mercoledì 19 Novembre 2025
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USA: le manifestazioni sfociano nel tracciamento di massa, con l’aiuto di Google

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Risalire ai manifestanti che si sono resi protagonisti di atti fuori legge in manifestazioni di protesta scandagliando i dati di tutti gli smartphone presenti nei paraggi, grazie al sistema di geolocalizzazione gentilmente messo a disposizione del governo da Google. È quanto sta accadendo a Kenosha, Wisconsin, dove va in scena l’apoteosi grottesca della sorveglianza in stile occidentale: il 23 agosto i cittadini sono scesi per strada per contestare l’ennesima violenza poliziesca sulle minoranze di colore, si sono verificati incendi in diverse aree della città e ora le autorità stanno tracciando indiscriminatamente tutti gli abitanti che hanno la sfortuna di possedere un telefono Android.

Vero che il rapporto tra polizia statunitense e produttori di smartphone è controverso e non sempre armonioso, perlomeno quando si tratta di ottenere l’accesso a smartphone e ad altri apparecchi elettronici per scandagliarne i contenuti. Ma stiamo parlando di una pratica ormai consolidata che tuttavia solleva diverse preoccupazioni nell’opinione pubblica, nei brand tecnologici e persino nei tribunali, soprattutto quando assume le sembianze distopiche del cosiddetto “recinto di geolocalizzazione” (geofence).

Nel caso di Kenosha, per venire a capo delle identità di coloro resisi autori di danneggiamenti a danno dell’arredo urbano durante le proteste, gli investigatori hanno chiesto e ottenuto molteplici mandati per dar vita a una “pesca a strascico” dei dati GPS degli apparecchi prodotti da Google (Apple si assicura di difendere la privacy dei propri clienti con i denti). La geofence viene già di per sé considerata un’extrema ratio che molti giudici disapprovano anche quando fa riferimento a episodi più circoscritti, la sua normalizzazione nell’ambito massivo delle manifestazioni è pertanto degna di allarme.

In queste situazioni, l’azienda tecnologica cerca di tutelare la propria immagine consegnando alle autorità delle liste di identificativi anonimi, caratterizzati semplicemente da un codice, il problema è che la polizia può chiedere all’azienda di rivelare le informazioni di ogni singola voce in elenco, di fatto rendendo vano lo sforzo formale dell’azienda. I carteggi emessi nel caso di Kenosha non assicurano peraltro che i dati non rilevanti alle indagini vengano debitamente distrutti, cosa che potrebbe tradursi in una catalogazione sistematica di tutti i manifestanti.

Nonostante la reticenza di alcuni tribunali, sempre più autorità statunitensi si stanno affidando – spesso maldestramente – al geofence, con il risultato che nel solo 2020 Google abbia dovuto sottostare a più di 11.000 di questi mandati, dettaglio che va a sottolineare una tendenza sempre maggiore e capillare nell’affidarsi alla sorveglianza radicata nelle nuove tecnologie. Una tendenza che dovrebbe certamente preoccupare gli statunitensi, ma anche gli italiani.

Per quanto difesi da tutele della privacy migliori di quelle concesse agli americani, i cittadini italiani hanno nondimeno assistito alle primissime avvisaglie di quelle brutture orwelliane che vengono tollerate oltreoceano. BuzzFeed ha infatti recentemente rivelato come Clearview Ai, controversa azienda di riconoscimento facciale, stia cercando di radicarsi anche sul suolo europeo, con le autorità nostrane che hanno compiuto tra le 101 alle 500 ricerche sul software incriminato. Difficile ottenere maggiori dettagli a riguardo, sia la ditta in questione che la Polizia di Stato si sono dimostrate restie a discutere apertamente la faccenda.

[di Walter Ferri]

Italia, transizione a parole: approvato l’ampliamento della Centrale a gas di Ostiglia

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La transizione ecologica deve attendere ancora. Nonostante la crisi climatica e le criticità locali in relazione alle emissioni inquinanti, il 12 agosto scorso il Ministero della Transizione ecologica guidato da Roberto Cingolani, di concerto con il Ministero della Cultura, ha approvato «l’installazione di una nuova unità a ciclo combinato e interventi di miglioramento ambientale sui gruppi esistenti della Centrale di Ostiglia (MN)». Con un investimento complessivo di circa 400 milioni di euro, il progetto prevede – secondo quanto affermato – un’efficientemento per la centrale termoelettrica in questione e la realizzazione per la stessa di una nuova unità, costituita da una turbina a gas di classe “H”. La nuova sezione avrà una potenza elettrica nominale di circa 900 MW1 e un rendimento superiore al 60%.

