sabato 6 Settembre 2025
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Prima vittoria dei movimenti per la casa: la Catalogna regolamenta gli affitti stagionali

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BARCELLONA – Prima vittoria per i movimenti catalani per il diritto alla casa. Il 9 aprile, dopo tre giorni dalle grandi manifestazioni che hanno visto centomila persone radunarsi a Barcellona per esprimere il proprio dissenso contro la crisi immobiliare che sta interessando la città e l’intero territorio spagnolo, il governo catalano ha approvato un pacchetto di misure finalizzato ad arginare alcuni limiti della Ley de Vivienda. «Quando noi ci muoviamo, li facciamo muovere», con queste parole il Sindicat de Llogateres (Sindacato degli inquilini), entità organizzatrice della manifestazione del 5 aprile, ha commentato l’accordo approvato dal parlamento catalano la mattina del 9 aprile. Il governo di minoranza del Partito Socialista Catalano (PSC), grazie all’appoggio dei partiti di sinistra dell’arco parlamentare Esquerra Republicana, CUP e Comuns, ha approvato una serie di normative atte a chiarificare il regime fiscale dei cosiddetti «alquiler de temporada» (affitti stagionali).  

Questa normativa impedisce così tutti gli escamotage attuati per eludere le forme di protezione già vigenti, dalla limitazione dei prezzi nelle zone «di tensione», al divieto delle tariffe onorarie delle agenzie immobiliari e di cifre spropositate per le caparre d’affitto. Alla legge del 2007 viene aggiunta inoltre una definizione dei contratti fraudolenti, facendo rientrare «qualsiasi tipo di accordo ingannevole atto a vulnerare i diritti dei consumatori o alteri l’equilibrio contrattuale».

L’accordo si caratterizza inoltre per l’integrazione di nuove figure atte a verificare le condizioni d’esecuzione della legge. Vengono così introdotti gli “inspectores de vivienda” (ispettori della casa), incaricati di verificare il compimento contrattuale, realizzare supervisioni, scovare frodi o clausole abusive, oltre che elaborare rapporti proponendo misure correttive o sanzioni. 

La nuova legge, che rimette in piedi un decreto approvato dal precedente governo di Esquerra Republicana e affossato l’estate scorsa dal partito indipendentista Junts, con l’astensione dello stesso PSC, ha visto la collaborazione dell’arco di sinistra unito, compreso il partito della CUP, l’estrema sinistra indipendentista catalana, generalmente molto critico con le politiche dei socialisti catalani. Totalmente contraria la destra, composta dai partiti spagnolisti PP e VOX e dagli indipendentisti Junts e Aliança Catalana.

Per quanto segni una piccola vittoria, quest’accordo soddisfa solo parzialmente le richieste mosse dal Sindicat de Llogateres. «È necessario che questa legge venga attuata il prima possibile» segnala il Sindacato sul suo profilo X, «non va dimenticato che il dissenso delle mobilitazioni andava molto più in là». Dal palco della manifestazione del 5 aprile, le varie entità attive per la causa hanno espresso chiaramente le soluzioni da attuare per mettere fine al business immobiliare. Abbassare le tariffe del 50%, ottenere contratti d’affitto a tempo indeterminato, proibire l’accumulo di edifici a fini speculativi, sono solo alcune delle proposte che, secondo il sindacato, metterebbero la parola fine alla crisi che sta colpendo con sempre più forza le classi più vulnerabili della società.

Quanto votato al Parlamento catalano risulta essere un primo passo verso l’attuazione di politiche volte a cercare di invertire gli effetti nocivi che la speculazione immobiliare ha verso i ceti popolari e chi – in generale – è costretto a vivere in affitto. Nonostante tutto, rimane alta la percezione di sfiducia nei confronti del Partito Socialista Catalano al governo: il giorno dopo aver approvato questo decreto, il PSC, insieme a Junts, VOX, Partido Popular e Aliança Catalana hanno presentato al governo l’intenzione di imporre politiche più dure contro le occupazioni abitative, approvando la proposta di riforma del Codice penale e permettendo così sgomberi in un giorno. Va inoltre ricordato che sempre il Partito Socialista Catalano al governo della città di Barcellona ha più volte operato ambiguamente a riguardo, da un lato approvando misure farsa contro la turistificazione, dall’altro incriminando con maggiore durezza manifestanti per il diritto alla casa, spendendo grandi capitali delle casse pubbliche nell’organizzazione di eventi, mostrando l’intenzione di ampliare le infrastrutture di ricezione turistica e di conseguenza accelerare i processi speculativi nella capitale catalana.

