domenica 23 Novembre 2025
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Vaccino Johnson & Johnson: l’Italia aspetta le prime dosi, ma negli Usa è già sospeso

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Le prime 184 mila dosi del vaccino Janssen, prodotto dalla Johnson & Johnson sarebbero dovute essere consegnate all’Italia nella giornata di oggi, ma all’ultimo la multinazionale americana ha annunciato che le consegne in Europa subiranno ritardi. Un fatto probabilmente collegato a quanto sta avvenendo negli Usa, dove la Fda (la Food and Drugs Administration, l’ente governativo che si occupa della regolamentazione dei farmaci) ha chiesto al governo di sospenderne l’utilizzo in via precauzionale dopo che sei donne, di età compresa tra i 18 e i 48 anni, hanno sviluppato una rara malattia connessa ai coaguli di sangue. Una di loro è deceduta. Secondo quanto dichiarato da Peter Marks, direttore del Centro per la valutazione e la ricerca biologica della Food and Drug Administration, in una dichiarazione riportata dal New York Times, i casi verificati sarebbero «molto simili» a quelli riscontrati in Europa col vaccino AstraZeneca.

Già quattro giorni fa l’Ema (Agenzia europea per i medicinali) aveva avviato una revisione del vaccino per valutare i primi eventi avversi registrati negli Usa. Il caso è ora sotto esame anche in Italia, dove è in corso – inizio annunciato alle 16:30 di oggi – una riunione al Ministero della Salute, con l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa), dell’Istituto superiore di sanità (Iss) e del Comitato tecnico scientifico (Cts) per discutere della sospensione in via precauzionale del prodotto.

 

Val di Susa: nella notte sgomberato con la forza un presidio No Tav

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Questa notte a San Didero, in Val di Susa, più di 1000 poliziotti sono intervenuti per sgomberare il presidio del movimento No Tav che era stato attrezzato negli scorsi mesi per difendere il territorio dove sorgerà il nuovo autoporto dell’autostrada A32 Torino-Bardonecchia, nel quale saranno predisposti piazzali di sosta e servizi per i mezzi pesanti. Lo ha riportato il sito Notav.info, da cui si apprende che le forze dell’ordine hanno lanciato lacrimogeni ad altezza d’uomo ferendo alcuni dei manifestanti. La polizia ha agito in tal modo per permettere alle ditte incaricate da Telt (azienda che si occupa di realizzare l’opera) di recintare l’intera zona tra l’autostrada e la Statale 25 del Moncenisio. I contestatori, però, non si sono ancora arresi: questa mattina si sono dati appuntamento alle ore 8,30 alla stazione di Bruzolo ed a Borgone per riunirsi nuovamente.

Il movimento No Tav è composto da gruppi di cittadini che da più di 20 anni si oppongono alla costruzione della Tav, la linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione. Tra le criticità dell’opera sottolineate dagli oppositori vi sono il suo impatto ambientale e l’eccessivo costo necessario a realizzarla, ritenuto spropositato rispetto alla sua utilità. In tal senso l’Italia ha finora finanziato l’82% dei 3,6 miliardi sborsati per la costruzione della Tav. Ma ciò che più stupisce è che la somma di denaro messa a disposizione dall’Italia venga utilizzata per la costruzione del tunnel di base che dovrà unire Saint Jean de Maurienne e Susa/Bussoleno, il quale è situato per 45 dei 57,5 km totali all’interno del territorio francese.

[di Raffaele De Luca]

Venti di guerra in Ucraina: cosa sta succedendo veramente

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Cargo ricolmi di casse d’armi, mezzi pesanti in movimento, colpi di artiglieria: la situazione del confine russo con l’Ucraina sta facendo tremare i Paesi dell’Europa Orientale, l’UE e l’Occidente intero, con molti che temono che queste tensioni belliche non sia altro che l’alba di un conflitto. In tutto questo, Kiev coglie l’occasione per rinnovare la sua richiesta di annessione alla NATO, un proposito che da anni definisce prioritario, ma che potrebbe rivelarsi fatalmente controproducente.