«Per quanto riguarda gli aspetti ambientali, in particolare le emissioni in atmosfera – dichiara EP Produzione, l’azienda che gestisce l’impianto – la nuova tecnologia proposta permetterà di ridurre ulteriormente le emissioni specifiche in conformità ai più stringenti orientamenti nazionali ed europei; in particolare, le emissioni di NOx saranno inferiori a 10 mg/Nm3». Non è, tuttavia, dello stesso parere la Regione Lombardia. Con una relazione tecnica disponibile sul sito del Ministero della Transizione Ecologica questa, infatti, avrebbe espresso diverse preoccupazioni legate al progetto, chiedendo, esplicitamente, «che l’installazione della nuova unità non venisse approvata». Nel dettaglio, in relazione alle emissioni, quanto dichiarato dalla società proponente sarebbe del tutto fuorviante. La Regione, analizzando i dati resi disponibili dall’azienda ed effettuando nuovi calcoli sulla base di scenari più verosimili, ha infatti dimostrato che «la proposta, pur con gli utili filtri SCR, emetterebbe 1.071.000 Kg di NOx l’anno, cioè circa il doppio rispetto agli attuali 504.000 kg». Ma le criticità evidenziate dalla Regione però non finiscono qui. Innanzitutto, viene sottolineata la grave idoneità della Pianura Padana. L’area, come è noto, è tra quelle con maggiori problemi di inquinamento a livello planetario. In condizioni peggiori troviamo solo l’area Nord Orientale della Cina e il Nord dell’India. La stessa provincia di Mantova poi, sede della centrale da “innovare”, avrebbe una situazione geoclimatica tale da favorire la concentrazione di inquinanti in modo particolarmente accentuato rispetto a numerose altre province padane. In ultimo, ma non meno importante, il mantovano è già oggi l’area con la maggiore concentrazione di centrali elettriche, per una potenza installata di oltre 3500 MWe.

Ciononostante, la richiesta della Regione – nonché dei cittadini che subiranno le conseguenze del progetto – è rimasta del tutto inascoltata. Più che esprimere il proprio dissenso, tuttavia, poco altro poteva essere fatto. La procedura, infatti, sarebbe di esclusiva competenza nazionale, poiché in seno al Piano italiano energia e clima (Pniec). Un Piano di transizione energetica determinato a ritardare una vera svolta alla sostenibilità. Come conferma questa vicenda, è ancora troppo lo spazio dedicato agli investimenti nel gas naturale, fonte fossile che – come ha più volte sottolineato la comunità scientifica – non rappresenta la soluzione alla crisi climatica. Senza contare che quanto approvato per la Centrale di Ostiglia si tratta dell’ennesimo ‘regalo’ a multinazionali tutt’altro che impegnate sul fronte della transizione ecologica. EP Produzioni, infatti, fa parte del gruppo ceco EPH, «l’emblema – secondo Altreconomia – di come si possa speculare sull’azione climatica attraverso l’acquisizione di miniere e centrali a carbone obsolete, in fase di dismissione o particolarmente inquinanti, al fine di prolungarne l’operatività».

[di Simone Valeri]

La multinazionale GKN licenzia tutti i lavoratori, ma il governo continua a farci affari

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Il 4 agosto scorso a 422 lavoratori della sede fiorentina della multinazionale inglese GKN è stato preannunciato il licenziamento via mail. Il governo italiano per cercare di convincere l’azienda a ripensarci ha proposto di convertire i licenziamenti in 13 settimane di cassa integrazione, totalmente a carico dello stato, nella speranza di ottenere il tempo necessario a trovare una soluzione. I dirigenti dell’azienda che produce componenti per auto e per il settore aeronautico reagirono chiedendo «qualche ora di tempo» per pensare alla proposta: da allora è passato quasi un mese e al ministero del Lavoro non è arrivata nessuna risposta. Nel frattempo la clessidra scorre e il termine di legge dei 75 giorni dal preavviso, alla scadenza dei quali l’azienda potrà procedere ai licenziamenti veri e propri si avvicina sempre più.

