sabato 15 Novembre 2025
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Summit sulla Libia a Parigi: il gioco di potere dietro alla transizione democratica

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Il 12 novembre si è tenuto a Parigi un summit internazionale con oltre venti Paesi partecipanti per discutere delle elezioni presidenziali in Libia, previste per il prossimo 24 dicembre. Le potenze coinvolte hanno esortato la Libia ad attenersi al piano per lo svolgimento delle elezioni ed esortato i mercenari stranieri ancora presenti ad abbandonare il territorio, minacciando sanzioni contro chiunque minacci o danneggi la transizione politica. Come spesso accade in questi contesti, la pretesa di una transizione democratica cela gli interessi in gioco di tutte le parti, che vedono nella Libia un’importante fonte di approvvigionamento energetico e una zona di importanza strategica per allargare la propria influenza nelle zone nordafricane.

Sono previste per il 24 dicembre prossimo le elezioni presidenziali libiche, sostenute dal Governo transitorio istituito il 5 febbraio scorso e guidato dal primo ministro Abdul Hamid Dbeibah. Durante la conferenza internazionale tenutasi il 12 novembre a Parigi, voluta da Francia, Germania e Italia con l’appoggio delle Nazioni Unite, è stato ribadito l’appoggio alle elezioni e la necessità di fare in modo che le truppe mercenarie straniere abbandonino lo Stato il prima possibile, prevedendo sanzioni per chi abbia intenzione di minacciare la transizione politica. Secondo l’ONU, le elezioni rappresentano un momento chiave nel processo di pace, ma lo svolgimento è ancora dubbio, in parte a causa della complicata e frammentata situazione politica in Libia, che rende difficile arrivare a un accordo su programma e candidati.

All’incontro hanno partecipato i leader di Paesi quali Francia, Germania, Italia, Libia, Egitto e Stati Uniti (rappresentati dalla vicepresidente Harris). Turchia e Russia, i due Paesi maggiormente coinvolti nel conflitto, hanno inviato rappresentanti di minor livello. Si tratta di una decisione di un certo peso, in quanto i due Stati dispongono di un gran numero di forze armate sul territorio: la Turchia a favore del governo di Tripoli, la Russia dell’Esercito di liberazione nazionale (LNA) guidato dal generale Haftar. I due poli costituivano i principali fulcri in contrasto prima della formazione del Governo di transizione. Russia e Turchia non hanno richiamato le proprie milizie nemmeno dopo che a Ginevra, in un incontro con il Comitato militare congiunto libico, è stata stabilita l’interruzione delle ostilità e la partenza delle forze straniere dalla Libia entro tre mesi.

Di certo gli interessi di tutte le parti in Libia sono inconfutabili e vanno ben oltre il filantropico intento di garantire la transizione democratica e la pace. La Turchia nutre un certo numero di interessi in Libia, legati principalmente alla definizione delle zone economiche esclusive marittime, di importanza strategica per le dinamiche energetiche, soprattutto per quanto riguarda il gas. La Libia costituirebbe inoltre un territorio strategico per allargare l’influenza turca in Medio Oriente e Nord Africa. La Russia, dal canto suo, ha voluto controbilanciare il potere della Turchia offrendo il proprio supporto al LNA di Haftar, assicurandosi una propria zona di influenza e potere nella regione.

I Paesi europei nutrono ciascuno la propria dose di interessi. Per fare solo un esempio, l’Italia ha nella Libia un importante partner economico e strategico, vista la presenza di Eni  nel Paese da più di 50 anni. La multinazionale non ha sospeso le proprie attività in Libia nemmeno durante la guerra civile, che ha portato diverse altre aziende italiane a ritirarsi dal territorio per garantire la sicurezza dei lavoratori. La Libia ha inoltre il potere di regolare il traffico di migranti verso i nostri porti, fattore che veniva utilizzato già da Gheddafi come arma di pressione geopolitica.

