sabato 6 Settembre 2025
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La macchina della propaganda europea

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Dietro la retorica dei “valori europei”, l’Unione Europea ha messo in piedi una vera e propria macchina di propaganda istituzionale. Una strategia capillare, ben mascherata sotto il nobile scudo della “promozione dei valori democratici”, ma che, in realtà, si traduce in una gigantesca operazione di marketing politico. Una macchina attraverso la quale, sotto la generica motivazione degli aiuti alla democrazia e allo sviluppo, milioni di euro fluiscono nelle casse di ONG e centri studi che eseguono progetti con l’obiettivo di orientare le opinioni pubbliche dei Paesi membri e promuovere l’agenda politica di Bruxelles e l’integrazione europea. A dettagliarlo è il rapporto The Eu’s propaganda machine (La macchina della propaganda europea), redatto da Thomas Fazi – giornalista e ricercatore italiano – e pubblicato dal centro studi ungherese MCC Bruxelles. Un rapporto importante, perché per la prima volta svela in modo organico, e basato sullo studio diretto dei bilanci europei, il sistema attraverso il quale l’Unione Europea usa il terzo settore per quella che viene definita un’azione di «propaganda per procura» e «imperialismo culturale».

Le ONG come megafoni della Commissione

Sono diversi gli enti europei attraverso i quali si propagano i progetti di autopromozione di Bruxelles. Tra questi, un ruolo centrale spetta a CERV, un progetto avviato nel 2021 dalla Commissione Europea, che ha tra i propri scopi espliciti quello di «tutelare e promuovere i valori europei». Attraverso questi e altri progetti, l’Unione usa le ONG per promuovere i propri scopi politici tra i cittadini, in una modalità che, specifica il rapporto, appare paragonabile a come gli Stati Uniti usano organizzazioni come USAID, ossia l’ente che storicamente si occupa di promuovere l’ideologia statunitense e orientare le opinioni pubbliche dei Paesi in cui opera. Con una differenza sostanziale però, spiega Thomas Fazi a L’Indipendente: «mentre il compito di USAID è quello di svolgere funzioni di propaganda per gli Stati Uniti all’interno di Paesi stranieri, il CERV e gli altri progetti europei operano al fine di orientare l’opinione pubblica degli stessi Paesi membri dell’Unione Europea».

Secondo il rapporto, attraverso progetti che apparentemente si occupano di promuovere valori universali come la tutela delle minoranze, la riduzione delle discriminazioni e la promozione della democrazia, l’UE agisce al fine di «distorcere i dibattiti pubblici su questioni politiche chiave e per favorire una narrazione unilaterale» e utilizza i propri strumenti di bilancio come «arma per mettere a tacere il dissenso e consolidare la propria autorità, sollevando serie preoccupazioni per il declino democratico che si sta verificando in tutta Europa».

Quanto costa questa macchina della propaganda europea? «Difficile dirlo – spiega Thomas Fazi – perché i fondi utilizzati per manipolare l’opinione pubblica non sono convogliati in progetti specifici, ma diffusi attraverso molteplici progetti diversi». Ci sono ad esempio gli 1,8 miliardi di euro destinati alla promozione di “Diritti e valori”, ma ci sono anche tante altre fonti, come i soldi destinati all’innovazione digitale ma destinati in parte alla lotta alla «disinformazione», termine ombrello attraverso il quale sempre più spesso si identificano tutte le opinioni difformi. «Le autorità europee amano sventolare la minaccia esterna contro la nostra democrazia, ma in realtà il principale agente che minaccia la democrazia in Europa è proprio la Commissione Europea», afferma l’autore. Come? Il rapporto The EU’s Propaganda Machine delinea e dettaglia un sistema complesso, con numerosi esempi e casi di studio.

La prima accusa è chiara: la Commissione Europea finanzia ONG e think tank che agiscono come sue “cheerleaders“, distorcendo l’idea stessa di società civile. È quello che il rapporto definisce «propaganda per procura». Molte organizzazioni sono rese finanziariamente dipendenti da Bruxelles e diventano di fatto veicoli per veicolare l’agenda della Commissione. Non si tratta di sostegno neutro al dibattito pubblico, ma di un’operazione costruita per rafforzare narrazioni pro-UE, screditare l’euroscetticismo e presentare l’integrazione europea come unica via possibile. Sotto la bandiera dell’impegno civico, afferma il rapporto, Bruxelles ha costruito una rete parallela di comunicazione che bypassa i governi nazionali e agisce direttamente sulla popolazione.