Uno stallo al quale i lavoratori si stanno opponendo con forza. Dietro lo striscione “Insorgiamo” hanno affollato le strade di Firenze in più occasioni, con cortei di protesta partecipati da oltre mille persone. Hanno occupato la fabbrica. Hanno inoltre aperto una “cassa di resistenza” per raccogliere fondi utili alle spese legali e aiutare le famiglie degli operai in difficoltà, scegliendo di aprirlo in una filiale di Banca Etica, perché unica banca che «non ha nessun tipo di legame con il fondo finanziario che ci ha chiusi, né con altri strumenti della grande finanza». Hanno lanciato una pagina social che conta già oltre settemila iscritti e organizzato un concerto che il 28 agosto ha portato migliaia di persone direttamente davanti ai cancelli della fabbrica. L’obiettivo è quello di far pressione sulle istituzioni affinché cerchino di fare qualcosa.

Una manifestazione dei lavoratori della GKN per le strade di Firenze

Per il governo Draghi il termine di convitato di pietra è infatti quanto mai appropriato alla situazione. Nessuna azione è stata intrapresa per ottenere dai dirigenti della multinazionale quantomeno una risposta alla proposta di trasformare i licenziamenti in provvedimenti di cassa integrazione, nonostante l’operazione fosse a costo zero per l’azienda. Un comportamento perfettamente in linea con quanto esplicato direttamente dal presidente del Consiglio con lo slogan «proteggere i lavoratori e non i posti di lavoro». Soluzione che per ora si sta avverando solo nella sua seconda parte, ovvero lasciare licenziare i lavoratori, senza che per questi siano state messe in campo nuove protezioni.

Ma non è tutto. Lo stato italiano ha infatti legami economici stretti con la stessa azienda. La GKN infatti ha in essere una compartecipazione con Leonardo Spa (azienda della quale possiede il pacchetto di maggioranza azionario il Ministero dell’Economia e delle Finanze, quindi di fatto il governo italiano) per una fornitura di 21 elicotteri alla Marina tedesca. Un affare da 2,7 miliardi di euro. Una situazione che i lavoratori hanno denunciato, chiedendo al governo di smarcarsi dalla multinazionale britannica. Anche su questo caso, ovviamente, da palazzo Chigi per ora non arriva nemmeno un sussurro. Per ora il caso della GKN rimane niente più di uno tra 87 altri: tante sono infatti le crisi aziendali attualmente sul tavolo del ministero del Lavoro dopo che il governo ha deciso di non rinnovare il blocco sui licenziamenti.

Pakistan: operazione antiterrorismo, uccisi 11 combattenti dell’Isis-K

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Sono almeno 11 i combattenti dell’Isis-Khorasan rimasti uccisi in seguito ad una operazione antiterrorismo effettuata in Pakistan, precisamente nella provincia del Beluchistan, dal Dipartimento antiterrorismo (Ctd). In tal senso, in una nota la polizia pachistana, citata dal quotidiano britannico The Independent, ha comunicato che la cellula è stata circondata nonché invitata ad arrendersi. Tuttavia i terroristi non si sono dati per vinti ed hanno risposto sparando: è così iniziato un combattimento che ha portato alla morte di questi ultimi. Nell’operazione, inoltre, si è proceduto con il sequestro di granate, giubbotti e cinture esplosivi, armi automatiche e munizioni.

Per la prima volta sono stati osservati i legami di idrogeno dell’acqua

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Trasparente e insapore, l’acqua si presenta ai nostri occhi come l’elemento naturale più semplice sulla faccia della Terra. Eppure, non solo è essenziale per la nostra sopravvivenza, ma la sua composizione nasconde molte caratteristiche interessanti. Un gruppo di ricerca internazionale guidato dal Centro d’Accelerazione Lineare di Stanford (Slac) è riuscito a vedere per la prima volta i suoi legami quantistici, degli “strattoni” tra le molecole quando vengono eccitate. E sono proprio questi legami ad essere alla base di alcune particolari proprietà dell’acqua, tra cui un’insolita tensione superficiale – che permette a molti insetti di camminare sulla sua superficie -, una grande capacità di immagazzinare calore e una densità minore quando è allo stato solido.