A complicare la fattibilità della transizione democratica vi è il fatto che l’unificazione istituzionale voluta con la definizione di un Governo di transizione non riflette l’effettiva situazione del Paese, profondamente diviso da anni di guerra civile e conflitti. Nei giorni scorsi, per esempio, il capo dell’Alto Consiglio di Stato libico al-Mishri ha invitato la popolazione a boicottare il voto dopo l’annuncio della candidatura del generale Haftar e ha criticato i Governi occidentali in quanto a conoscenza dello stato lacunoso delle leggi elettorali. Non esiste, inoltre, un accordo sulla base costituzionale dell’elezione, i cui tempi di svolgimento sono essi stessi causa di scontro. Inoltre è probabile che tra i candidati alla presidenza vi sia anche Dbeibah, ma se questo fosse vero si tratterebbe di una violazione agli accordi che hanno sancito la nascita del governo provvisorio e che prevedevano il ritiro di tutti i ministri una volta convocati i comizi elettorali.

La situazione appare complessa e difficilmente risolvibile nelle brevi tempistiche imposte dai governi occidentali. Rimane da osservare quale sarà lo svolgersi dei fatti nelle prossime settimane.

[di Valeria Casolaro]

India: a Delhi scuole chiuse per una settimana a causa dello smog

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In India, precisamente a Delhi, le scuole resteranno chiuse per una settimana a causa dello smog. A comunicarlo è stato il primo ministro di Delhi Arvind Kejriwal, il quale ha affermato che le scuole non apriranno a partire dalla giornata di lunedì così da evitare che i bambini respirino aria inquinata. La quantità di smog presente nella megalopoli, infatti, è attualmente molto elevata.

L’enorme fake news di Bassetti sulla mortalità del Covid nei bambini

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Il primario del reparto di malattie infettive dell’ospedale San Martino di Genova, Matteo Bassetti, ha divulgato in diretta tv una vera e propria fake news sulla mortalità del Covid-19 nei bambini. Durante la puntata del programma “Piazza Pulita” andata in onda su la7 giovedì scorso, Bassetti ha infatti affermato che i bambini devono essere vaccinati perché, in base ai dati dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), «nella fascia tra i 6 e i 10 anni sono stati ricoverati circa 1100 bambini e la mortalità nei loro confronti è di 5 su 1000» mentre nella fascia successiva (11-13 anni) vi sono state «861 ospedalizzazioni, cosa che fa sì che la mortalità sia praticamente dell’1%».

Si tratta però di una percentuale falsa: basterà ricordare che dai dati dell’ISS si apprende che dall’inizio della sorveglianza relativa ai pazienti deceduti e positivi al Covid a morire nella fascia di età 0-19 anni sono state 35 persone. In tal senso siccome da 0 a 19 anni in Italia ci sono circa 10.000.000 individui, la mortalità risulta aggirarsi intorno allo 0,0003%, e non all’1% citato da Bassetti. La letalità invece, come si può facilmente verificare, è pari allo 0,01%. Bisogna infatti fare una differenza tra mortalità e letalità: la percentuale relativa alla prima deriva dal rapporto tra il numero dei morti e la quantità della popolazione media (dunque anche quella non risultata positiva al virus). Quella relativa alla seconda, invece, deriva dal rapporto tra i morti e il totale dei soggetti ammalatisi.

Nonostante tutto ciò, però, nessuno degli ospiti in studio è intervenuto per sottolineare la fake news diffusa da Bassetti ad eccezione di Maddalena Loy della Rete Nazionale Scuole in presenza. Quest’ultima ha infatti correttamente ricordato come i dati a nostra disposizione ci dicano che «la percentuale sui decessi da 0 a 19 anni è dello 0,0003%» ed ha definito un «dato inventato» quello della mortalità dell’1% nei bambini citato da Bassetti, che si è successivamente limitato a correggere le sue dichiarazioni parlando dello «0,9%». Altra percentuale che però, alla luce dei fatti, risulta comunque essere errata.

[di Raffaele De Luca]

Italia: da inizio pandemia 327mila lavoratori indipendenti in meno

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Dal mese di febbraio 2020 (ossia il mese precedente all’inizio della pandemia) a quello di settembre 2021 i lavoratori indipendenti, ovvero gli autonomi e le partite Iva, sono diminuiti di 327mila unità. A calcolarlo è stato l’Ufficio Studi della Cgia di Mestre, dal quale si apprende che ad aumentare leggermente sono stati invece i lavoratori dipendenti: nel medesimo periodo, infatti, gli impiegati e gli operai sono aumentati di 13mila unità. Tale numero però deriva dal fatto che sono stati registrati più lavoratori assunti a tempo determinato, che in tale arco temporale sono cresciuti di 108mila unità, mentre gli occupati a tempo indeterminato sono diminuiti di 95mila unità.

