sabato 6 Settembre 2025
Home Blog Pagina 163

Il vero scopo del circo sui dazi messo in piedi da Trump: intervista a Giuliano Marrucci

3

Sin da quando il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump ha annunciato dazi sui prodotti in entrata da tutti i Paesi del mondo, il pianeta è entrato in una spirale di caos che rende difficile comprendere cosa stia succedendo. La scelta di autorizzare una sospensione di tre mesi per tutti, tranne che per la Cina ha reso ancora più criptica la situazione. Sono state abbozzate diverse interpretazioni per decifrare la strategia di Trump: il magnate pensava sin da subito di mettere sotto scacco la Cina? La scossa ai mercati e il saliscendi delle borse di tutto il mondo erano volute per permettere la speculazione interna? O forse Trump è solo quell’incomprensibile folle che viene descritto dalla stampa mainstream? Ne abbiamo parlato con Giuliano Marrucci: ex autore del programma televisivo Report e fondatore di Ottolina TV, Marrucci è autore di testi quali Il mito del dollaro (2024, scritto a quattro mani con Vadim Bottoni), L’economia geopolitica di Ottolina TV – Cronaca del fallimento della narrazione economica dominante e Cemento rosso – Il secolo cinese, mattone dopo mattone.

Partiamo dai fatti più recenti. Trump ha annunciato dazi nei confronti di tutto il mondo, per poi ritirarli nell’arco di un paio di giorni. Secondo lei si tratta di una strategia pianificata sin dal principio o è stato costretto a farlo? 

Assolutamente è stato costretto a farlo. I dazi sono stati calcolati dividendo la bilancia commerciale degli USA con un Paese per l’export statunitense in quello stesso Paese, dimezzando il risultato ottenuto. Si tratta di una manovra prettamente politica, che non ha niente di tecnico o economico nella sua valutazione. Il crollo delle borse non è stato affatto una sorpresa. Il punto è che, normalmente, quando crollano i mercati azionari i soldi finiscono nei mercati obbligazionari – ovvero, nella maggior parte dei casi, nei titoli di Stato USA. È successo nel 2008, nel 2001, nell’87… il risultato che Trump sperava di ottenere con l’emanazione dei dazi era che venissero comprati titoli del debito statunitense, così da farne crollare i rendimenti e permettere al Paese di pagare meno interessi sul loro gigantesco e inarrestabile debito. I primi giorni, effettivamente, la fuga dei capitali dai mercati azionari è andata in buona parte nei mercati obbligazionari e ha cominciato a diminuire il rendimento  dei titoli. Poi, però, questi hanno ricominciato a salire, tornando ai livelli precedenti. Per la prima volta, la fuga dai mercati azionari non ha causato un aumento dei titoli del debito statunitense. In questo modo gli Stati Uniti rischiano di andare in default e non riuscire a pagare i titoli di debito che sono in scadenza. Per questo Trump è stato costretto a fare un passo indietro.

Per quale motivo tagliarli a tutti meno che alla Cina?

Da oltre dieci anni, la Cina è il primo obiettivo degli Stati Uniti. Sia Trump, durante il suo primo mandato, che Biden hanno cercato di porre barriere protezionistiche nei confronti di Pechino, senza riuscirci. Le catene di approvvigionamento sono globali: pur riuscendo a ostacolare i rapporti diretti tra i due Paesi, le misure adottate dagli Stati Uniti non hanno ridotto l’export cinese, che è stato semplicemente rediretto verso altri Stati. Paradossalmente, in questo modo è stata incentivata l’integrazione della Cina con il resto del mondo, rendendola sempre più indispensabile per gli altri Paesi. Da qui, la necessità di imporre dazi su tutti. Non si può pensare di colpire la Cina con il solo protezionismo, se non vengono imposte barriere a tutto il resto del mondo. La speranza di Trump è di essere riuscito a dimostrare che è pronto a condurre una vera e propria guerra atomica commerciale di dimensioni mai viste. Quello degli ultimi giorni è un fenomeno senza precedenti in quanto a dimensioni: il Liberation day annunciato da Trump è il più grosso sconvolgimento del mercato internazionale della storia del capitalismo. Trump spera che la minaccia della scadenza dei 90 giorni sia sufficiente per imporre con la forza a tutti i Paesi vassalli di disallinearsi dalla Cina.