Imperialismo culturale e consenso artificiale

Dietro l’apparente neutralità della promozione dei “valori UE”, si cela un’operazione di omologazione culturale. Il rapporto parla esplicitamente di «imperialismo culturale»: la Commissione sostiene norme liberal-progressiste che, in molti Stati membri – in particolare dell’Europa centrale e orientale – entrano in collisione con i contesti storici e culturali locali. Il caso della promozione dell’agenda LGBTQ+ in nazioni come Ungheria o Polonia è emblematico. Si tratta di operazioni che, secondo il rapporto, non si limitano alla lotta alle discriminazioni per genere e identità sessuale, ma mirano all’ «adozione di linguaggi, comportamenti e politiche allineate ai principi progressisti dominanti a Bruxelles», anche a scapito della sensibilità democratica dei singoli Paesi.

Il sistema dei finanziamenti europei contribuisce, secondo il rapporto, a distorcere il dibattito pubblico e a indebolire il pluralismo. Si finanziano solo narrazioni che rafforzano l’integrazione europea, mentre le posizioni critiche restano marginalizzate e prive di mezzi. Così, scrive Fazi, «si crea l’illusione di un consenso diffuso attorno all’agenda dell’UE», mentre in realtà si tratta di un consenso costruito artificialmente, comprato con fondi pubblici. Le ONG finanziate vengono sistematicamente presentate come voci indipendenti della società civile, ma nei fatti sono parte organica dell’apparato europeo. «Questo – si legge nel rapporto – è un gigantesco conflitto di interessi mascherato da partecipazione democratica». E intanto i cittadini che non condividono l’agenda pro-UE vedono le loro opinioni espulse dal dibattito legittimo.

La lotta alle “fake news” come strumento di censura

Un altro capitolo del rapporto dettaglia la «promozione della censura». Il pretesto è quello – nobile, almeno in apparenza – di combattere la disinformazione. Ma in realtà, denunciano gli autori, si tratta spesso di screditare ogni voce critica. Alcuni progetti finanziati dal CERV in questo senso sono assolutamente espliciti. Come il progetto RevivEU, che ha ricevuto 645.000 euro nel biennio 2023/24 per «combattere le narrazioni euroscettiche emergenti già promulgate dalle élite autocratiche», nonché per «ravvivare l’attrattiva dell’UE nelle menti dei cittadini». O come il progetto Chi e come: contrastare la disinformazione che allontana i cittadini dal progetto europeo: 270.000 euro distribuiti a ONG e centri studi in vari Paesi (tra i quali anche l’Italia) per «identificare, mappare ed esporre temi, discorsi, attori e vettori che promuovono e trasmettono messaggi volti a minare la fiducia dei cittadini nelle politiche dell’UE». Bruxelles, continua il rapporto, finanzia anche la creazione di portali informativi “approvati”, algoritmi per indirizzare i contenuti considerati “affidabili” e piattaforme social modellate su narrazioni pro-UE. L’implicazione di questi progetti, afferma Thomas Fazi, è inequivocabile: «L’informazione deve tramutarsi in uno strumento di disciplinamento, e qualsiasi messaggio che diminuisca la fiducia nell’UE deve essere automaticamente etichettato come disinformazione».

Ingerenze politiche: l’UE entra a gamba tesa

Il primo ministro dell’Ungheria Viktor Orbán

Il rapporto accusa apertamente la Commissione anche di operare «interferenze straniere» negli affari interni di Stati membri governati da forze euroscettiche. Succede in Ungheria, dove le ONG finanziate da Bruxelles hanno apertamente attaccato il governo Orbán. Succede in Polonia, dove si è creato un vero e proprio asse tra società civile “europeista” e Commissione per indebolire i conservatori del PiS. A volte l’ingerenza è diretta: con il congelamento di fondi strutturali e recovery fund per motivi politici. Altre volte è indiretta, ma forse ancor più insidiosa: usando alcune ONG locali per delegittimare governi eletti. «La Commissione – si legge – non si limita a promuovere valori: cerca attivamente di influenzare gli equilibri politici interni dei Paesi membri». Una strategia che mette in discussione la stessa sovranità popolare e democratica all’interno degli Stati membri.