«Continueremo ad essere organizzate e a mobilitarci, finché non ci saremo guadagnate tutto» chiosano dal Sindacato. Se le misure approvate nel parlamento catalano vogliono essere una panacea ad un problema profondo e sistemico, sembra proprio che la resistenza popolare continuerà a lottare per estirpare la speculazione fin dalla radice.

Si dimette l’ambasciatrice americana in Ucraina

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L’ambasciatrice americana in Ucraina, Bridget Brink, ha deciso di lasciare il suo ncarico. La notizia è stata anticipata dagli organi di informazione statunitense e poi confermata dalla portavoce del dipartimento di Stato. Brink era stata nominata dall’ex presidente USA Joe Biden nella primavera del 2022, a poche settimane dall’invasione russa in Ucraina. Le dimissioni arrivano mentre le relazioni tra Stati Uniti e Ucraina hanno subito un notevole peggioramento dall’inizio della presidenza di Donald Trump. Russia e Stati Uniti continuano sulla via del dialogo bilaterale: ieri hanno effettuato uno scambio di prigionieri all’aeroporto di Abu Dhabi.

Nel 2024 oltre il 40% dell’elettricità globale è stata prodotta da fonti rinnovabili

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Lo scorso anno il 40,9% dell’elettricità mondiale è stato prodotta utilizzando fonti di energia non proveniente da fonti fossili, andando a far registrare un nuovo record. Lo rivela uno studio intitolato Global Electricity Review, prodotto dal centro studi sull'energia globale Ember sulla base dei dati provenienti dagli 88 Paesi maggiormente consumatori di energia elettrica, che coprono il 93% della domanda elettrica globale. Il motore principale della crescita è rappresentato dalle energie rinnovabili, che nel 2024 hanno registrato un incremento di 858 terawattora (TWh) rispetto all’anno prec...

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Dazi, Casa Bianca: aliquota reale al 145% per la Cina

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I dazi di Trump contro la Cina sono complessivamente al 145%. Lo ha riportato il canale statunitense Cnbc citando fonti della Casa Bianca, secondo le quali il 125% di tariffe reciproche annunciato dal presidente USA si va a sommare al 20% di dazi imposti in precedenza per il fentanyl (oppioide prodotto da sintesi chimica, ndr). Significativi gli effetti sulle borse statunitensi: il Dow Jones perde il 5,37% a 38.438,20 punti, il Nasdaq arretra del 7,14% a 15.912,67 punti mentre lo S&P 500 lascia sul terreno il 6,10% a 5.124,04 punti. In forte rialzo invece le borse europee, dopo la notizia arrivata ieri della sospensione dei dazi reciproci – Cina esclusa – per 90 giorni.

Perché la sentenza su Filippo Turetta è importante, anche senza l’aggravante di crudeltà

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A suscitare la maggior parte delle critiche sono state, in particolare (complici titoli giornalistici clickbait e interpretazioni frettolose), le motivazioni in base alle quali alle azioni di Turetta non è stata riconosciuta l’aggravante della crudeltà. Un fatto che ha rapidamente catalizzato l’opinione pubblica su una questione che, come vedremo, è molto più tecnica e meno vergognosa di quanto si potrebbe pensare. In questo modo, però, si è distolta l’attenzione da altri punti che rendono di fondamentale importanza la sentenza che ha condannato Filippo Turetta all’ergastolo per aver ucciso con 75 coltellate l’ex fidanzata Giulia Cecchettin, l’11 novembre 2023. «Proprio perché non aveva più alcuna speranza e aveva colto l’ineluttabilità dell’allontanamento di Giulia, Filippo Turetta ha elaborato il piano omicida»: è qui il succo di una sentenza che, anche grazie al contraccolpo della vicenda sull’opinione pubblica, appare destinata a costituire un importante precedente nella giurisprudenza, sancendo in maniere netta le «motivazioni futili» alla base del femminicidio di Giulia Cecchettin: non un “raptus”, non un “eccesso di passione”, non il “troppo amore” – come spesso vengono derubricati questi delitti – ma la volontà di controllo, da parte dell’omicida, sulla vita e sulle scelte della donna che considerava propria.