Ultimamente è emersa anche un’interpretazione secondo la quale Trump intendeva manipolare il mercato finanziario per sfruttarne il saliscendi e alimentare la speculazione interna. Una sorta di strategia di aggiottaggio.

Certamente qualcuno può essersi arricchito, ma non credo fosse quello l’obiettivo primario. Le vere ragioni sono strutturali.

Al netto di tutto questo, quindi, qual è l’obiettivo degli Stati Uniti?

È futile parlare di un singolo obiettivo. Ovviamente gli obiettivi sono molteplici, anche se ve ne sono alcuni gerarchicamente più importanti. Uno tra tutti è quello di industrializzare il Paese, che si trova strutturalmente in guerra con un pezzo di mondo in ascesa. E per fare la guerra bisogna produrre l’acciaio, i chip, le terre rare… bisogna insomma avere una base industriale comparabile a quella degli avversari. L’obiettivo di industrializzare gli Stati Uniti sta venendo perseguito da tempo, ma risulta particolarmente difficile raggiungerlo dopo che per 30-40 anni gli USA hanno basato tutto sulla finanza e sulla centralità e stabilità del dollaro. Dopo anni di tentativi, il declino industriale statunitense è continuato come niente fosse: per questo è stato necessario ricorrere a un’arma decisamente più potente. Serviva una shock therapy, una rivoluzione complessiva del meccanismo di accumulazione capitalistica globale nell’ordine di grandezza di quella avviata nel ‘71, quando il Paese ha abbandonato definitivamente il gold standard. Il passo successivo, se riuscisse ad abbassare un po’ il rendimento dei titoli, sarebbe quello di concedere ulteriori tagli fiscali per attirare investimenti negli Stati Uniti e quindi spostarli equilibrando un pochino la bilancia commerciale tra USA e Stati vassalli.

A proposito di politica protezionistica, si sta diffondendo una lettura della mossa di Trump secondo la quale i dazi potrebbero “rompere” la globalizzazione come la conosciamo noi oggi. Nell’ottica di quanto detto finora, cosa ne pensa?  

A mio parere la globalizzazione come l’abbiamo conosciuta è già finita. Al di là del fatto che ora i dazi sono sospesi, la misura di Trump rimane comunque un’operazione di protezionismo ultra violenta. Credo che quello che potrebbe succedere (e che vorrebbe Trump) è che il mondo venga diviso in aree di influenza. Al tempo stesso, Trump punta a ridurre quella cinese il più possibile alla sola Cina, rinchiudendola nel suo orticello. E se è abbastanza improbabile che la Cina ne esca pienamente sconfitta, non lo è pensare di poter ricostruire un impero su scala più ridotta, una sorta di nuova globalizzazione interna alla sfera di influenza degli Stati Uniti, ma dotata di regole più stringenti che permettano agli USA di reindustrializzarsi. La globalizzazione intesa come il sistema di regolazione internazionale di libera circolazione di capitali, merci e persone in tutto il mondo è finita.

In questo scenario non c’è il rischio che il dollaro (che sta già gradualmente venendo ridimensionato) perda il suo primato?

Sì, ma potrebbe continuare ad essere la valuta di riferimento di un impero che include non più tutto il mondo, ma un pezzo consistente. Considerata l’influenza diretta che gli Stati Uniti esercitano in Centro e Sud America, Europa, un pezzo di Asia e così via, è possibile che qui il dollaro rimanga la valuta di riferimento.

L’Europa cosa sta facendo e cosa potrebbe fare di fronte a questo scenario?

L’Europa non sta facendo niente. L’interesse sarebbe, ovviamente, quello di approfittare di questa situazione per prendere definitivamente consapevolezza del fatto che l’impero statunitense è in declino e che, nonostante l’uso della forza, non ha gli strumenti per piegare gli altri. Potrebbe sfruttare l’occasione per andare al tavolo con la Cina e muoversi per ridisegnare un nuovo equilibrio e un nuovo meccanismo di regolazione delle relazioni internazionali. Non è certamente una trattativa semplice, ma nessuno la sta facendo. Il problema è che ancora oggi, a livello di Unione Europea ci sono limitazioni per i contatti tra i parlamentari europei e quelli cinesi. Questa classe dirigente è stata selezionata per trent’anni sulla base della fedeltà incondizionata agli interessi delle oligarchie finanziarie. Oggi c’è da fare una scelta completamente diversa, che questa classe dirigente non è in grado di fare.