Una molecola di acqua (H2O) è costituita da due atomi di idrogeno e un atomo di ossigeno. In particolare, tra gli atomi di idrogeno di una e l’atomo di ossigeno delle altre, si creano suddetti legami, i quali sono sempre stati difficili da osservare. Oggi, finalmente, gli scienziati ce l’hanno fatta. Questi hanno utilizzato una potente fotocamera elettronica ad alta velocità (MeV-UED), che ha permesso di scattare delle istantanee ritraenti i movimenti molecolari provocati da brevi impulsi – derivanti di un potente fascio di elettroni – diretti su getti di acqua mille volte più sottili del diametro di un capello umano. Questo ha permesso di vedere come gli atomi di idrogeno di una molecola attirino gli atomi di ossigeno delle altre per poi, sotto impulso energetico, respingerle e aumentare lo spazio tra queste.

L’esperimento ha fatto luce sulla natura più profonda dell’elemento naturale più importante del nostro pianeta. La possibilità, infatti, di vedere i suoi legami di idrogeno in movimento, potrebbe dare il via a studi specifici in grado di fornire sia importanti rivelazioni su come abbia portato all’origine e alla sopravvivenza della vita sulla Terra, sia informazioni essenziali per lo sviluppo di innovativi metodi di energia rinnovabile.

[di Eugenia Greco]

Perù: autobus precipita in un burrone, almeno 32 morti

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Almeno 32 persone hanno perso la vita, tra cui due bambini di 3 e 6 anni, ed altre 22 sono rimaste ferite: è questo il bilancio attuale dell’incidente stradale verificatosi in Perù. Nella giornata di ieri, infatti, un autobus partito dalla città di Huánuco e diretto a Lima è precipitato in un burrone. In base a quanto sostenuto dal comandante della polizia, Cesar Cervantes, la tragedia si è consumata poiché il conducente stava guidando ad una elevata velocità. Quest’ultimo, inoltre, è deceduto, mentre il secondo autista è stato preso in custodia.

La Cina mette un freno ai videogiochi: massimo 3 ore a settimana per i minorenni

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La norma era stata anticipata da una dura campagna di stampa dei media cinesi sui videogiochi definiti «oppio dei popoli», scomodando la definizione che Karl Marx riservava alla religione. Ora la legge che intende limitare le pratiche diseducative per i giovani diventa realtà: il governo di Pechino ha stabilito che i minorenni potranno usare i videogiochi per un massimo di tre ore a settimana. Le piattaforme di videogame potranno offrire il gioco online ai minori solo nei fine settimana e nei giorni festivi ed esclusivamente dalle ore 20:00 alle 21:00. A riferirlo l’agenzia di stampa statale Xinhua, riportata in occidente dall’agenzia Reuters.

La misura va inquadrata in una tendenza più generale che vede il governo comunista di Pechino impegnato in una dura campagna contro quelle forme di intrattenimento accusate di assoggettare i giovani e trasmettere valori negativi per la comunità. Una campagna che poche settimane fa aveva già colpito gli influencer. Imponendo alla piattaforma social Weibo (la più importante in Cina) di bloccare la sua classifica delle celebrities più popolari del web allo scopo di frenare la visibilità degli influencer, e all’app Douyin – nel resto del mondo conosciuta come TikTok –di impedire l’ostentazione della ricchezza e del lusso, considerati da Pechino atteggiamenti che «inculcano l’ossessione per il denaro e umiliano i più poveri». Dopo anni di crescita con pochissime regole, insomma, il governo cinese intende riportare le piattaforme del web sotto il controllo politico di uno stato che non intende rinunciare ad avere anche un forte indirizzo e controllo educativo sulla società.

Il mercato dei videogiochi in Cina è attualmente il più importante al mondo. Prima della decisione del governo si stimava per il settore un giro di affari da 45,6 miliardi di dollari nel 2021, superiore a quello degli Stati Uniti.