Il 24 novembre scorso il primo turno delle elezioni presidenziali era stato vinto a sorpresa dal candidato Calin Georgescu, poi escluso dalla sua ripetizione con l’accusa di aver «minato l’ordine costituzionale e promosso un’organizzazione di stampo fascista»

Un esempio particolarmente interessante è quello della Romania, uno dei Paesi dove la Commissione ha investito di più nel finanziamento di progetti proUE tramite il programma CERV. Organizzazioni non governative e centri studi romeni sono stati destinatari di fondi con evidenti finalità dichiaratamente politiche: «contrastare la disinformazione che mina la fiducia nell’UE», «monitorare il linguaggio usato dai rappresentanti politici», «rafforzare la narrativa europea nei media locali». In alcuni casi, si sono finanziate attività che sfiorano la sorveglianza politica. Un progetto finanziato nel 2025 prevede di «controllare il linguaggio usato dai rappresentanti eletti sui social media e nei media tradizionali». In pratica, un sistema per mappare il dissenso e disinnescarlo. Tra questi il Blue4EU: oltre 375 mila euro donati da Bruxelles nel triennio 2024/26, in un progetto coordinato dall’Università Babeș-Bolyai, al fine di «migliorare il pensiero critico e la resilienza dei giovani nei confronti degli attuali movimenti estremisti e anti-UE» e la “Piattaforma per sfidare l’euroscetticismo”.

Proprio la Romania ha dimostrato tuttavia che, quando la propaganda non riesce ad arginare la crescita di partiti e personaggi politici invisi all’attuale leadership, ogni mezzo può diventare lecito. Dopo che il 24 novembre scorso il primo turno delle elezioni presidenziali era stato vinto a sorpresa dal candidato Calin Georgescu, definito di “estrema destra” e “filo-russo”, la Corte Costituzionale rumena ha prima deciso di annullare la consultazione perché il voto avrebbe subìto interferenze da parte della “propaganda russa” e poi ha escluso Georgescu dalla sua ripetizione con l’accusa di aver «minato l’ordine costituzionale e promosso un’organizzazione di stampo fascista». Decisioni che hanno spinto il celebre quotidiano liberale Financial Times a inserire il Paese tra i regimi ibridi e non pienamente democratici all’interno dell’annuale rapporto Global Democracy Index. In questo modo la Romania è diventata il primo Paese parte della UE a essere classificato non democratico. Tuttavia, dalla Commissione Europea, sempre pronta a intervenire a favore della democrazia in ogni contesto, questa volta non è arrivata nessuna condanna verso l’esclusione di Georgescu, e anzi l’azione della Corte Costituzionale è stata sostanzialmente appoggiata.

Il rapporto si conclude mettendo in luce un paradosso: tra i danni collaterali della macchina propagandistica europea non ci sono solo la democrazia e la sovranità popolare degli stessi cittadini europei, ma anche le stesse ONG. Usare la “società civile” come strumento politico genera sfiducia generale verso tutto il settore. «Le ONG autentiche rischiano di essere travolte dalla reazione contro il complesso UE-ONG», si legge. Si crea una confusione tra attivismo sincero e propaganda mascherata. E il rischio è che a pagarne il prezzo siano proprio le organizzazioni che lottano per i diritti, l’ambiente, l’inclusione sociale – non per compiacere Bruxelles, ma per rispondere a bisogni reali.

Argentina, accordo preliminare da 20 miliardi di dollari con l’FMI

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Il Fondo Monetario Internazionale ha annunciato di avere raggiunto un accordo preliminare con l’Argentina per un piano di salvataggio da 20 miliardi di dollari (circa 18,1 miliardi di euro). I prestiti dovrebbero venire erogati nell’arco di 48 mesi, e dovrebbero «sostenere la prossima fase del programma di stabilizzazione e riforma interno dell’Argentina». L’accordo deve ora essere approvato dal consiglio esecutivo del Fondo. Nel corso degli anni, l’Argentina ha accumulato un debito di circa 40 miliardi di dollari con l’FMI. Questo finanziamento sevirebbe, come annunciato da Milei in occasione dell’apertura dell’anno politico, a risanare il debito con la Banca Centrale, così da eliminare i controlli valutari dell’istituto finanziario e attirare potenziali investitori.

Sono stati assolti gli anarchici processati per aver pubblicato una rivista

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È finito con l’assoluzione il processo in primo grado ai 4 anarchici accusati di istigazione a delinquere con finalità di terrorismo per la pubblicazione della rivista quindicinale Bezmotivny. Nove persone erano state arrestate il 9 agosto 2023 con l’accusa di associazione con finalità di terrorismo, istigazione e apologia con finalità di terrorismo e offesa all’onore e al prestigio del presidente della Repubblica. Sotto accusa non vi era nessuna azione: solo i loro articoli, pubblicati su un giornale cartaceo distribuito pubblicamente. Per circa un anno gli accusati sono stati obbligati a varie misure cautelari, dagli arresti domiciliari, al carcere, fino a obblighi di dimora e firme, nonostante il reato di associazione sia caduto in aula già nel corso delle prime udienze.