Strage bus Avellino: condanna definitiva a 6 anni per ex AD Autostrade per l’Italia

0

La Corte di Cassazione ha condannato in via definitiva a 6 anni di carcere l’ex AD di Autostrade per l’Italia (ASPI) Giovanni Castellucci, accusato di disastro colposo e omicidio colposo nel procedimento legato alla strage del 28 luglio del 2013, quando un bus precipitò dal viadotto dell’Acqualonga a Monteforte Irpino (Avellino), causando la morte di 40 persone. Per lui si aprono le porte del carcere. I giudici hanno confermato inoltre le condanne a 9 anni per il proprietario del bus, Gennaro Lametta, e a 4 anni per l’allora dipendente della motorizzazione civile di Napoli, Antonietta Ceriola. Diventano definitive anche le condanne per gli altri dirigenti e dipendenti del Tronco.

C’è una crepa nell’esercito israeliano: centinaia di riservisti chiedono la fine della guerra

1

Tutto parte da una lettera firmata da quasi mille soldati israeliani, tra riservisti in servizio e in pensione dell’aeronautica militare, in cui si chiede la fine della guerra a Gaza. Il documento esorta il governo a interrompere i bombardamenti, sostenendo che questi rispondano ormai a «interessi politici e personali» più che alla sicurezza nazionale. «La continuazione della guerra non avanza nessuno degli obiettivi dichiarati della guerra e porterà alla morte degli ostaggi, dei soldati dell’IDF e dei civili innocenti», si legge nella missiva. Una frattura evidente all’interno dell’esercito di Tel Aviv, che il governo si è affrettato a ricomporre con fermezza. L’IDF ha infatti annunciato l’immediato licenziamento dei firmatari ancora in servizio, decisione sostenuta dal premier Netanyahu, che ha accusato i militari dissidenti di essere pagati da potenze straniere, un’accusa ricorrente nei regimi autoritari per delegittimare l’opposizione. Ma la crepa sembra destinata ad allargarsi, dal momento che questa mattina è giunto il sostegno ai soldati dissidenti da parte di centinaia di riservisti della famigerata Unità 8200, la divisione d’élite dell’esercito israeliano specializzata nella guerra cibernetica.

La lettera è stata redatta da membri in pensione e riservisti attualmente in servizio dell’aeronautica militare israeliana. Il testo non si spinge a proclamare un rifiuto generalizzato di servire l’esercito, ma esorta il governo a dare priorità al rilascio degli ostaggi rispetto alla prosecuzione della guerra a Gaza. Secondo quanto riportato dal quotidiano Times of Israel, il comandante dell’aeronautica Tomer Bar ha incontrato in settimana diversi riservisti e veterani nel tentativo di bloccare la pubblicazione della lettera. Tutti i firmatari, ad eccezione di cinque, hanno sottoscritto con il proprio nome completo. Si stima che circa il 10% dei firmatari siano riservisti attivi. «Solo un accordo può restituire gli ostaggi in sicurezza. La continuazione della guerra non avanza nessuno degli obiettivi dichiarati della guerra e porterà alla morte degli ostaggi, dei soldati dell’IDF e dei civili innocenti», si legge nella missiva.

Nella lettera non si chiede esplicitamente la fine del conflitto né del genocidio in corso, né si fa riferimento alle sofferenze del popolo palestinese. A parte un vago riferimento ai civili, che non è nemmeno chiaro se si riferisca ai palestinesi, ci si concentra sulla salvezza e la liberazione degli ostaggi israeliani, come da mesi chiedono centinaia di migliaia di cittadini. La differenza sostanziale è che, in questo caso, a formulare tale richiesta è una parte dell’esercito, esercitando una pressione ulteriore sul governo. L’esecutivo ha risposto immediatamente promettendo una reazione dura e annunciando licenziamenti. E così è stato. Secondo quanto riportato dal quotidiano israeliano Haaretz, il capo di stato maggiore dell’esercito, Eyal Zamir, ha approvato il licenziamento di comandanti anziani e di circa 1.000 riservisti per aver chiesto la fine della guerra. Il primo ministro Benjamin Netanyahu, riferisce il Times of Israel, ha definito quella dei firmatari una piccola minoranza finanziata da organizzazioni che mirano a rovesciare il suo governo. Sul suo profilo X ha inoltre espresso pieno sostegno alla decisione del ministro della Difesa, Israel Katz.