L’Ucraina, letteralmente traducibile come “terra sul confine”, riveste notoriamente la funzione di “cuscinetto” tra Est e Ovest, se non altro perché rappresenta l’ago della bilancia degli equilibri politici tra Stati Uniti e Russia. Equilibri risicati che si radicano profondamente in quelle che si potrebbero definire senza troppe ambiguità come “bugie bianche” di convenienza.

Nonostante il ruolo indipendente della nazione, all’interno dei confini ucraini si sta infatti svolgendo una guerra per procura che, a colpi di piccole schermaglie, va ormai avanti da sette anni. Da una parte vi sono le forze atlantiste sponsorizzate dagli Stati Uniti, dall’altra i separatisti sostenuti dalla Russia, tuttavia ambo gli sponsor sembravano soddisfatti di questo stallo politicamente conveniente. Almeno fino a poco tempo fa. Il cambio di guardia alla Casa Bianca ha notevolmente alterato i rapporti esteri di Washington. Il Presidente Joe Biden sta progressivamente acuendo la distanza con le grandi potenze economiche concorrenti, puntando piuttosto a ravvivare il ruolo dominante degli Stati Uniti sulla NATO.

Da che il suo mandato ha avuto inizio, la sua Amministrazione ha fomentato gli attriti con la Cina, preso le distanze dall’Arabia Saudita e, naturalmente, pestato i piedi alla Russia. Dal condannare platealmente l’arresto di Alexei Navalny, il più celebre oppositore di Putin, al minacciare di sanzioni le nazioni europee che stanno portando avanti il progetto Nord Stream 2, Biden ha fatto di tutto per rendere chiara la sua posizione nei confronti di Mosca ed è una posizione pregna di ostilità.

A questo va aggiunto che, da che Donald Trump ha lasciato le camere del potere, il Governo ucraino abbia preso a muoversi con una sorprendente foga: a febbraio ha bandito dal Paese i media filorussi, quindi ha rivendicando con forza la propria sovranità sulla Crimea con il progetto “Piattaforma Crimea”, ha sanzionando gli oligarchi vicini a Vladimir Putin e infine ha fomentato le forze militari impegnate nelle zone contese della nazione. Una serie di iniziative molto incisive, insomma, che per tempistiche e intensità portano a pensare che Kiev stia già contando sull’endorsement degli USA.

Le tensioni sono palpabili, soprattutto da che, lunedì 12 aprile, Kiev ha denunciato con foga uno scambio di colpi d’artiglieria che ha portato al decesso dell’ennesimo soldato ucraino. L’aggiornamento del bollettino di guerra giunge in coda a un incontro tenutosi tra il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e il “dittatore” turco Recep Tayyip Erdogan, il quale sta cercando alleati che appoggino il controverso progetto del Canale di Istanbul, un’opera monumentale che andrebbe a stracciare la convenzione di Montreux e ad alterare significativamente l’accessibilità al Mar Nero.

Proprio il Mar Nero è il tacito minimo comun denominatore che unisce tutte le parti prese in causa da questa cupa escalation. Mettendo le mani sulla Crimea, la Russia si è infatti conquistata il controllo economico e militare del Bosforo, potere che viene ulteriormente cementato dal sostegno della Transnistria e dalle forze separatiste ucraine che presidiano il Dombas. Mosca, in altre parole, domina praticamente le rotte navali locali, vantando una posizione di superiorità strategica che difficilmente metterebbe a repentaglio con un’invasione esplicita dell’Ucraina. D’altro canto, la Russia non ha alcuna intenzione di cedere questo suo asso nella manica e il dispiegamento massiccio delle sue forze sul confine servirebbe quindi a ricordare ai propri avversari le conseguenze di una sfida diretta.

Queste “esercitazioni” militari intimidatorie, peraltro, non sono esclusive a Vladimir Putin: a inizio marzo lo stesso Biden ha schierato dei bombardieri B-1 nei cieli della Norvegia, una mossa che molti considerano un messaggio neppure troppo velato ai potenti di Mosca. Si trattano di giochi di potere che fanno parte di una routine ormai collaudata e che probabilmente scemeranno col tempo, sempre ammesso che gli equilibri correnti non vengano brutalmente lacerati.