A Giulia sono state inflitte 75 coltellate, alcune delle quali hanno raggiunto degli organi vitali, determinandone così la morte. Pur trattandosi di un numero incredibilmente alto, la Corte spiega che non esiste una soglia di colpi oltre il quale si possa automaticamente parlare di crudeltà. La differenza risiede proprio nel discostarsi del linguaggio tecnico giuridico da quello comune, in uso tutti i giorni. La lunga serie di colpi inferti da Turetta non era un modo, spiegano i giudici, «per crudelmente infierire o fare scempio della vittima». Giulia è stata colpita «quasi alla cieca»: una dinamica non determinata «da una deliberata scelta dell’imputato», quanto piuttosto «dall’inesperienza e dall’inabilità dello stesso». Il ragazzo «non aveva la competenza e l’esperienza per infliggere sulla vittima colpi più efficaci, idonei a provocare la morte della ragazza in modo più rapido e “pulito”, così ha continuato a colpire, con una furiosa e non mirata ripetizione dei colpi, fino a quando si è reso conto che Giulia “non c’era più”». Turetta, insomma, non voleva accanirsi sul corpo di Giulia per prolungarne le sofferenze, ma non era in grado di stabilire il numero di colpi sufficienti a ucciderla.

La condanna contro Turetta non si configura come femminicidio per il semplice fatto che la fattispecie è stata introdotta nel nostro ordinamento solamente il 7 marzo scorso, dopo un vuoto legislativo durato anni, e non ha valore retroattivo. Il reato definito fa riferimento al «delitto commesso da chiunque provochi la morte di una donna per motivi di discriminazione, odio di genere o per esercitare l’esercizio dei suoi diritti e l’espressione della sua personalità». Quando si parla di femminicidio, dunque, non ci si riferisce affatto a una questione puramente ideologica, ma a una precisa e (ora) concreta fattispecie giuridica radicata in un contesto specifico, che porta con sé i retaggi della cultura patriarcale, intesa come un sistema di valori che assegna agli uomini potere di controllo sulle donne percepite come di proprietà. Il femminicidio è l’uccisione di una persona di genere femminile motivato dalla volontà di punire una donna che si ribella a una qualche forma di controllo esercitata dall’uomo. Si tratta di qualcosa di ben diverso dall’uccisione di una persona nell’ambito di una rapina, di una rissa o di qualsiasi altra azione violenta, che non trova corrispondenze a ruoli invertiti. E per questo reato specifico la normativa prevede una pena specifica: l’ergastolo.

Il prolungato mancato riconoscimento di un reato specifico, insieme alla retorica emergenziale che da sempre accompagna la narrazione del fenomeno, hanno impedito la messa in pratica di interventi strutturali volti a porre rimedio una volta per tutte a una problematica che riguarda l’intera società. Per averne la conferma basta guardare ai dati: secondo l’Istat, un numero compreso tra l’80 e il 90% degli omicidi di donne avvenuti negli ultimi anni sono femminicidi (o presunti tali, dal momento che fino a un mese fa la fattispecie di reato non esisteva nel nostro Paese).