No, per salvare il pianeta non basta mangiare meno carne

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Una delle tesi diffuse oggi da molti “esperti” è quella secondo la quale per salvare il pianeta possa bastare una riduzione del consumo di carne e prodotti animali sulle nostre tavole. Argomento tornato in voga in questi giorni dopo un articolo pubblicato su una pagina di divulgazione giornalistica (non una testata vera e propria, visto che non è registrata) ad ampia diffusione specie tra i giovani: Will.ita. Si devono mangiare al massimo 500 grammi di carne rossa a settimana e sostituire parte del consumo con pollo e formaggi, sostiene con sicumera il post in questione, pur senza citare alcuna fonte a riguardo. Ma è vero che semplicemente riducendo i consumi di cibi animali salveremo il pianeta? E pollo e formaggi sono tanto migliori per ambiente e salute? In realtà non è affatto così. La tesi è troppo semplicistica e non offre al consumatore un punto di vista oggettivamente corretto.

Infatti il primo problema che viene ignorato da questa soluzione è quello del cambio di paradigma riguardo le produzioni animali nel mondo. Oggi vige il sistema di allevamento intensivo e industriale, in tutto il mondo: America, Europa, Asia. Ciò che devasta l’ambiente e che mette sul mercato prodotti animali con residui di antibiotici, ormoni e sostanze infiammatorie per il nostro organismo è proprio il sistema produttivo di tipo intensivo. Ciò che deve davvero cambiare è innanzitutto il modello produttivo, non tanto la riduzione del consumo. O meglio: prima va cambiato il modello, e poi di conseguenza si abbasseranno anche i consumi di cibi animali, perché passando dai sistemi di allevamento intensivi a quelli estensivi e biologici si risolve già in un colpo solo il problema dell’impatto ambientale. La produttività degli allevamenti estensivi è infatti inferiore a quella del modello intensivo, ma dal momento che la produzione attuale in ogni continente è eccessiva e i consumi anche, il cambio di modello produttivo è proprio quello che serve per apportare la correzione al paradigma generale, in senso virtuoso e positivo per tutti.

Cos’è un allevamento intensivo

Sarà utile chiarire brevemente quali sono le differenze tra gli allevamenti intensivi e quelli estensivi o biologici. Nei primi gli animali vengono allevati in numero molto elevato, sono confinati in stalla (capannoni enormi) tutto l’anno, senza accesso al pascolo, e vengono sottoposti a terapia antibiotica costante per ridurre e scongiurare le infezioni batteriche che sarebbero all’ordine del giorno nei capannoni chiusi e con la densità di capi elevata, e le scarse condizioni igieniche che ne derivano. Una di queste infezioni tipiche è quella della mastite, che si verifica nelle mucche da latte, che danno il latte che poi è destinato alla produzione massiccia dei formaggi, specialmente i famosi formaggi della Pianura Padana poi esportati e famosi in tutto il mondo, ma non solo quelli. Per scongiurare le mastiti alle mucche vengono somministrati regolarmente gli antibiotici, sia a scopo preventivo (profilassi) che a scopo curativo (metafilassi, ovvero una volta che la mastite insorge). Infine, negli allevamenti intensivi la nutrizione degli animali è forzata. Cosa significa? Che i bovini o il pollame hanno accesso continuo al cibo, giorno e notte, per l’accrescimento veloce (ingrasso) e una produttività più alta. Produttività elevatissime dunque, oltre ciò che è fisiologico. Ma se ciò è sicuramente un bene per l’industria a capo di questo processo produttivo, in quanto fa aumentare enormemente il suo profitto, lo è molto meno per la salute dell’uomo e per la sostenibilità ambientale. Tanto per capire meglio faccio questo esempio: le mucche da latte, se lasciate vivere al pascolo e nutrite solo con erba e fieno, possono produrre al massimo 15-18 litri di latte al giorno per capo. Se allevate invece nei capannoni degli stabilimenti intensivi, producono fino a 50-60 litri di latte al giorno, che diventano 90 negli Usa, dove sono perfettamente legali anche i trattamenti con ormoni negli stabilimenti animali. Una aberrazione e stravolgimento della loro natura. Tant’è vero che queste povere bestie vivono al massimo 2 anni e poi sono da “rottamare”.