Il pm Federico Manotti della DDA (Direzione Distrettuale Antimafia e Antiterrorismo) aveva richiesto, nell’udienza svoltasi lo scorso 1° aprile, una condanna a 7 anni di carcere, una a 6 anni, e due a 5 anni e sei mesi. A queste erano poi state aggiunte decine di migliaia di euro di risarcimenti allo Stato. Pene altissime, forse mai viste, per quello che molti definiscono un reato d’opinione. «Con Scripta Scelera [il nome del processo, ndr] lo Stato vorrebbe colpire l’agitazione e la propaganda anarchica» si legge su un comunicato pubblicato dagli anarchici subito dopo la richiesta delle condanne. «La spudorata volontà di ammutolire le pubblicazioni rivoluzionarie, nonché di demonizzare le azioni di attacco contro lo Stato e il capitalismo, mostrano la reale consistenza del volto permissivo dello Stato e delle sue “libertà di espressione”, specialmente in tempi di guerra».

Negli ultimi anni la stampa anarchica è stata presa di mira da varie procure in tutta Italia, che fondavano le loro richieste di misure cautelari su presunti reati di istigazione a delinquere con finalità di terrorismo. Giornali e siti internet sono stati oscurati per bloccare la circolazione di testi, dibattiti e aggiornamenti riferibili alla galassia anarchica. Anche se poi il processo finisce con assoluzioni o piccole condanne, tra sequestri e misure cautelari il tentativo sembrerebbe quello di silenziare le idee e i ragionamenti di chi si oppone apertamente – senza rinnegare la violenza – allo stato e al capitalismo.

Il primo grado dell’operazione Scripta Scelera si è concluso con l’assoluzione per tutti gli imputati da tutti i reati tranne che la condanna a uno di essi a 8 mesi di reclusione per offesa all’onore e al prestigio del presidente della Repubblica Mattarella. Forse un “buon segno”, anche se la direzione repressiva verso la quale stiamo andando sembra far prevedere nuovi giri di vite per la libertà di stampa e di opinione. Il nuovo decreto legge approvato dal governo Meloni il 4 aprile infatti inserisce un articolo sulla Prevenzione e contrasto al terrorismo internazionale e ai reati contro l’incolumità pubblica: il testo prevede dai 2 ai sei anni di carcere per «chi si procura o detiene materiale contenente istruzioni sulla preparazione e l’uso di congegni bellici micidiali, armi, sostanze chimiche o batteriologiche e di ogni altra tecnica o metodo per il compimento di atti con finalità di terrorismo. Per chi diffonde o pubblicizza tale materiale con qualsiasi mezzo, anche telematico, si prevede la reclusione da sei mesi a quattro anni».

In un momento storico in cui si tacciano di “finalità di terrorismo” molte azioni e mobilitazioni che avvengono in Italia, e perfino degli scritti, c’è da chiedersi come questa legge verrà utilizzata.

Germania: l’ufficio immigrazione espelle gli stranieri che manifestano per Gaza

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Nonostante non siano stati condannati da alcun tribunale, le autorità di Berlino espelleranno dalla Germania quattro cittadini stranieri (tre europei e uno statunitense) che hanno preso parte ad azioni per la Palestina. Tutti e quattro hanno infatti ricevuto una notifica dell’Ufficio Immigrazione di Berlino, per mezzo della quale veniva comunicata la fine del soggiorno in Germania e l’obbligo di abbandonare il Paese entro il 21 aprile. Per il cittadino statunitense, oltre l’espulsione è stata notificata l’interdizione da tutta l’area Schengen per due anni. Gli attivisti sono accusati di aver tentato di impedire l’arresto di un manifestante e di aver preso parte al tentativo di occupazione della Freie Universität di Berlino, lo scorso 17 ottobre 2024. Su di essi pendono inoltre accuse di antisemitismo e di sostegno indiretto ad Hamas.

I cittadini in questione sono Cooper Longbottom (statunitense), Kasia Wlaszczyk (polacca), Shane O’Brien (irlandese) e Roberta Murray (irlandese). Gli ordini di espulsione, emessi ai sensi della legge tedesca sull’immigrazione, hanno scatenato obiezioni interne dovute al fatto che tre dei quattro sono cittadini di Stati membri dell’Unione Europea. Sebbene secondo la legge tedesca sull’immigrazione, le autorità non abbiano bisogno di una condanna penale per emettere un ordine di espulsione, i cittadini europei godono della libertà di movimento tra i Paesi UE, la quale può essere limitata solo con sentenze di un tribunale. Diverso il caso del cittadino statunitense, al quale sono stati anche notificati due anni di interdizione all’area Schengen.