Il potere, la lepre e la tartaruga

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Pochi libri sono interessanti, nei tempi che stiamo vivendo, quanto “Il potere” di James Hillman (Rizzoli 2003), dove il potere, legato al business come suo oggetto privilegiato, diventa principalmente un modo di pensare. Pensare in un’epoca in cui la religione monoteistica prevalente è l’economia, dove ogni decisione è subordinata al profitto, dove le relazioni interpersonali, anche quelle affettive, sono gestite in termini di tattica e strategia, come se si fosse in perenne stato di allarme o di guerra. Ora ci stiamo davvero rendendo conto come pensiero unico e potere accentrato siano indispensabili l’uno all’altro.

Le cose, però, considerate ad esempio con la psicologia cognitivista di Guy Claxton, (“Il pensiero lepre e la mente tartaruga”, Mondadori 2002) potrebbero andare un po’ diversamente. Il pensare fronteggia il capire, le modalità sintetiche che portano a decisioni si oppongono a quelle analitiche che privilegiano il riflettere, il meditare, il ponderare. La razionalità esecutiva del linguaggio algebrizzato collude con la tempistica dell’intuito e della sorpresa, il calcolo con le sue proiezioni e previsioni trasforma tutto in bilancio, mentre la comprensione è un processo che non si può dare termini ultimativi.

C’è insomma una ermeneutica del potere, uno svelamento possibile, il convergere e divergere di forze che operano incessantemente. Sembra quasi che la speranza sia dell’ordine di grandezza dell’intuito, dell’ispirazione, mentre il risultato, l’obiettivo appartengano alle modalità di un potere che pensa ma non capisce. Che non è interessato a capire ma a raggiungere certi scopi, con quell’ accanimento e quella precisione tipici dell’ossessione totalitaria.

Chi governa è come l’amministratore delegato di una squadra di calcio, gli interessa il costo dei giocatori e il risultato. Ma si dimentica il ruolo dell’allenatore, il bisogno di fare squadra, il posto sacro dello spogliatoio che è come il letto di una coppia.

E la lepre, e la tartaruga? La prima pensa, decide, esegue, usa un linguaggio pratico, privo di coloriture, asciutto ma in fondo ambiguo. Non si interessa delle risposte che potrebbe ricevere, non mette in discussione nulla, pensa e agisce coi decreti legge, comanda, usa l’indicativo, l’imperativo, non lascia spazi. Le interessa il segno di assenso non la risposta. La tartaruga invece è sorniona, ha capito che esistono delle priorità, aiuta la verità a uscire allo scoperto. Le piace il condizionale, è tollerante ma non stupida. Magari vorrebbe correre, arrivare rapidamente a risultati , ma sa che molto è già scritto. Sa aspettare, sa che le nuvole sono formate da energie sottili.

Chissà, a voler essere ottimisti a tutti i costi, dovrebbe finire come quel simbolo dell’estremo Oriente, il trampoliere poggiato sulla tartaruga. Capire e comprendere che si condizionano e sono alleati. Questo però non è il caso di oggi, ci sono troppe lepri in giro. Ma, nel bene e nel male, è stagione di caccia.

[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]

Veramente la cannabis è una medicina? Tutto quello che c’è da sapere

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Sì, la Cannabis è una medicina e lo è da migliaia di anni. Solo ora, però, man mano che la ricerca progredisce e le terapie si dimostrano sempre più efficaci, molti Paesi stanno modificando la legislazione per garantire ai cittadini un diritto fondamentale, quello alla salute. Ecco tutto quello che c’è da sapere sulla medicina più antica del Ventunesimo secolo.

Cosa si intende per cannabis terapeutica?

Quando si parla di Cannabis terapeutica o Cannabis Medicinale (CM) si fa riferimento all’utilizzo in medicina della pianta, presentata in diverse modalità, dalle infiorescenze agli oli, passando per colliri, compresse, creme, supposte ed estratti. La CM, per essere considerata tale, deve avere principi attivi standardizzati e rispettare tutti i passaggi previsti per l’approvazione dei farmaci, dalla coltivazione alla preparazione, così da fornire al paziente un prodotto non contaminato e con principi attivi ripetibili.