L’allevamento estensivo riduce o elimina del tutto anche un altro problema tipico di quello intensivo: il trasporto di animali fra Stati e le emissioni di Co2. Avete presente le confezioni di carne dove leggiamo “allevato in Olanda”, “macellato in Italia”? Ecco, questo è dovuto al sistema industriale intensivo. Passando al modello estensivo dei piccoli allevamenti locali sparsi in ogni regione, questi trasporti non esisterebbero e si ridurrebbe anche l’inquinamento di Co2 che questi camion producono col trasporto animale.

Salumi e formaggi non sono la soluzione

Anche altri messaggi e slogan banali lanciati dai mass media sono del tutto fuorvianti e non costituiscono una vera soluzione dei problemi. Sostenere che si debba ridurre il consumo di carne di manzo, agnello, salumi e formaggi, e aumentare quello di pollo, molluschi e uova è semplicemente un non senso. Se smetto di mangiare bistecche di maiale ma aumento il consumo di uova e pollo, sto foraggiando lo stesso tipo di industria e di devastazione ambientale. Tutti sanno benissimo quanto sia distruttiva e impattante la produzione di uova e di pollame. Anzi, nello specifico questo è il settore che più di tutti ha contribuito ad oggi al problema dei residui di antibiotici nelle carni e dell’antibiotico-resistenza. Non vi sarà sfuggito che da alcuni anni a questa parte sulle confezioni di pollo e si uova è spuntata la dicitura (claim) “allevato senza uso di antibiotici”, nel tentativo di ridurre l’utilizzo farmacologico elevatissimo in questi allevamenti. Ma anche questa è una falsa soluzione purtroppo, in quanto è emerso da alcune inchieste, che molti campioni di pollame venduti nei supermercati italiani e con la dicitura in etichetta “senza uso di antibiotici” contengono ugualmente i batteri resistenti agli antibiotici (quindi gli antibiotici sono stati somministrati, in realtà) e che questi ultimi vengono sostituiti negli allevamenti con altri farmaci (coccidiostatici) che contribuiscono alla stessa maniera a creare il problema della resistenza dei batteri ai farmaci. Non sono passati cioè ad una tipologia di allevamento priva di farmaci, più sostenibile e non inquinante. Questo deve essere molto chiaro per il consumatore. Sono passati ad una forma di marketing molto efficace, che fuorvia il consumatore inducendolo a pensare che la produzione di carne sia ora più etica e sostenibile per l’ambiente.

Un altro messaggio che spesso arriva dai mass media è il seguente: aumentare il consumo di alimenti vegetali come legumi, soia, cereali. anche questo è un messaggio del tutto vuoto e fuorviante, che non porta ad una maggiore tutela ambientale. Il punto è sempre la filiera di origine. Se acquisto fagioli e cereali coltivati con l’agricoltura intensiva, l’impatto su Ambiente e salute dei consumatori rimane molto negativo. Allo stesso modo di quello dell’industria del cibo animale, in quanto le produzioni di cereali nel mondo sono quantitativamente superiori a quelle delle carni, per esempio.

Quindi, che fare?

Per ripristinare un modello produttivo ecologico, sostenibile e che tutela maggiormente la salute dei consumatori, bisogna risolvere alcuni problemi a monte. Serve togliere di mezzo l’industria intensiva di carne e latticini e rimettere al centro quella estensiva, biologica e di prossimità. E serve attuare politiche comunitarie serie, senza che la sostenibilità sia una parola vuota, a cominciare dal portare i finanziamenti della Ue a vantaggio delle piccole aziende locali a produzione estensiva e biologica, requisendo i fondi ai grandi gruppi produttivi, che tengono in piedi il sistema di allevamento intensivo, come avviene oggi.

È evidente che per fare tutto ciò serva una nuova classe politica più etica e illuminata di quella attuale. Per questo serve creare un movimento di massa che sostenga e che creda con fermezza in questa nuova prospettiva. Possiamo e dobbiamo far sentire la nostra voce di cittadini, nella consapevolezza che un pianeta migliore non comincia da noi stessi, ma da un impegno collettivo. Così si salverà il pianeta, non mangiando una porzione in meno di carne rossa.