L’adesione di Kiev alla NATO rischierebbe infatti di stravolgere lo status quo che tiene a bada le tensioni tra i due poteri. A quel punto la NATO, sotto la guida degli USA, potrebbe dispiegare i propri missili a portata delle metropoli russe, nonché riuscirebbe a mettere a repentaglio il dominio di Putin sul Mar Nero. Due condizioni lo stato russo non potrebbe considerare accettabili.

[di Walter Ferri]

Covid: mercatali bloccano l’autostrada A1 Napoli-Roma

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Questa mattina, in Campania, si è svolta la protesta dei mercatali contro la zona rossa. Centinaia di camion hanno bloccato l’autostrada A1 Napoli-Roma, nello specifico il rallentamento del traffico è stato effettuato a Caserta ed a Nola. A causa del disagio provocato dai camion sono state registrate code di diversi chilometri. La protesta è stata organizzata da Ana Ugl (Associazione Nazionale Ambulanti), che chiede al Governo ed alla Regione Campania di dare risposte immediate a tale categoria.

Milano: arrestati 4 agenti della Polizia locale

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Questa mattina 4 agenti della Polizia locale di Milano appartenenti al nucleo antidroga sono stati arrestati con l’accusa di: peculato, abuso di ufficio e falso ideologico e materiale. Gli individui sottraevano somme di denaro durante le perquisizioni legate allo spaccio di droga e, per questo motivo, sono stati sottoposti agli arresti domiciliari. Le indagini in tal senso sono state avviate in seguito alla trasmissione di un servizio televisivo del mese di ottobre 2020 da parte de Le Iene, tramite il quale sono state raccolte le testimonianze delle vittime.

Ecuador, sentenza storica: 9 bambine dell’Amazzonia battono le aziende petrolifere

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Nove ragazze dell’Amazzonia ecuadoriana e le loro rispettive comunità di origine, hanno vinto il ricorso presentato dinanzi alla Corte provinciale di giustizia di Sucumbíos, con cui avevano chiesto allo Stato dell’Ecuador di assumersi le proprie responsabilità ambientali, di mettere al bando la pratica del gas flaring e di chiudere tutte le torri petrolifere esistenti. Dopo che l’istanza di ricorso era stata respinta, il 7 maggio 2020, per la mancanza di studi scientifici che attestassero le tragiche conseguenze dell’attività petrolifera sulla salute umana, le giovani hanno presentato ricorso in appello. In ultima istanza i giudici hanno ribaltato il verdetto dando loro ragione e stabilendo la chiusura definitiva delle torri. Nella sentenza viene dichiarato che lo Stato ecuadoriano ha ignorato il diritto dei firmatari – e di tutta la popolazione – di vivere in un ambiente sano, violando il diritto alla salute a causa dell’incapacità – o mancata volontà – delle autorità statali di promuovere tecnologie sostenibili e fonti di energia rinnovabili e non inquinanti. Una vera e propria vittoria per il paese, vista come l’inizio di una serie di provvedimenti e di risarcimenti per quanto concerne i danni arrecati in tutti questi anni alla comunità. Oltre 250 persone malate di cancro necessitano infatti urgentemente di assistenza medico-sanitaria.

Non solo, la sentenza riconosce anche che l’Ecuador ha sistematicamente violato gli obblighi internazionali sottoscritti in materia di cambiamenti climatici, e gli impegni nazionali di riduzione delle emissioni di CO2 nell’atmosfera. Queste infatti diminuirebbero del 24% qualora le oltre 400 torri petrolifere smettessero di funzionare. In alternativa, il gas naturale potrebbe essere destinato all’uso domestico o per la produzione di energia al fine di alimentare gli impianti petroliferi locali. In questo modo verrebbe rimesso nel processo e si eviterebbe la sua combustione. Queste soluzioni saranno adottabili nel momento in cui l’industria petrolifera ricorrerà al più presto a nuovi standard e a procedure innovative e sostenibili.