In questo contesto, la CM viene definita un fitocomplesso, ossia una pianta con un ricco insieme di componenti chimici naturali dalle proprietà terapeutiche e, dunque, non legata a un unico principio attivo. In particolare, a renderla un’importante risorsa medica sono gli oltre 100 cannabinoidi individuati al suo interno e i terpeni, più di 200 e suoi componenti principali noti come antisettici, antinfiammatori e ansiolitici. A questi si aggiungono i flavonoidi e altre sostanze.

Come la cannabis interagisce col nostro corpo

Nonostante l’elevato numero di principi attivi, sono due le componenti terapeutiche protagoniste: il cannabidiolo (CBD) e il Delta-9-tetraidrocannabinolo (THC), spesso stigmatizzato per i suoi effetti psicotropi, ma che, se assunto in dosi controllate, ha numerosi effetti positivi sull’organismo. Entrambi interagiscono con il sistema endocannabinoide: una rete di comunicazione tra le cellule del corpo umano che collega gli organi e le diverse zone contribuendo a gran parte delle sue funzioni vitali e, soprattutto, a mantenere l’equilibrio interno, detto omeostasi.

Nel sistema sono coinvolti tre attori: endocannabinoidi (cannabinoidi prodotti dall’organismo), recettori ed enzimi. I primi sono molecole che, al mutare delle condizioni, attivano i recettori che a loro volta innescano una reazione nelle cellule per mantenere l’equilibrio del corpo; gli enzimi, infine, hanno il compito di dissolvere ed eliminare le molecole non più necessarie al bilanciamento dell’omeostasi in modo che non si accumulino creando ulteriori danni o complicazioni.

Interagendo con il sistema endocannabinoide, CBD e THC possono contribuire al suo corretto funzionamento in caso di interferenze esterne o squilibri aiutando a moderare la sensazione di dolore, infiammazioni, ansia e stress o contribuendo alla sensazione di appetito o piacere. Attualmente sia i cannabinoidi che i farmaci oppioidi, come la morfina, vengono utilizzati nel trattamento del dolore, ma i secondi sono soggetti al rischio di abuso, una situazione che, secondo i dati del National Institute on Drug Abuse statunitense, ha coinvolto tra il 21% e il 29% dei pazienti e nel 2019 ha portato alla morte per overdose di circa 50.000 persone. Il numero è stato superato tra giugno 2019 e maggio 2020, quando gli USA hanno registrato un nuovo record di overdose: 81.000 vittime in 12 mesi. La Cannabis Medicinale si pone quindi come una valida alternativa, con risvolti positivi sia dal punto di vista terapeutico che sociale.

I principi attivi contenuti nella cannabis e i loro benefici

Le patologie trattabili con la cannabis

Le molte proprietà della Cannabis si rivelano utili per numerose condizioni e patologie. Le sue proprietà analgesiche, per esempio, sono importantissime per chi soffre di dolore cronico, fibromialgia, endometriosi o dolori mestruali; le proprietà anticonvulsivanti aiutano invece i pazienti affetti da epilessia e Parkinson; quelle ansiolitiche supportano in caso di insonnia, ansia o stress. Non solo, grazie alla capacità del THC di alleviare nausea e vomito, la CM viene utilizzata da decenni anche per controllare gli effetti della chemioterapia o delle terapie contro l’HIV. E questi sono solo alcuni esempi.

Agli utilizzi già consolidati si aggiungono quelli in fase di ricerca. Tra il 2020 e il 2021, infatti, gli studi sulla CM hanno raggiunto un picco, portando a nuove teorie e scoperte che potrebbero rivoluzionare il mondo della medicina. È il caso dello studio che ha analizzato il potenziale effetto del CBD contro il cancro grazie all’azione sui geni chiave, ma anche di quello dedicato alla capacità del THC di disgregare gli agglomerati di Beta amiloide, tra le principali cause dell’Alzheimer. La ricerca, insomma, si sta ramificando e sta fiorendo in importantissime scoperte, ma tutto parte dalle sue antiche radici.

La storia della cannabis come medicina

Per quanto fondamentali per lo sviluppo di nuove terapie, infatti, le ricerche stanno in realtà cercando di dare una spiegazione teorica e scientifica a ciò che nella pratica si conosce da migliaia di anni.