Ma la lettera dei riservisti dell’aeronautica potrebbe essere stata solo la prima goccia. Come riporta oggi il Jerusalem Post, centinaia di ufficiali riservisti, soldati in servizio attivo e ufficiali in pensione dell’Unità 8200 hanno firmato una lettera analoga, con l’intenzione di renderla pubblica. «Ci identifichiamo con la grave e preoccupante affermazione che, in questo momento, la guerra serve principalmente interessi politici e personali, non interessi di sicurezza», hanno dichiarato gli ufficiali. Parallelamente, secondo quanto riferisce The New Arab, oltre 150 ex ufficiali navali israeliani hanno aggiunto la loro voce al crescente dissenso, chiedendo la fine immediata degli attacchi a Gaza e sollecitando la protezione dei prigionieri israeliani ancora detenuti nella Striscia, in mezzo a una nuova ondata di bombardamenti. Il governo Netanyahu manterrà la linea dura per spezzare il dissenso o dovrà scendere a compromessi per soddisfare la parte dell’esercito che vuole la fine delle ostilità? Ancora presto per dirlo e, aldilà delle dichiarazioni risolute di Netanyahu, è probabile che molto dipenderà da quante firme si aggiungeranno nei prossimi giorni. Di certo, dopo mesi di manifestazioni da parte della società civile (numerose ma sistematicamente ignorate), è ora parte dell’esercito a esercitare una nuova, e decisamente più forte, pressione sul governo israeliano.

Estonia, fermata una presunta nave russa

0

La marina militare estone ha annunciato di avere fermato e abbordato una petroliera diretta in Russia, presente nell’elenco delle navi sanzionate dall’Unione Europea. Le autorità hanno accusato la nave, chiamata “Kiwala”, di navigare illegalmente senza una bandiera nazionale valida. La Kiwala è entrata nella lista delle navi sanzionate dall’Unione lo scorso febbraio, in quanto farebbe parte della cosiddetta “flotta ombra” russa, il gruppo di navi che la Federazione utilizzerebbe per aggirare le sanzioni internazionali. La nave batte bandiera del Gibuti, ma, secondo quanto riporta l’agenzia di stampa Reuters citando un funzionario del Paese, non risulterebbe immatricolata lì.

La multinazionale petrolifera Chevron è stata condannata per gravi danni ambientali in Louisiana

0
trivelle

Una giuria statunitense ha condannato la multinazionale petrolifera Chevron a pagare oltre 744 milioni di dollari per gravi danni ambientali causati dalla controllata Texaco in una zona paludosa della Louisiana. La somma comprende risarcimenti per degrado generalizzato, inquinamento e infrastrutture abbandonate. Le accuse erano sono state mosse dalla contea di Plaquemines, secondo cui le aree paludose danneggiate nella zona di Pointe à la Hache giocavano un ruolo determinante per la protezione del litorale e la mitigazione degli effetti dei cambiamenti climatici. Il colosso fossile ha contestato la decisione e annunciato ricorso, sostenendo la sussistenza di «numerosi errori giudiziari che hanno portato alla sentenza». Questo procedimento è solo il primo di ben 42 azioni legali simili che potrebbero costare alla compagnia miliardi di dollari.

Secondo l’accusa, i progetti di estrazione di petrolio e gas condotti dal marchio Texaco, di proprietà di Chevron, hanno violato le normative statali sulle risorse costiere. Tra le attività contestate figurano lo scavo di canali, la perforazione di pozzi e lo scarico di enormi quantità di acque reflue nelle paludi. Queste pratiche avrebbero accelerato l’erosione delle coste e compromesso la capacità naturale delle zone umide di proteggere il territorio dagli uragani. La giuria ha riconosciuto alla contea di Plaquemines, che aveva avviato la causa nel 2013 chiedendo inizialmente 2,6 miliardi di dollari, vari indennizzi: 575 milioni per la perdita di territorio, 161 milioni per la contaminazione e 8,6 milioni per l’abbandono di attrezzature industriali. La contea si è in particolare appellata ad una una legge statale del 1978 che impone alle aziende petrolifere, al termine delle loro operazioni, di ripristinare le aree utilizzate verso una condizione «il più possibile simile a quella originaria». Ma Chevron, che non hai mai mosso un dito in fatto di ripristino ecologico e bonifica, ha contestato la legittimità della sentenza dato che le attività contestate risalirebbero a un’epoca anteriore all’introduzione della legge.