Di fatto, l’unica iniziativa proposta dall’attuale esecutivo è stata, ancora una volta, offrire una soluzione di natura penale a un problema di ordine sociale e culturale. Poche settimane prima dell’introduzione del reato di femminicidio (proprio alla vigilia della festa della donna), il governo ha pensato bene di dirottare i fondi destinati all’educazione affettiva sulla formazione sull’infertilità. I cinquecentomila euro che sarebbero serviti per educare bambini e ragazzi al rispetto dei diritti umani, della parità dei sessi, al concetto di consenso e a un rapporto sano con la sessualità saranno impiegati per fornire «moduli informativi rivolti agli insegnanti delle scuole secondarie di primo e secondo grado per aggiornare su contenuti su eventi educativi e corsi di informazione e prevenzione prioritariamente riguardo alle tematiche della fertilità maschile e femminile, con particolare riferimento all’ambito della prevenzione della infertilità».

Le motivazioni della sentenza hanno avuto un effetto divisivo sul mondo dell’attivismo contro la violenza di genere. Se c’è chi, come la sorella di Giulia, si è mostrato profondamente deluso e preoccupato dalle scelte dei giudici, in particolare per quanto riguarda il mancato riconoscimento della crudeltà, c’è anche chi sottolinea come in questo modo Turetta non possa essere riconosciuto come “il mostro”, “l’eccezione”, ma come il prodotto di una cultura distorta, ancora profondamente radicata nella nostra società.

Nel 2024 l’Italia ha esportato armi per oltre 7,6 miliardi di euro

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Nel 2024, l’Italia ha aumentato le proprie esportazioni di armi del 22,58%. I dati provengono dal nuovo rapporto sull’esportazione militare trasmesso al Parlamento, che rivela che l’anno scorso le licenze rilasciate per il trasferimento di materiali d’armamento (sia in entrata che in uscita) sono state pari a 8,69 miliardi di euro. Di questi, 7,6 miliardi sono finiti nelle casse del Belpaese tramite le autorizzazioni di esportazione. Crescono, in particolare, le autorizzazioni individuali di esportazione, rivolte verso singoli Paesi per sistemi d’arma specifici, che trainano l’export italiano arrivando a valere 6,45 miliardi di euro. I dati della relazione rispecchiano l’ultimo rapporto dell’Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma (SIPRI), uno dei più importanti centri di ricerca sulla pace al mondo, secondo cui l’Italia sarebbe diventata il sesto Paese per esportazioni di armi su scala globale.

Il rapporto sull’export militare è stato trasmesso al Parlamento lo scorso 24 marzo. L’anno scorso il valore totale dell’esportazione militare italiana, considerate anche le intermediazioni – ossia le autorizzazioni rilasciate alle aziende che fungono da intermediarie tra produttore ed acquirente – è stato pari a 7,94 miliardi di euro, mentre le importazioni, escluse le movimentazioni intracomunitarie, hanno raggiunto 743 milioni di euro. Nel 2024, l’Italia ha esportato armi a 90 Paesi, dato in aumento rispetto agli 83 del 2023. L’Indonesia, che nel 2023 risultava al 35º posto, si trova ora al primo posto per il valore delle autorizzazioni rilasciate, per via di un accordo con Fincantieri da oltre un miliardo di euro. Il Paese del Sud-est asiatico risulta l’unico a superare il miliardo in importazioni di armamenti dall’Italia, ed è seguito da Francia e Nigeria, rispettivamente con 591 milioni e 480 milioni di euro. In generale, l’Italia ha iniziato a spedire più armi verso Paesi extra-UE ed extra-Nato, che oggi ricevono il 55,9% delle esportazioni di materiale bellico italiano. Nella lista non compare Israele, perché, a causa del genocidio a Gaza, non è stato oggetto di alcuna nuova licenza; le esportazioni verso lo Stato ebraico, tuttavia, non si sono fermate, poiché le autorizzazioni antecedenti al 7 ottobre non sono decadute. A trainare le esportazioni italiane sono Leonardo, con il 27,67% delle autorizzazioni ricevute, e Fincantieri, con il 22,62%. I materiali, invece, guidano la classifica degli oggetti esportati sia per valore complessivo sia per numero di articoli (81,31%), e sono seguiti dalle tecnologie (11,97%), dai servizi (3,38%) e dai ricambi (3,34%).