[di Gianpaolo Usai]

L’Università di Trieste impone il Green Pass anche per gli esami a distanza

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L”Università di Trieste ha deciso di imporre agli studenti l’obbligo di munirsi del Green Pass non solo per svolgere gli esami in presenza, ma anche a distanza. È quanto si apprende da un protocollo dell’Ateneo, riguardante le misure volte al contrasto ed al contenimento della diffusione del Covid-19 nell’ambiente universitario, che recentemente è stato pubblicato online. Al suo interno, infatti, si legge che «in tutti i casi, sia che gli esami siano svolti in presenza o da remoto, gli studenti sono tenuti al possesso della certificazione verde o di analogo documento previsto nel presente Protocollo». Inoltre, viene specificato che sono i docenti della commissione d’esame a dover verificare, mediante l’applicazione VerificaC19 del Ministero della Salute, il possesso del lasciapassare sanitario, e viene precisato che i controlli possono essere fatti «anche a campione».

Detto ciò, tali disposizioni, che per gli esami da remoto si applicheranno a partire dal 3 ottobre 2021, rappresentano un’applicazione estensiva del decreto-legge n.111 del 6 agosto 2021, con il quale è stato stabilito che dal primo settembre in Italia l’obbligo del Green Pass verrà ampliato a tutto il personale scolastico ed universitario, nonché agli studenti universitari. Nel decreto, però, si precisa appunto che tali misure sono state imposte con il fine di «tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione in presenza del servizio essenziale di istruzione». Ed è proprio per questo, dunque, che l’Università di Trieste, avendo imposto il certificato verde anche per gli esami da casa, ha evidentemente interpretato estensivamente le disposizioni del governo.

Perciò, il protocollo dell’Ateneo in questi giorni è stato oggetto di dibattito sui quotidiani locali e sui social, ed è stato sottoposto a diverse critiche. Così, il rettore Roberto Di Lenarda ha rilasciato delle dichiarazioni ed ha affermato che l’università ha «sempre scelto la strada della massima prudenza in questo anno e mezzo», motivo per cui è stato deciso di «preparare il protocollo per l’autunno per tempo» nonostante il decreto del 6 agosto non sia ancora stato spiegato e specificato dettagliatamente da un dpcm, che «non arriverà purtroppo prima della conversione in legge, il mese prossimo». In pratica l’Ateneo, in una situazione di parziale incertezza, ha deciso di estendere l’obbligo, facendo sì che esso serva anche per sostenere gli esami a distanza.

Ciò è stato fatto perché, secondo il rettore, l’obbligo di possedere il pass non è stato stabilito con il fine di «garantire ai no vax di stare a casa e fare gli esami a distanza», che dunque si è deciso di mantenere solo per «chi veramente non può recarsi in Ateneo». In tal senso, aggiunge Di Lenarda, «l’obbligo serve per spingere gli studenti a vaccinarsi». Un’affermazione, quest’ultima, che contrasta con il decreto, che seppur ancora non specificato da un dpcm al momento parla chiaro e, come riportato, sottolinea praticamente che alla base del Green Pass ci siano ragioni scientifiche, e non certo persuasive.

Ad ogni modo, il Green Pass non sembra essere realmente efficace in ottica prevenzione dal contagio. Basterà ricordare che recentemente in Cornovaglia, nel Regno Unito, quasi 5.000 persone sono risultate positive al Coronavirus dopo aver partecipato ad un evento al quale si poteva accedere solo soddisfacendo condizioni praticamente identiche a quelle necessarie per ottenere il Green Pass. Si tratta, comunque, solo dell’ennesima vicenda dalla quale emerge chiaramente come la sua utilità sia quanto meno dubbia.

[di Raffaele De Luca]

Afghanistan: talebani prendono il pieno controllo dell’aeroporto di Kabul

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I talebani hanno preso il pieno controllo dell’aeroporto di Kabul, con i miliziani armati che adesso pattugliano lo scalo della capitale. Il tutto in seguito al ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan, portato a termine questa notte dopo 20 anni di presenza nel Paese. L’ultimo aereo americano, infatti, è decollato dall’aeroporto di Kabul a mezzanotte.