Le attività che hanno colpito gli ecosistemi in questione erano state avviate dall’azienda Texaco, acquistata nel 2001 da Chevron per la cifra record di oltre 38 miliardi di dollari. La procedura legale fu però avviata 12 anni dopo, motivo per cui a risponderne oggi è la multinazionale con sede in California. Ad ogni modo, la vicenda sottolinea ancora una volta la noncuranza e la negligenza tipiche dell’operato dell’industria fossile a spese dell’ambiente naturale e della salute pubblica. Secondo i dati del US Geological Survey, dal 1932 al 2016 la Louisiana ha perso circa 4.833 chilometri quadrati di territorio costiero, il che equivale ad una riduzione del 25%. Le cause principali sarebbero da ricondurre anche alla costruzione di canali per facilitare il trasporto da e verso le piattaforme petrolifere, che nel tempo ha alterato i flussi naturali d’acqua e favorito l’intrusione dell’acqua salata durante le tempeste. Nel frattempo, la Louisiana Coastal Protection and Restoration Authority avverte: nei prossimi 50 anni, lo stato rischia di perdere altri 7.700 chilometri quadrati di territorio costiero. Il caso di Chevron potrebbe ora aprire la strada a nuove sentenze e accordi extragiudiziali con le altre compagnie coinvolte nelle cause ancora in sospeso.

Hanno la guerra nel cervello

5

Ventitré pagine per delineare un futuro di pallottole e fango, di centinaia di miliardi da destinare al settore militare, di profitti da capogiro per la lobby delle armi e di un immaginario collettivo da riempire con il terrore che le libertà democratiche siano minacciate da nemici esterni fortissimi e con un unico chiodo fisso: distruggere l’Europa. È il delirio messo nero su bianco nel Libro bianco congiunto per la preparazione della Difesa europea al 2030, il manifesto militarista pubblicato dalla Commissione Europea per giustificare ideologicamente il piano di riarmo dell’Europa con il quale si punta a spendere 800 miliardi di euro in munizioni, artiglieria, missili, droni, infrastrutture e tecnologia militare.

A leggerlo si ha l’impressione di vivere sull’orlo della catastrofe, cittadini di un continente assediato: «Le minacce alla sicurezza europea si stanno moltiplicando in un modo che rappresenta una grave minaccia per il nostro modo di vivere», la Russia è una «grave minaccia strategica», mentre «Stati autoritari come la Cina cercano sempre più di affermare la propria autorità e controllo sulla nostra economia e società». Ampio è anche il ricorso alla fomentazione di paure e a vere e proprie fake news per giustificare la corsa alle armi. Si ribadisce il concetto secondo cui la Russia sarebbe pronta a invadere militarmente i Paesi europei, perché «se le sarà consentito di raggiungere i suoi obiettivi in Ucraina, la sua ambizione territoriale si estenderà oltre» e si rilancia la bufala secondo cui i Paesi europei spendano troppo poco nella difesa, al punto che — secondo i cervelli che hanno redatto il documento per conto della Commissione UE — la spesa per la difesa europea rimane «molto inferiore a quella della Russia o della Cina». Un punto su cui l’UE dovrebbe mobilitare una delle divisioni contro la disinformazione inventate a Bruxelles negli ultimi anni per auto flagellarsi, visto che la spesa dei Paesi dell’UE nella difesa nel 2024 è stata di 326 miliardi di euro contro i 235 miliardi della Cina e i 146 della Russia.