Una sentenza certamente storica, che impone alle aziende petrolifere di rimediare agli impatti sull’ambiente e sulla salute delle loro attività. Una vittoria, di certo, per le comunità dell’Amazzonia ecuadoriana, che da tempo lottano contro il gas flaring, ovvero la pratica di bruciare i gas di scarto derivanti dall’estrazione di petrolio e disperderne i fumi nell’ambiente. Una pratica che le aziende seguono per risparmiare sulla costruzione di infrastrutture di smaltimento adeguate. Il gas flaring è prassi consolidata nell’Amazzonia ecuadoriana sin dal 1967, quando la società petrolifera statunitense Chevron-Texaco ha iniziato la perforazione del primo giacimento. Un’area caratterizzata da ben più di 445 torri petrolifere, dove la popolazione che risiede in prossimità accusa un elevato tasso di tumori e di decessi ad esso correlati, come dimostra lo studio del 2017 condotto da Clínica Almbiental. Sono infatti più di cinquant’anni che l’estrazione dell’oro nero inquina fortemente l’atmosfera e contamina il suolo e l’acqua del posto.

 

[Eugenia Greco]

Perù: autobus fuori strada, almeno 20 morti e 14 feriti

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Un autobus che trasportava decine di persone è uscito fuori strada e si è capovolto varie volte in un terreno incolto all’altezza del distretto di Parobamba, nella regione peruviana di Ancash. In seguito all’incidente hanno perso la vita almeno 20 persone ed altre 14 sono rimaste ferite. Lo ha comunicato la radio Rpp di Lima. Inoltre, secondo una prima ipotesi della polizia stradale, il responsabile dell’incidente potrebbe essere l’autista, che probabilmente stava guidando ad una elevata velocità.

L’acqua radioattiva di Fukushima sversata nell’oceano non è un pericolo, ecco perché

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La società che gestisce la centrale nucleare di Fukushima, la Tokyo electric power, ha deciso di sversare nell’oceano l’acqua contaminata da radiazioni. Nonostante gli allarmismi, questo non rappresenta alcun pericolo. Vediamo perché. Le cisterne di stoccaggio della centrale giapponese contengono oltre 1 milione di tonnellate di acqua. Di queste, solamente 20 grammi sono effettivamente radioattivi. In sostanza, la radioattività media per litro dell’acqua contenuta nelle cisterne sarebbe più o meno equivalente a quella di una radiografia: 700.000 Bq (Bequerel). Considerando poi che l’oceano Pacifico contiene 720 milioni di chilometri cubi d’acqua, ogni rischio si annulla. La radioattività – già di per sé minima – andrebbe, infatti, in contro ad una diluizione estremamente elevata. Inoltre, i rilasci non saranno istantanei bensì graduali. L’acqua contaminata verrà quindi sversata su un lungo periodo di tempo proprio per evitare ogni rischio sanitario.

Nelle centrali nucleari, l’acqua è impiegata per raffreddare il nocciolo del reattore allo scopo di mantenerlo alle temperature adeguate. L’acqua impiegata viene inevitabilmente contaminata dalle radiazioni e deve, pertanto, essere periodicamente sostituita. Le particelle radioattive sono indubbiamente dannose ma, a fare la differenza, sono le quantità e la durata dell’esposizione. Niente allarmismi quindi. Basti pensare che solo il Potassio 40 contenuto nel Pacifico ha una radioattività di 15.000 EBq (Exa-Bequerel), sette ordini di grandezza superiori a quella dell’acqua usata per raffreddare i reattori di Fukushima. Del resto, perfino il nostro corpo ha una sua radioattività naturale.

Ucraina, esercito governativo bombarda Donetsk

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L’esercito ucraino starebbe bombardando la periferia di Donetsk, centro dell’autoproclamata repubblica popolare che dal 2014 si è dichiarata annessa alla Russia. A darne notizia il sindaco della città. Alexei Kulemzin, stando a quanto riportano media internazionali. L’attacco sarebbe iniziato alle 12:05 e ha coinvolto veicoli da combattimento di fanteria e un lanciagranate anticarro. Secondo Kiev l’attacco sarebbe una risposta all’uccisione di un militare ucraino. Da giorni si vive una pericolosa escalation tra Kiev e Mosca.