Tutti sono accusati di aver preso parte al tentativo di occupazione della Freie Universität del 17 ottobre 2024, ma a ciascuno vengono contestate infrazioni differenti – dall’aver ostacolato l’arresto di un manifestante all’aver dato del “fascista” ad un poliziotto. «Quello che stiamo vedendo qui proviene direttamente dal modo di agire dell’estrema destra» ha detto l’avvocato di due dei manifestanti, Alexander Gorski, a The Intercept. «Si nota anche negli Stati Uniti e in Germania: il dissenso politico viene messo a tacere prendendo di mira lo status di immigrazione dei manifestanti». Proprio in queste settimane, infatti, negli Stati Uniti ha suscitato parecchio scalpore l’arresto di Mahmoud Khalil, lo studente palestinese della Columbia University, residente permanente USA, stato sequestrato dal suo condominio per accuse relative alle attività pro-palestinesi del campus.

In Germania il sostegno allo Stato di Israele è fortissimo. D’altronde, come deciso dal governo Scholz nel giugno 2024, gli stranieri, per avere la cittadinanza tedesca devono esprimere fedeltà a Israele. Gli stranieri che vorranno il passaporto teutonico devono infatti dimostrare di condividere i “valori tedeschi”, tra cui il diritto di Israele a esistere. E la repressione del dissenso rispetto al genocidio in corso in Palestina è costante. Si viene perseguiti con qualunque motivazione, dall’aver esposto bandiere palestinesi (comprese quelle disegnate sulle magliette) al pronunciare il motto “Dal fiume al mare, La Palestina sarà libera”. Questa frase è diventata praticamente fuori legge in Germania, come denunciato dalla sinistra berlinese, che racconta anche di un concerto interrotto dalla polizia dopo che è stata sentita questa frase.

In un simile contesto, mettere in dubbio qualsiasi azione di Israele in Germania è pressochè impossibile. Così, è molto difficile che possano levarsi voci di dissenso che denuncino il genocidio in corso in Palestina, che prosegue senza sosta ogni giorno che passa.

Pena di morte: nel mondo 1518 esecuzioni in un anno, è il dato più alto dal 2015

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Il numero di esecuzioni capitali, a livello globale, ha raggiunto nel 2024 il livello più alto dal 2015. Sono infatti 1.518 le persone messe a morte in 15 diversi Stati del mondo. È quanto emerge dall’ultimo rapporto di Amnesty International sull’uso della pena di morte nel mondo, pubblicato sul portale dell’organizzazione. La stragrande maggioranza delle esecuzioni note si è verificata in Iran, Iraq e Arabia Saudita, Paesi responsabili dell’aumento complessivo delle pene capitali. I dati diramati nel report non includono le migliaia di persone che si crede siano state giustiziate in Cina, che continua a rappresentare il Paese con il più alto numero numero di esecuzioni al mondo, così come in Corea del Nord e in Vietnam, dove si ritiene che la pena capitale venga ancora largamente applicata.

Nel complesso, Iran, Iraq e Arabia Saudita hanno fatto registrare il totale di 1380 esecuzioni. Rispetto al 2023, l’Iraq è passato da almeno 16 ad almeno 63 esecuzioni (quasi il quadruplo), l’Arabia Saudita da 172 ad almeno 345 e l’Iran da almeno 853 ad almeno 972. In questi tre Paesi è avvenuto circa il 91% delle esecuzioni documentabili. In alcuni stati del Medio Oriente, spiega Amnesty, la pena di morte «è stata usata per mettere a tacere difensori dei diritti umani, dissidenti, manifestanti, oppositori politici e minoranze etniche». Nella regione sono 8 i Paesi che hanno applicato la pena di morte, ovvero Egitto, Iran, Iraq, Kuwait, Oman, Arabia Saudita, Siria e Yemen. Più del 40 per cento delle esecuzioni avvenute nel 2024 ha riguardato «illegalmente» reati legati alla droga. Secondo il diritto internazionale dei diritti umani e gli standard internazionali, infatti, la pena capitale deve essere limitata ai «reati più gravi», nel cui novero non rientra questa tipologia di reato. Le esecuzioni per reati collegati agli stupefacenti sono fioccate in Cina, Iran, Arabia Saudita, Singapore e, presumibilmente, Vietnam. L’organizzazione lancia l’allarme su quegli Stati che hanno manifestato l’intenzione di introdurre la pena capitale per questi reati, come Maldive, Nigeria e Tonga, i quali «devono essere denunciati e incoraggiati a mettere i diritti umani al centro delle loro politiche sulle droghe».