La furia militarista europea non è rinchiusa nelle stanze di Bruxelles. La corsa alla guerra è viva in quasi tutti i Paesi europei che sembrano correre alle armi come se si fossero svegliati di colpo all’alba di una nuova guerra mondiale. La Francia ha rilanciato la produzione nazionale di polvere da sparo e annunciato un esercito di riservisti da centomila uomini; la Germania ha modificato la propria Costituzione per permettere di rendere l’esercito «pronto per la guerra»; la Polonia ha lanciato un piano per l’addestramento militare rivolto a tutti gli uomini adulti; in Svezia sono passati direttamente a distribuire tra la popolazione un kit di sopravvivenza in caso di conflitto nucleare. In Italia, il ministro Urso, ha annunciato un piano per collegare l’industria automobilistica a quella militare: nessuno ha capito bene cosa voglia dire ma, visto il clima generale, il bisogno di fare qualcosa era evidentemente insopprimibile, anche se agendo a caso come da tradizione politica italiana.

La guerra si insinua anche nei cervelli più insospettabili, come quelli di molti presidi delle scuole italiane, dove negli ultimi mesi si sono moltiplicati corsi tenuti dai soldati, gite d’istruzione nelle basi militari, addirittura messinscene come i bambini di una scuola elementare messi a fare il passo dell’oca in cortile sulle note dell’inno di Mameli. Un clima talmente assurdo che un gruppo di maestri, professori e operatori scolastici ha sentito il bisogno di riunirsi nell’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole per cercare di contrastare il clima guerrafondaio che le istituzioni scolastiche stanno fomentando nelle nuove generazioni.

«Nessuno ha dichiarato guerra all’Europa, Russia e USA stanno trattando la pace in Ucraina, non abbiamo neanche nessuna notizia di una possibile invasione aliena»: è dimostrato che faccia bene chiudere gli occhi e ripetere lentamente queste tre frasi, specie dopo aver visto un telegiornale o essere caduti ancora una volta nella tentazione di aprire il sito della Repubblica o del Corriere. Facciamo in modo che il clima di guerra non si impossessi anche della nostra mente.

Migranti, partita una nave per l’Albania

0

Questa mattina, venerdì 11 aprile, la nave Libra della marina militare è partita da Brindisi per trasportare 40 migranti nel centro di Gjader, in Albania. Il centro di Gjader ha una capienza di 48 persone, ma secondo i progetti governativi dovrebbe venire ampliato. Con un decreto di fine marzo, la struttura è stata convertita in un centro di permanenza per il rimpatrio dove ospitare le persone che hanno già ricevuto un ordine di espulsione da parte delle autorità. Risulta questo il primo tentativo di trasferire i migranti dall’emissione del decreto.

Sulle spiagge italiane ci sarebbero in media 892 rifiuti ogni cento metri

0

In Italia si trovano in media 892 rifiuti ogni cento metri lineari di spiaggia. È il dato che emerge dal dossier Beach Litter 2025, pubblicato negli scorsi giorni da Legambiente, che ha monitorato 63 spiagge su tutto il territorio nazionale. Una fotografia che mostra come il problema dell’inquinamento costiero resti tutt’altro che risolto, a dispetto degli sforzi e delle normative europee che puntano alla riduzione dei rifiuti marini entro il 2030. Sono oltre 56mila i rifiuti censiti su quasi 197mila metri quadrati di arenile. La stragrande maggioranza, quasi l’80%, è composta da plastica e polimeri artificiali, seguiti da vetro e ceramica (8,31%) e carta e cartone (4,31%). Una presenza invasiva che non risparmia alcun tratto di costa, dalle aree più urbanizzate alle riserve naturali.

