giorni del 2025, hanno coinvolto i colleghi europei. «È una continuazione della protesta dell’anno scorso. Il Ministero ci ha aperto un tavolo di dialogo e noi vogliamo portare avanti questo tavolo tutti assieme», ha detto un rappresentante della protesta ravennate. Agricoltori, allevatori e pescatori chiedono che vengano affrontati di petto i problemi a cui il settore va incontro da anni e che, denunciano i comitati, spaziano dal crollo della produzione alla volatilità dei prezzi dei prodotti, fino alla troppa burocrazia e agli eccessivi vincoli economici e produttivi. Per farlo, chiedono un confronto con il governo sulle riforme strutturali necessarie ad affrontare la crisi, e propongono che venga elaborato un «Piano di Azione Straordinaria per salvare le piccole e medie imprese dell’agricoltura, dell’allevamento e della pesca, adottando una Dichiarazione di Stato di Crisi e assumendo un pacchetto di misure anche in deroga alle Regole Comunitarie ed ordinarie», in modo da «tutelare produttori e consumatori».

[di Dario Lucisano]

La Svizzera come l’Iran? Giornalista palestinese arrestato senza accuse, ma nessuno dice nulla

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Un giornalista che si trovava in un Paese straniero è stato prelevato da una squadra di agenti, ammanettato, costretto a salire su un’auto senza contrassegni e portato direttamente in prigione, dove è stato detenuto con la generica accusa di “violazione della legge dello Stato”. Malgrado le evidenti similitudini con il caso di Cecilia Sala, non è successo a Teheran, ma a Zurigo, in Svizzera, dove Ali Abunimah è stato arrestato in quanto palestinese, attivista e co-fondatore di Electronic Intifada, una delle testate che più raccontano quanto succede in Palestina. Abunimah si trovava a Zurigo per partecipare a un evento sulla Palestina e sul coinvolgimento dell’Occidente nei massacri di Gaza in qualità di relatore. «Il mio “crimine”? Essere un giornalista che parla a favore della Palestina e contro il genocidio di Israele», ha scritto dopo essere stato rilasciato. Il giornalista è rimasto in carcere tre giorni e due notti, privato della possibilità di comunicare con il mondo esterno 24 ore su 24, ed è stato espulso dal Paese senza capi d’accusa.

L’arresto di Ali Abunimah è avvenuto sabato 25 gennaio. Abunimah si trovava a Zurigo per parlare a un evento formativo sulla storia della Palestina e sui fatti successivi al 7 ottobre, organizzato da Watermelon University. Sin dal suo arrivo in Svizzera, venerdì 24 gennaio, il giornalista era stato sottoposto a pressioni da parte delle forze dell’ordine, venendo interrogato per circa un’ora in aeroporto. Anche le istituzioni che avevano concesso lo spazio per l’evento hanno subito pressioni dalle autorità, tanto da costringere gli organizzatori a cambiare il luogo dell’incontro un’ora prima dell’inizio. Il giornalista è stato prelevato in strada attorno alle 13:30 da un gruppo di agenti in borghese. Testimoni oculari riferiscono di un «brutale arresto»: gli agenti di polizia, in abiti civili, lo avrebbero spinto contro il muro e ammanettato, per poi condurlo alla polizia cantonale di Zurigo.

Arrivato in prigione, Abunimah è stato interrogato dalla polizia in assenza dell’avvocata; inizialmente gli agenti gli hanno impedito di contattarla, ma lui si è rifiutato di rispondere alle loro domande senza di lei. In presenza dell’avvocata, è stato accusato di “violazione della legge svizzera” senza che venisse specificato quale crimine avesse commesso né che venissero elencate eventuali accuse. «Per quanto ne so, non sono stato accusato di alcun reato e sono stato detenuto in “detenzione amministrativa”», scrive il giornalista nel suo post su X. La polizia svizzera ha confermato il fermo di Abunimah, citando un presunto «divieto di ingresso» e non meglio specificate «ulteriori misure in base alla legge sull’immigrazione». L’avvocata del giornalista, tuttavia, incalza: il divieto d’ingresso gli è stato imposto solo dopo il suo arrivo nel Paese, senza essergli notificato. Non è ancora chiaro il motivo per cui sia stato emesso il divieto, ma la stampa svizzera descrive Abunimah come un giornalista radicale, islamista e antisemita. L’intento dell’arresto, insomma, secondo l’avvocata, era repressivo.