I dati della Relazione annuale sono in linea con l’ultimo rapporto del SIPRI sul commercio globale di armi. Secondo l’Istituto, nel periodo 2020-2024, l’Italia ha registrato un maxi-aumento del volume di esportazioni di armi in relazione alle esportazioni globali, pari al 138% rispetto al quinquennio precedente. Con questo aumento, l’Italia si piazza al sesto posto della classifica dei maggiori esportatori, con una quota del 4,8% del commercio globale. Questo incremento rappresenta il maggiore tra tutti i primi dieci esportatori mondiali, indicando un’espansione significativa dell’industria bellica italiana. I principali destinatari delle esportazioni italiane sono stati il Qatar (28%), l’Egitto (18%) e il Kuwait (18%).

Regno Unito, arrestato il co-direttore nazionale di Greenpeace

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La polizia britannica ha arrestato Will McCallum, co-direttore di Greenpeace per il Regno Unito, insieme ad altri quattro attivisti per aver compiuto un’azione dimostrativa presso l’ambasciata statunitense. I cinque hanno versato 300 litri di colorante rosso in un laghetto all’interno dell’edificio per simboleggiare il sangue delle vittime palestinesi e protestare contro la vendita di armi da parte degli USA a Israele. McCallum e gli attivisti erano precedentemente riusciti a entrare nell’ambasciata travestiti da fattorini; Greenpeace ha dichiarato che McCallum è stato arrestato con l’accusa di associazione a delinquere a fini di danneggiamento, reato che prevede una pena massima di 10 anni di carcere.

Abbattimento di 1.200 caprioli: il Tar condanna la Provincia di Asti a risarcire la LAV

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Un piano di abbattimento straordinario per eliminare oltre 1.200 caprioli, la sospensione degli interventi grazie ai ricorsi degli animalisti e ora una condanna all’ente che quel piano lo aveva varato: con una pronuncia salutata con entusiasmo dagli animalisti, il TAR del Piemonte ha condannato la Provincia di Asti a rimborsare le spese legali sostenute dalla LAV (Lega Anti Vivisezione), sancendo l’illegittimità del piano, considerato scaduto lo scorso 31 marzo. È l’epilogo di una lunga battaglia giudiziaria che ha visto emergere criticità profonde nella gestione faunistica del territorio. Ma la partita resta aperta, con il consigliere delegato alla caccia che annuncia la definizione di un nuovo piano di contenimento da sottoporre al consiglio provinciale.

Il caso è nato a marzo 2024, quando la Provincia di Asti aveva varato un “Piano straordinario e speditivo di contenimento delle popolazioni stabili di capriolo”, prevedendo l’abbattimento di 1.240 animali. Immediate erano scattate le proteste della LAV, che si era rivolta al TAR ottenendo per due volte la sospensione del provvedimento. La battaglia legale si è al momento conclusa con il riconoscimento della fondatezza delle ragioni animaliste. Massimo Vitturi, responsabile nazionale dell’Area Animali Selvatici della LAV, ha commentato con soddisfazione la sentenza, parlando di una «pietra tombale sulle velleità animalicide della Provincia». Secondo l’associazione, il piano provinciale era basato su dati non comprovati scientificamente: solo otto delle quarantuno aree censite nel 2023 riportavano infatti danni all’agricoltura attribuibili ai caprioli, e non vi erano riscontri oggettivi sugli incidenti stradali invocati come giustificazione. Particolarmente grave, per la LAV, il fatto che il piano fosse stato approvato senza acquisire il necessario parere dell’ISPRA, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, che la normativa richiede obbligatoriamente quando si dispone l’abbattimento di animali selvatici.