Utilizzando il Clean Coast Index, uno strumento di classificazione internazionale, Legambiente ha potuto stimare all’interno del suo report il “grado di pulizia” delle spiagge, peggiorato rispetto allo scorso anno: solo il 27% può essere definito “molto pulito”, mentre un altro 14% rientra nella categoria “pulito”. Tuttavia, il 30% risulta “abbastanza pulito”, il 17% “sporco” e ben l’11% “molto sporco”, con punte particolarmente critiche in alcune località. Analizzando la top ten degli specifici oggetti rinvenuti sulle spiagge italiane, spiccano i pezzi di vetro o ceramica non identificabili (13,2%), seguiti da frammenti di plastica di dimensioni comprese tra 2,5 e 50 centimetri (13%) e da tappi e coperchi (8,2%). Preoccupante anche la diffusione di cotton fioc in plastica (5,6%), polistirolo (6,9%) e mozziconi di sigarette (7,5%), a testimonianza di abitudini scorrette ancora radicate tra i frequentatori delle spiagge. Non meno rilevante il ruolo dei prodotti in plastica monouso (Single Use Plastic o SUP), come bottiglie e contenitori, cannucce, agitatori per cocktail, posate e piatti. Nonostante l’entrata in vigore della Direttiva SUP che ne vieta la commercializzazione, questi oggetti continuano a rappresentare una quota significativa del litter marino. Ad esempio, sono stati trovati oltre 7.500 articoli tra bottiglie, tappi e anelli di plastica e più di 4.200 mozziconi di sigaretta. «I dati confermano quanto ancora ci sia da fare per proteggere i nostri litorali», sottolinea Legambiente, che rinnova l’invito a rafforzare le politiche di prevenzione e raccolta, ma anche a promuovere una cultura della responsabilità individuale. L’associazione partecipa infatti alla Missione dell’UE Restore our Ocean and Waters, che punta a ripristinare la salute di mari e acque europee entro il 2030. In questo scenario preoccupante, c’è però spazio per la speranza: l’aumento delle spiagge classificate come “molto pulite” rispetto agli anni precedenti suggerisce che l’impegno civico, se sostenuto da misure adeguate, può dare risultati.

«Da trentacinque anni Legambiente, grazie ai volontari e alle volontarie dei Circoli e alla collaborazione con associazioni, istituzioni, cittadini e imprese, realizza un importante lavoro di citizen science, raccogliendo, monitorando e classificando i rifiuti dispersi sulle nostre spiagge, un lavoro che ha anticipato e contribuito a far nascere i monitoraggi istituzionali in Italia e nel Mediterraneo – ha dichiarato Giorgio Zampetti, direttore generale dell’organizzazione –. Ma il nostro impegno va anche oltre, con tante iniziative di raccolta dei rifiuti per contrastare i loro effetti negativi sull’ecosistema marino costiero e sensibilizzare verso stili di vita più sostenibili e comportamenti responsabili. Particolarmente importante è, in tal senso, che tutti noi facciamo la nostra parte per ridurre l’utilizzo di prodotti usa e getta». Lo scorso fine settimana, nei giorni tra il 4 e il 6 aprile, è andata infatti in scena la storica campagna di Legambiente “Spiagge e fondali puliti”, dedicata al monitoraggio e alla pulizia dei rifiuti abbandonati lungo le coste dello Stivale. Nella cornice di oltre 90 iniziative in tutta Italia organizzate in 17 regioni dall’associazione, centinaia di volontari tra società civile, scuole, aziende e amministrazioni comunali si sono dati da fare per ripulire mari, fiumi e laghi dai rifiuti.

Gaza, proseguono i raid israeliani nella Striscia: ancora morti e feriti

0

Fonti mediche della Striscia di Gaza hanno riferito che almeno 13 persone sono state uccise negli attacchi sferrati da Israele nell’enclave dall’alba, mentre si rincorrono segnalazioni di ulteriori raid e vittime. Lo rende noto Al Jazeera, aggiungendo che gli abitanti di Beit Lahiya, nel nord di Gaza, segnalano «esplosioni continue» mentre Israele lavora alla demolizione degli edifici e all’espansione della “zona cuscinetto”. Le Nazioni Unite hanno condannato i continui raid, affermando che «tra il 18 marzo e il 9 aprile 2025 si sono verificati circa 224 attacchi israeliani contro edifici residenziali e tende per sfollati», aggiungendo che «in circa 36 attacchi le vittime registrate sono state solo donne e bambini».

La Cina rialza i controdazi sui beni Usa dall’84% al 125%

0

La Cina ha stabilito un rialzo dei suoi controdazi sulle importazioni dei beni statunitensi dall’84% al 125%. Lo ha reso noto il ministero delle Finanze di Pechino, spiegando che le nuove misure entreranno in vigore domani, il 12 aprile. Nelle ultime ore, un portavoce del ministero del Commercio cinese ha dichiarato che gli USA devono «assumersi la piena responsabilità» per le «turbolenze» economiche globali seguite all’offensiva tariffaria di Trump, aggiungendo che i dazi annunciati da Washington hanno causato «gravi shock e forti turbolenze» anche «ai sistemi commerciali multilaterali».