Per quanto concerne la Cina, non si conoscono le statistiche legate alle esecuzioni, poiché le informazioni sulla pena capitale sono classificate come segreti di Stato, ma Amnesty classifica il Paese al primo posto per numero di persone giustiziate. Altro capitolo riguarda gli Stati Uniti, dove le esecuzioni sono in costante aumento dalla fine della pandemia. Nel 2024 sono state messe a morte 25 persone, una in più del 2023. In Texas è raddoppiato il numero di condannati alla pena capitale (da 3 a 6) e quattro Stati – Georgia, Indiana, Carolina del Sud e Utah – hanno ripreso a giustiziare condannati. Amnesty evidenzia come il nuovo presidente Donald Trump abbia più volte invocato la pena di morte nei confronti di «stupratori violenti, assassini e mostri», alimentando «la falsa convinzione che la pena capitale abbia un effetto deterrente unico contro la criminalità».

Amnesty dà anche atto di novità positive. Infatti, sebbene la quantità di esecuzioni siano aumentate, il 2024 ha registrato il numero più bassi di Stati (15) che le hanno portate a termine. Ad oggi, 113 Stati hanno totalmente abolito la pena di morte e 145 l’hanno eliminata dalle leggi o dalla prassi. Sono invece 54 gli Stati che mantengono in vigore la pena capitale, ma quelli che eseguono condanne a morte sono solo un terzo di essi. Per la prima volta, inoltre, più di due terzi di tutti i Paesi membri delle Nazioni Unite si sono espressi a favore della decima risoluzione dell’Assemblea generale per una moratoria sull’uso della pena di morte.

Trump annuncia dazi del 104% alla Cina

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Ieri sera, a poche ore dall’entrata in vigore delle «tariffe reciproche» degli Stati Uniti su tutti i Paesi del mondo, il presidente statunitense Trump ha annunciato una misura aggiuntiva sui prodotti in entrata dalla Cina pari all’84%. La tariffa aggiuntiva, entrata in vigore oggi, va così ad aggiungersi a quella del 20% già attiva, portando i dazi sui prodotti cinesi al 104%. La scelta di Trump arriva dopo le contromisure prese da Pechino, che ha annunciato l’imposizione di dazi del 34% su tutti i prodotti d’importazione statunitensi. Trump ha detto che la tariffa rimarrà in vigore finché la Cina non ritirerà la sua tariffa sui prodotti statunitensi.

La Colombia muove passi sulla via della pace con i gruppi ribelli

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Il processo di "pace totale" promosso dal governo di Gustavo Petro ha recentemente registrato un passo in avanti: nel dipartimento di Nariño, nel sud-ovest della Colombia, il gruppo armato Comuneros del Sur, dissidenza locale dell’ELN (Esercito di Liberazione Nazionale), ha consegnato al governo colombiano 585 artefatti esplosivi, tra cui mine antiuomo, mortai e granate, con la promessa di cedere il resto nei prossimi mesi. L'esercito statale ha immediatamente distrutto l’arsenale. La consegna delle armi segna solo l'inizio di un impegno molto più profondo. Con l'accordo firmato, Comuneros del...

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Umiliazioni agli attivisti: Extinction Rebellion denuncia le questure di Roma e Brescia

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Gli attivisti del movimento ambientalista Extinction Rebellion hanno sporto denuncia contro le questure di Roma e di Brescia, accusandole di «sequestro di persona», «perquisizioni degradanti e arbitrarie» e «violenza privata». Le accuse fanno riferimento a due distinti episodi: il primo, avvenuto nel novembre 2024 in Piazza del Viminale, a Roma, in cui «75 persone erano state prelevate con la forza e rinchiuse nell’Ufficio Immigrazioni della Questura per 10 ore»; il secondo, a gennaio 2025, in occasione di una manifestazione contro Leonardo a Brescia, quando «17 persone erano state portate in Questura per 8 ore e alcune di loro erano state fatte spogliare integralmente». La scelta di denunciare le questure arriva in risposta ai sempre più frequenti episodi di repressione che hanno interessato il gruppo e analoghe sigle ambientaliste, a pochi giorni dall’approvazione del Decreto Sicurezza, che criminalizza ancora di più le lotte ecologiste.