Dal canto suo, la Provincia di Asti, per bocca del consigliere delegato alla caccia Davide Migliasso, ha difeso il proprio operato spiegando che l’ente non si occupa direttamente della caccia, bensì del contenimento della fauna per preservare l’equilibrio ecosistemico e proteggere agricoltura e sicurezza pubblica. Migliasso ha affermato che i caprioli causano danni significativi alle coltivazioni, specialmente nelle zone vitivinicole, e aumentano il rischio di incidenti stradali. Ha inoltre annunciato che, nonostante la battaglia delle associazioni animaliste e delle recenti sentenze dei giudici amministrativi, l’ente è intenzionato a portare avanti il suo programma di abbattimento. «Non possiamo e non vogliamo sottrarci al ruolo necessario di vigilanza e azione per il contenimento – ha dichiarato Migliasso –. I nostri agenti faunistici hanno già svolto una prima parte di un censimento delle presenze e sono alle prese con la seconda tranche che si concluderà a fine aprile. Subito verrà predisposto un nuovo piano di contenimento da far approvare in massima urgenza in consiglio».

Nonostante le giustificazioni istituzionali e il nuovo slancio per un altro piano di abbattimento, il giudizio del TAR è chiaro: la gestione del problema da parte della Provincia di Asti è risultata carente dal punto di vista tecnico e giuridico. La LAV, assistita dallo studio legale Fenoglio-Callegari di Torino, ha ribadito che continuerà a vigilare sull’operato delle amministrazioni locali, pronta a intervenire per impedire nuovi piani di contenimento privi dei requisiti scientifici e normativi previsti dalla legge.

Il rigassificatore di Ravenna non ha nulla di sostenibile, nonostante i proclami

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Nei giorni scorsi, il ministro dell’Ambiente, Gilberto Pichetto Fratin, si è recato in visita presso il rigassificatore di Ravenna insieme al presidente dell’Emilia Romagna, Michele de Pascale. Nel corso della visita, non si è persa occasione per sottolineare quanto l’infrastruttura costituisca una «sicurezza» per l’Italia, permettendo di aumentare la capacità di accumulo di gas e diversificare le fonti di approvvigionamento energetico – ora non più russo, ma americano. Tuttavia, mentre da un lato non vi è certezza che il GNL qui rigassificato rimanga in Italia (potrebbe essere venduto in Europa al miglior offerente), i costi ambientali dell’opera sono imponenti: per denunciarlo, i comitati ambientalisti hanno indetto una grande manifestazione di protesta per il prossimo sabato 12 aprile.

Una piattaforma con una capacità annua di 5 miliardi di metri cubi di gas, che viene estratto dall’altra parte del mondo, poi liquefatto, trasportato per migliaia di chilometri via mare e infine riconvertito nell’impianto appena costruito al largo delle coste ravennati, per essere immesso nella rete Snam, a disposizione del miglior offerente, italiano o estero che sia. Sul pontile della struttura, uno striscione recita a grandi lettere: «Per un futuro sostenibile». Questo è il rigassificatore di Ravenna, il grande impianto realizzato in fretta e furia nel 2022, dopo che l’Italia ha chiuso i rubinetti del gas russo a seguito dell’invasione dell’Ucraina. Un progetto approvato in tempi record – appena 120 giorni per le autorizzazioni – e che ora è pronto ad avviare ufficialmente la produzione. La prima nave carica di gas, la Flex Artemis, è arrivata lo scorso 4 aprile dagli Stati Uniti con un carico di GNL americano. «Ora lo stiamo usando per calibrare gli strumenti» – spiega Elio Ruggeri di FSRU Italia, la società che gestisce il rigassificatore per conto di Snam – «ma tra pochi giorni saremo pienamente operativi».

È per questo che martedì si è svolta la visita del ministro dell’Ambiente, Gilberto Pichetto Fratin, che, accompagnato dall’amministratore delegato di Snam e dal presidente della Regione Emilia-Romagna, Michele de Pascale, si è concesso una gita in barca per osservare da vicino la grande struttura di cemento e acciaio destinata – secondo i promotori – a salvare l’Italia dalla crisi energetica: «Con questa grande nave il Paese è in sicurezza» ha affermato il ministro una volta sceso dalla barca, rallegrandosi del fatto che l’Italia torni così a raggiungere i 28 miliardi di metri cubi annui di capacità di accumulo di gas, lo stesso livello che aveva prima della guerra in Ucraina.