Cortina 2026: oltre la retorica delle olimpiadi “sostenibili” e a “impatto zero”

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È dai gesti di esultanza di Beppe Sala, nel giugno 2019, che politica e media circondano le Olimpiadi Milano-Cortina 2026 di un certo alone “green”. Titoli e dichiarazioni si susseguono, parlando di “olimpiadi a impatto zero”. Il governatore Zaia, solo per citare un politico, l’ha usata il mese scorso, affermando che si possa «combattere insieme per un evento a impatto zero». Altre volte si vola molto più in alto e gli organizzatori parlano di Cortina ’26 come dell’occasione per trasformare le Dolomiti in un «laboratorio di economia circolare». La parola magica che più di tutte riempie la narrazione è “sostenibile”. Già nel dossier di candidatura del 2019, la manifestazione veniva presentata retoricamente come «la più sostenibile di sempre» e col tempo la parola è stata usata come il prezzemolo.

L’esempio più recente è quello del logo ufficiale delle olimpiadi: Futura. Nel video di presentazione, si descrive il logo come «un semplice gesto di sostenibilità e integrazione, a simboleggiare che queste olimpiadi avrebbero un impatto ambientale leggero: come quello di un dito sulla neve». In realtà di leggero c’è solo l’uso che viene fatto di queste parole.

Per andare oltre la narrazione mediatica bisogna innanzitutto fare una premessa: «impatto zero» non significa «impatto nullo». Parlando di impatto zero si intende che ogni azione potenzialmente impattante debba essere limitata al massimo oppure compensata con azioni positive per non aggravare le emissioni nocive. Anche interpretando il concetto in questa maniera, però, parlare di olimpiadi a impatto zero sembra per ora generico e fuorviante.

Riportiamo alcuni fatti. A febbraio è emerso che i progetti per due delle quattordici sedi di gara presentano criticità in termini di sostenibilità. Si tratta della ristrutturazione della pista da bob “Eugenio Monti”, a Cortina, e della copertura dell’ovale per il pattinaggio, a Baselga di Piné. È il Comitato Internazionale Olimpico a farlo sapere. La pista a Cortina è inadeguata per gli attuali standard da bob, slittino e skeleton, e verrebbe rifatta, causando ulteriore consumo di suolo in un’area già molto antropizzata. Baselga di Piné pone invece anche problemi di sostenibilità a lungo termine. Poche persone praticano sport su ghiaccio: si rischia di avere un deficit dai 570 agli 830 mila euro l’anno, e di costruire nuove “cattedrali nel deserto”, ovvero impianti che, aldilà dei pochi giorni di gare, non avranno alcun utilizzo.

Un dato importante è di luglio 2020. Le foto pubblicate dal forestale Luigi Casanova, dimostrano che i lavori per le Olimpiadi del 2026 e per i Mondiali di Sci 2021 hanno un notevole impatto sulle Dolomiti. Ad esempio: il paesaggio e l’ambiente naturale sul versante della Tofana di mezzo risultano sconvolti, in particolare per i lavori allargamento stradale: hanno comportato consumo di molto più suolo e abbattimento di centinaia di alberi secolari. Oppure: nella zona del Rumerlo è stato costruito un piazzale a funzione sia di parcheggio che di zona per la tribuna. Il terreno però è di riporto e presenterebbe già cedimenti strutturali irreversibili. Ancora: scogliere artificiali, cementazione eccessiva, cedimenti a valle, terreni non bonificati. E così via. Anche il Club Alpino Italiano ha reso noto che i cantieri delle manifestazioni hanno provocato una forte pressione ambientale. I segni lasciati sul paesaggio di Gilardon, Col Fiere, Rumerlo e Cinque Torri, mostrano che la sostenibilità ambientale è subordinata ad altre logiche. Ma il problema maggiore sono i lavori per collegare Passo Falzarego, Arabba, Cortina e Alleghe. Previsti nel vecchio Piano Regionale Neve del 2013, erano stati accantonati da tempo perché giudicati insostenibili. Tuttavia adesso, in vista del 2026, sono ripresi.

È presto per concludere che le Olimpiadi 2026 non saranno sostenibili, molto dipenderà dalle iniziative che verranno finanziate e messe in campo per mitigare gli impatti, evidenti, delle opere in atto. Tuttavia ci sono quegli elementi minimi per affermare con certezza che fino ad ora non s’intravedono queste azioni e la “sostenibilità” appare niente più che uno slogan.

[di Andrea Giustini]