«Avviamo due azioni legali per difendere il diritto al dissenso e garantire il rispetto delle libertà fondamentali». Sono queste le parole usate dagli attivisti di Extinction Rebellion per spiegare le motivazioni dietro la loro denuncia contro le questure di Brescia e Roma. I fatti fanno riferimento a due episodi accaduti negli ultimi mesi. Il primo risale al 22 novembre 2024, a Roma, dove gli attivisti hanno svolto un sit-in in Piazza del Viminale, sotto il Ministero dell’Interno. In quell’occasione, «75 manifestanti erano stati prelevati con la forza e trasportati agli uffici della Questura di Roma, in via Teofilo Patini». Tuttavia, ricordano gli attivisti, «il trasferimento in Questura è previsto solo in caso di impossibilità di identificazione, circostanza che non si verificava quel giorno, dal momento che erano stati forniti i documenti di identità». Arrivati in Questura, gli attivisti sono stati trattenuti per 10 ore, «privati degli effetti personali» e «sottoposti a rilievi biometrici», senza che venisse redatto «alcun verbale che giustificasse quanto accaduto». Il secondo episodio si è invece verificato a Brescia lo scorso 13 gennaio. Anche in quell’occasione gli attivisti sono stati portati in Questura malgrado non si fossero rifiutati di collaborare con le autorità. Una volta negli uffici, poi, ad alcune manifestanti era stato ordinato di «spogliarsi completamente ed eseguire degli squat», i piegamenti sulle gambe, «una pratica umiliante prevista solo quando si abbia il legittimo sospetto che la persona nasconda armi o droga».

Le denunce verso le questure di Brescia e Roma arrivano a pochi giorni dall’approvazione del DL Sicurezza, il decreto legge che incorpora gran parte dell’omonimo disegno di legge. Con esso, il governo mette a punto diverse misure securitarie, molte delle quali mirate proprio a criminalizzare le pratiche dei movimenti ambientalisti. Tra di esse si annoverano l’introduzione del carcere fino a due anni per i blocchi stradali e l’aggravante per chi commette reati nelle stazioni ferroviarie e sui mezzi pubblici. In generale, nell’ultimo periodo, il tentativo di delegittimare le lotte dei movimenti ambientalisti si sta facendo sempre più stringente. Gli attivisti di Extinction Rebellion, in particolare, sono stati portati in tribunale in diverse occasioni, spesso accusati, a detta degli stessi giudici, arbitrariamente o attraverso misure caratterizzate da un vero e proprio eccesso di potere.

Colombia, ricercatore italiano ucciso e fatto a pezzi

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Il ricercatore italiano 42enne Alessandro Coatti è stato ucciso e fatto a pezzi nella città di Santa Maria, in Colombia. La testa e le braccia dell’uomo sono state rinvenute all’interno di una valigia, mentre altre parti del suo corpo sono state trovate in un’altra area, sempre dentro una valigia. Le forze dell’ordine sono risalite alla sua identità per un braccialetto di un ostello che aveva al polso. Coatti era uscito sabato sera per recarsi in un locale notturno, ma non aveva fatto ritorno. Era in Colombia per turismo, ma anche per studiare la specie di cui si occupava come biologo. Lavorava presso la Biological Society of London.

Elim, la città indigena in lotta contro le miniere d’uranio

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Una remota comunità Iñupiat nel nord-ovest dell’Alaska sta protestando da mesi contro un progetto di estrazione dell’uranio pianificato nei pressi delle proprie terre, denunciando il rischio di contaminazione delle acque, fondamentali per la salute, il cibo e lo stile di vita della popolazione. La società Panther Minerals prevede di avviare l’esplorazione dell’uranio nell’estate nei pressi delle sorgenti del fiume Tubuktulik, nei pressi di Elim, un villaggio Iñupiat la cui economia di sussistenza si basa principalmente sulla pesca e che attribuisce a quelle aree un valore culturale e spirituale profondo. Gli abitanti di Elim si oppongono al progetto sin dal 2024, manifestando forti timori per una possibile contaminazione radioattiva delle acque e del suolo, con conseguenze gravi per la salute. Intanto, nei pressi di Nome, non lontano da Elim, una compagnia canadese intende estrarre grafite nel bacino di Imuruk. Le comunità indigene si sono mobilitate da ogni angolo dell’Alaska per opporsi a quello che definiscono un nuovo attacco alla loro sopravvivenza. Ancora una volta, le popolazioni indigene si confermano all’avanguardia, in prima linea in un ecologismo autentico, radicato nel sociale, nella cultura e nella spiritualità. Un fenomeno che non riguarda soltanto il continente americano, ma che si osserva in ogni parte del mondo.