Nei suoi tre giorni di detenzione, le autorità hanno impedito ad Abunimah di parlare con i propri familiari e lo hanno rinchiuso in cella senza la possibilità di uscire. Domenica mattina lo hanno prelevato dalla cella per farlo interrogare dagli agenti dei servizi segreti del Ministero della Difesa svizzero in assenza dell’avvocata, ma Abunimah si è rifiutato nuovamente di parlare senza di lei. Il giornalista è stato trattenuto in prigione fino a ieri, lunedì 27 gennaio, portato all’aeroporto di Zurigo in manette all’interno di un furgone carcerario senza finestrini e accompagnato fino all’aereo dalla polizia. Il telefono gli è stato restituito al gate. «Mentre venivo trascinato in prigione come un pericoloso criminale prima ancora che avessi la possibilità di dire una parola, il presidente israeliano Isaac Herzog, che all’inizio del genocidio dichiarò che a Gaza non ci sono civili né innocenti, camminava su un tappeto rosso a Davos» nota con amara ironia Abunimah. «E proprio oggi [lunedì 27 gennaio] Netanyahu si reca liberamente in Polonia per prendersi gioco della commemorazione di Auschwitz nonostante un mandato di arresto della CPI in sospeso. Questo è il mondo perverso e ingiusto in cui viviamo».

Dopo l’arresto di Abunimah, è sorto un forte moto di solidarietà nei suoi confronti, specialmente perché, vista la continua assenza di accuse, sono tutti concordi che sia stato arrestato per il mero fatto di essere un palestinese che critica l’operato di Israele. Amnesty ha denunciato la «repressione globale nei confronti di coloro che criticano le violazioni israeliane dei diritti umani dei palestinesi», definendola «allarmante». L’avvocato per i diritti umani Craig Mokiber ha accusato la Svizzera di stare «attaccando sempre più i difensori dei diritti umani per conto di un oppressivo regime di apartheid straniero che sta portando avanti un genocidio (Israele)». Francesca Albanese ha affermato che «il clima che circonda la libertà di parola in Europa sta diventando sempre più tossico». Numerosi altri gruppi e individui, anche dal basso, si sono mossi per la liberazione del giornalista palestinese, rimarcando il «preoccupante» stato in cui versano la libertà di parola e di stampa in Europa, di cui il caso di Abunimah risulta solo l’ultimo esempio.

[di Dario Lucisano]

Turchia, rimosso un sindaco filocurdo

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La Turchia ha rimosso un altro sindaco filo-curdo, sostituendolo temporaneamente con un funzionario statale. Si tratta di Sofya Alagas, membro del partito filo-curdo DEM e sindaca della provincia sud-orientale di Siirt. Alagas è stata destituita per i suoi presunti legami con il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, considerato terrorista dalla Turchia, e condannata a sei anni e tre mesi di carcere; in precedenza, nel 2022, aveva già ricevuto un’accusa per la sua attività giornalistica. Alagas non è l’unico funzionario filo-curdo preso di mira dalla Turchia. Decine di sindaci del partito DEM sono stati rimossi dai loro incarichi con accuse simili e molti amministratori locali sono stati arrestati per lo stesso motivo.

Alcuni super ricchi hanno chiesto di pagare più tasse

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Al World Economic Forum, 370 milionari e miliardari hanno firmato una lettera aperta nella quale chiedono più tasse per i super-ricchi. Nella missiva, indirizzata ai capi di Stato e di governo riuniti a Davos, viene riportato che l'estrema ricchezza costituisce «una minaccia per la democrazia», in quanto potente strumento di influenza politica. Tra i firmatari spiccano i nomi di Marlene Engelhorn, attivista ed ereditiera milionaria, e di Abigail Disney, produttrice, che ha dichiarato che l'elezione di Trump non è «un'aberrazione», ma «la conclusione finale e inevitabile di decenni di inazione ...

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Mediobanca boccia offerta di MPS: “inutile e non concordata”

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L’operazione è «contraria agli interessi della società e non concordata»: questa la risposta di Mediobanca all’offerta di acquisizione presentata qualche giorno fa da Monte dei Paschi di Siena (MPS), gruppo bancario il cui primo azionista è lo Stato italiano. Il secco rifiuto è giustificato, spiega il cda, dai risultati raggiunti quest’anno dall’istituto, che hanno confermato gli obiettivi per il 2023-2026 (utile per azione di 1,80 euro e 1,1 miliardi di euro distribuiti agli azionisti). L’offerta di MPS non ha perciò «alcuna valenza industriale e comprometterebbe l’identità e il profilo aziendale del gruppo».