«Con l’avvio del terminale di Ravenna continuiamo a diversificare le nostre fonti di approvvigionamento, migliorando la resilienza del sistema energetico italiano» ha dichiarato l’AD di Snam, Stefano Venier. «Sicurezza degli approvvigionamenti, economicità dei costi, sostenibilità ambientale ma anche sociale» – ha aggiunto imperativamente De Pascale. «Sostenibilità, sicurezza, diversificazione, resilienza». Parole d’ordine che tornano ciclicamente ogni volta che si parla di una struttura che, al di là dei proclami, di sostenibile ha ben poco.

La crisi con la Russia poteva rappresentare un’occasione per dirigere il Paese verso nuove strade nel soddisfacimento del fabbisogno energetico, potenziando ad esempio lo sviluppo delle fonti rinnovabili. Si è invece deciso di investire ancora di più in un sistema che ci mantiene dipendenti dal gas: non più russo, ma americano, con costi più elevati e un impatto ambientale maggiore rispetto a quello dei metanodotti. Il tutto alla modica cifra di 1 miliardo di euro. Come se non bastasse, il gas rigassificato non resterà necessariamente in Italia: una volta introdotto nella rete nazionale, potrà essere indirizzato anche verso altri Paesi del Nord Europa, a seconda di chi si aggiudicherà le navi di GNL all’asta. È anche per questo che proprio a Ravenna, sabato, si terrà una manifestazione nazionale di protesta contro le fonti fossili, intitolata Usciamo dalla camera a gas.

A destra, l’amministratore delegato di Snam, Stefano Venier, al centro il presidente della Regione Emilia-Romagna Michele De Pascale, e a sinistra il ministro dell’ambiente e della sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin

«Qui siamo invasi dall’economia fossile» – spiega a L’Indipendente Pippo Tadolini, coordinatore del comitato Per il clima, fuori dal fossile – «A Ravenna non c’è solo il rigassificatore, ma anche in costruzione un grande tratto del gasdotto della Linea Adriatica, la proposta di ampliare le trivellazioni e il progetto, in fase sperimentale, dello stoccaggio in mare della CO₂. Insomma, siamo diventati una zona di sacrificio per gli interessi del settore oil & gas».

Proprio a Ravenna si è tenuto, dall’8 al 10 aprile, OMC Med Energy, il vertice del settore estrattivo del Mediterraneo: «Un luogo dove si parla in maniera roboante di transizione ecologica, sostenibilità e decarbonizzazione, ma da cui si esce sempre con un rafforzamento dei progetti fossili e un aumento dei profitti del settore» osserva Tadolini. L’evento è stato inaugurato martedì mattina proprio dal ministro Pichetto Fratin, che ha illustrato il suo mix energetico per l’Italia, inserendovi un po’ di tutto: eolico, fotovoltaico, idroelettrico, geotermico e persino nucleare. Subito dopo, però, si è recato a rendere omaggio alla nuova cattedrale del gas fossile.

«Noi abbiamo organizzato un vero e proprio controconvegno – continua Tadolini – con appuntamenti per tutta la settimana, fino ad arrivare alla manifestazione di sabato, con la quale chiediamo che si inizi finalmente a delineare una road map per l’uscita dalle fonti fossili, verso un modello realmente sostenibile. Il trend del consumo di gas metano è in costante diminuzione, mentre qui si continua a investire sulle fonti fossili, togliendo al contempo i sussidi alle energie alternative».

Proprio parlando di energie alternative: a poca distanza dal rigassificatore, sempre al largo delle coste ravennati, dovrebbe sorgere Agnes, un grande parco eolico in grado di produrre energia pulita per mezzo milione di persone. Se ne parla da anni, ma il progetto è ancora bloccato da permessi, bandi, aste e iter autorizzativi lunghissimi. «Per autorizzare il rigassificatore ci hanno messo 120 giorni» – conclude Tadolini, con amara ironia – «ce ne vogliono di più per aprire un chiosco di piadine».