Nel vento freddo dell’Alaska occidentale, il villaggio di Elim si trova al centro di un acceso dibattito nazionale: fino a che punto hanno diritto di spingersi gli Stati Uniti per assicurarsi i cosiddetti minerali critici? Elim e Nome, comunità a maggioranza Iñupiat, come molte altre realtà indigene dell’Alaska, dipendono dalle risorse ittiche della regione, e quei territori rappresentano un tempio di cultura, spiritualità e tradizioni. Panther Minerals prevede di avviare l’estrazione di uranio nei pressi delle sorgenti del fiume Tubutulik, mentre nei pressi di Nome, non lontano da Elim, la società canadese Graphite One intende costruire una vasta miniera di grafite alla base delle montagne Kigluiak, nel bacino di Imuruk. L’amministrazione dell’ex presidente Donald Trump ha promosso una spinta estrattivista con lo slogan «Drill, baby, drill». In Alaska si estrae di tutto: petrolio, gas, minerali. Questa è la regione artica degli Stati Uniti, oggi al centro delle strategie di difesa nazionale, sotto molteplici aspetti. Ne abbiamo parlato nell’articolo pubblicato sul secondo numero del mensile de L’Indipendente, in cui si analizzava il rilievo geostrategico assunto dall’Artico.

Le miniere di uranio sono ormai note per la produzione di polveri radioattive e per il deflusso tossico di scorie che contaminano suolo e acqua. Le popolazioni indigene temono che l’esplorazione dell’uranio possa sfregiare la terra in modo analogo alle profonde ferite lasciate sulle terre della Nazione Navajo. Come ampiamente documentato, tra Arizona, Nuovo Messico e Utah, l’estrazione dell’uranio iniziata negli anni Cinquanta ha scatenato un’epidemia di tumori tra le comunità locali. Molti uomini lavoravano in quelle miniere, attratti da un salario in un contesto socioeconomico disastroso, come accade tuttora nella maggior parte delle comunità indigene degli Stati Uniti, comprese quelle dell’Alaska. Entrambi i progetti minerari, pur rappresentando una possibile opportunità in un contesto di profonda disoccupazione, minacciano la pesca e la caccia di sussistenza, oltre alla distruzione di siti sacri. Le comunità dell’Alaska, come Elim, denunciano la carenza di protezioni federali, una supervisione ambientale insufficiente e il disprezzo per il consenso delle popolazioni indigene. Diversi gruppi nativi dell’Alaska si sono uniti per opporsi a quello che considerano un nuovo attacco alla terra, alla cultura, all’economia, alla natura e alla spiritualità. Un ulteriore colpo inferto a un corpo nativo già storicamente smembrato dal genocidio.

Non è un caso che le popolazioni indigene nel Nordamerica come nel Sudamerica, in Africa come in Asia, siano l’avanguardia, la prima linea di un ecologismo che conosce e riconosce le connessioni tra questioni ecologiche, economiche, sociali e spirituali. Su L’Indipendente ne abbiamo parlato spesso. Sempre negli Stati Uniti rispetto alla lotta contro il DAPL, così come gli Hongana Manyawa, uno dei pochi popoli cacciatori-raccoglitori nomadi rimasti in Indonesia, e la loro cacciata del colosso chimico tedesco BASF, in partnership con la francese Eramet, per la raffinazione di nichel e cobalto estratti dalla Weda Bay Nickel. Stesse dinamiche in Africa, tra estrazioni ma anche mercato dei crediti di carbonio. Così come nel Nord, anche in Sudamerica è la stessa cosa. Perché i popoli indigeni non hanno intenzione di arrendersi al capitalismo e conservano la propria memoria, cultura, tradizioni, spiritualità e luoghi sacri. E per questo sono popolazioni che, ancora una volta, vengono prese di mira.

Non è un caso che le popolazioni indigene, dal Nord al Sudamerica, dall’Africa all’Asia, rappresentino l’avanguardia di un ecologismo capace di riconoscere le connessioni tra dimensioni ambientali, economiche, sociali e spirituali. Su L’Indipendente ne abbiamo scritto più volte. Negli Stati Uniti, ad esempio, in riferimento alla lotta contro il DAPL, oppure nel caso degli Hongana Manyawa, uno degli ultimi popoli cacciatori-raccoglitori nomadi dell’Indonesia, che hanno respinto il colosso chimico tedesco BASF, in partnership con la francese Eramet, coinvolto nella raffinazione di nichel e cobalto estratti dalla Weda Bay Nickel. Dinamiche analoghe si ripetono in Africa, tra operazioni estrattive e mercato dei crediti di carbonio. E, come nel Nord, anche in Sudamerica accade lo stesso. I popoli indigeni non intendono arrendersi al capitalismo e custodiscono memoria, cultura, tradizioni, spiritualità e luoghi sacri. È per questo che continuano a essere presi di mira.