Nei richiami dei bonobo alcuni scienziati hanno decodificato i principi di un linguaggio

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Nei richiami dei bonobo, tra i primati considerati i parenti più stretti dell’uomo, c’è un principio chiave del linguaggio unico e mai esplorato così approfonditamente fino ad oggi: è quanto emerge dal lavoro di un team di ricercatori delle Università di Zurigo e Harward che, dopo aver analizzato centinaia di ore di registrazioni per anni, hanno dettagliato i loro risultati all’interno di un nuovo studio scientifico sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista scientifica Science. Secondo la ricerca, alcune combinazioni di suoni prodotte da questi primati sembrerebbero avere un significato diverso rispetto ai singoli richiami che le compongono, una caratteristica nota come “composizionalità”. Il tutto, secondo gli esperti, indicherebbe un’origine evolutiva molto antica per questa proprietà del linguaggio, anche se alcuni scettici non coinvolti nel lavoro chiedono maggiore prudenza e ulteriori conferme. D’altra parte, nonostante abbiano riferito che ulteriori esperimenti sono già in programma, gli autori ribadiscono che si tratta di una prova più robusta rispetto a tutti gli studi precedenti simili e che i risultati ottenuti potrebbero cambiare il modo in cui comprendiamo le origini della comunicazione umana.

I bonobo, come gli scimpanzé, sono tra i parenti più stretti dell’uomo. Sebbene noti per la loro struttura sociale cooperativa, sul piano linguistico finora non avevano mostrato segni evidenti di quella che gli esperti chiamano “composizionalità”, ossia la capacità di combinare elementi comunicativi semplici in messaggi più complessi, dotati di significato emergente. Questa proprietà è considerata essenziale per la creatività del linguaggio umano: se dire “cane nero”, infatti, è diverso da “cane” e da “nero” presi singolarmente, è perché il significato della frase nasce dall’interazione tra le sue parti. Negli anni, spiegano i ricercatori, alcuni studi avevano suggerito un inizio di questa abilità negli scimpanzé, ma il nuovo lavoro si distingue per l’approccio sistematico: oltre 330 ore di registrazioni effettuate in una riserva nella Repubblica Democratica del Congo, una classificazione dettagliata dei contesti comportamentali, e un’analisi statistica che ha confermato le teorie ipotizzate, ovvero capire se alcune combinazioni di suoni nei bonobo avessero un significato specifico, diverso dalla somma dei significati individuali.

I ricercatori hanno tracciato una sorta di “mappa semantica” dei richiami, simile a quelle usate per le parole nei modelli linguistici artificiali e hanno scoperto che, in quattro casi, le coppie di suoni risultavano significativamente distanti dai singoli elementi sulla mappa, suggerendo la presenza di un significato composto. Una di queste coppie, ad esempio, univa un richiamo acuto per attirare l’attenzione e un fischio grave associato a emozioni intense e, secondo la ricercatrice e coautrice Melissa Berthet, insieme sembrerebbero costituire una sorta di “chiamata d’aiuto”. «Sarebbe come dire: “Prestami attenzione perché sono in difficoltà”», ha spiegato. Lo studio, quindi, rafforza l’ipotesi che anche l’antenato comune tra umani e scimmie potesse possedere rudimenti di composizionalità, anche se non tutti, però, sono convinti: Johan Bolhuis dell’Università di Utrecht, per esempio, ha sostenuto che la ricerca non dimostra una vera sintassi, ma solo un accostamento di suoni. Townsend, tra gli autori, risponde precisando che quanto rilevato potrebbe dimostrare che in questo caso si tratti proprio del primo passo verso un linguaggio pienamente strutturato, emerso poi nei primi esseri umani. In tutti i casi, i ricercatori stanno già pensando al futuro e hanno annunciato che si potrebbe addestrare un modello di intelligenza artificiale a riconoscere i singoli richiami e testare se riesce a dedurne i significati delle combinazioni. Per ora, però, stando alle evidenze, l’ipotesi più suggestiva è che qualcosa di simile alla grammatica possa aver cominciato a emergere molto prima di quanto immaginassimo.