Uno dei primi riferimenti alla Cannabis come medicinale, infatti, compare in un testo di oltre 5.000 anni fa che descrive le proprietà di più di 300 piante: lo Shen-nung Pen-ts’ao Ching (2737 a.C.), un volume che ha posto le basi per l’erboristeria cinese e dove la cannabis viene suggerita per oltre cento disturbi, dalla malaria ai reumatismi. Altrettanto antica è la testimonianza riportata nei Veda indiani, i testi in sanscrito risalenti al 2000 a.C. nei quali la cannabis è citata come una delle piante per liberarsi della sofferenza. Ma non c’è solo l’Asia. Anche Dioscoride Pedanio, medico e botanico alla corte di Nerone, la consigliava per le sue proprietà e come lui anche Plinio il Vecchio, che nel suo Naturalis Historia suggeriva diverse preparazioni a base di Cannabis.

Dopo secoli di utilizzo, però, papa Innocenzo VIII, con la bolla papale del 1484 (Summis desiderantes affectibus), ne proibì il consumo e l’utilizzo ai fedeli. L’ordine rientrava in una politica ben più ampia mirata a eliminare ogni tipo di eresia e stregoneria e contribuì con il tempo a creare un pregiudizio che nell’Europa cattolica del Medioevo trovò un terreno fertile nel quale crescere e prosperare.

Bisogna aspettare il 1839 per un cambiamento, avvenuto grazie al medico irlandese William B. O’Shaughnessy, che, durante un viaggio in India, riscopre la cannabis come medicina e decide di dedicarle un intero volume (On the preparations of the Indian hemp, or gunjah) nel quale approfondisce preparazioni e trattamenti di successo riscontrati per casi di convulsioni, spasmi e reumatismi. O’Shaughnessy risveglia così l’interesse della comunità scientifica dell’epoca e porta non solo alla prima conferenza dedicata organizzata dalla Ohio State Medical Society nel 1860, ma anche a una nuova ondata di ricerche che proseguirà per tutto il secolo successivo e che raggiungerà il massimo sviluppo tra gli anni ‘60 e ‘70.

La cannabis terapeutica oggi

Da allora la cannabis terapeutica ha fatto molta strada. La ricerca sempre più approfondita e il bisogno di controllare i sintomi del crescente numero di pazienti affetti da tumore e AIDS ha portato non solo alla formulazione di nuovi farmaci, ma anche a una letteratura scientifica più completa che ha spinto molti Paesi ad autorizzare il suo utilizzo. Ad aprire le danze è stata la California nel 1996, diventata il primo Stato al mondo ad adottare un sistema per disciplinare l’uso terapeutico; nove anni dopo è stato il turno del Canada, seguito da Paesi Bassi, Israele e Germania, solo per citarne alcuni.

E poi c’è stato il 2020. Nell’anno dell’emergenza sanitaria, infatti, la Commissione delle Nazioni Unite (ONU) ha compiuto un passo storico eliminando la cannabis dalla “Tabella IV della Convenzione Unica degli stupefacenti” e riconoscendone in via ufficiale gli effetti terapeutici; fino a quel momento era stata trattata al pari di oppiacei mortali come cocaina ed eroina. La ricerca, oltre che principale motore della declassificazione, sarà anche la sua prima beneficiaria, perché la decisione dell’ONU porterà alla nascita di nuovi studi in tutto il mondo.

Cannabis terapeutica in Italia

In Italia, la normativa sulla cannabis terapeutica è cambiata nel 2006, quando un’ordinanza del Ministero della Salute ha concesso non solo l’importazione di medicinali a base di THC (autorizzata dal 1998 per fini di ricerca), ma ha anche consentito ai medici di prescrivere preparazioni, allestite da farmacisti, utilizzando il Dronabinol o altre sostanze attive vegetali a base di cannabis terapeutica controllata.

A questo si sono aggiunti successivamente due decreti che hanno aggiornato le tabelle contenenti l’indicazione delle sostanze stupefacenti e psicotrope, uno nel 2007 e uno nel 2013. Il secondo, in particolare, ha allargato la prescrizione anche alla pianta e ai suoi derivati, consentendo così ai neurologi di prescrivere il Sativex®, un prodotto a base di CBD e THC per ridurre gli spasmi della sclerosi multipla. In generale, per la CM, la prescrizione medica non è ripetibile e la somministrazione avviene per via orale o inalatoria.

Un ulteriore passo avanti è stato fatto nel 2014, quando grazie a un accordo firmato tra il Ministero della Salute e quello della Difesa è stata autorizzata la produzione di preparazioni galeniche all’interno dello Stabilimento Chimico Farmaceutico Militare di Firenze, riducendo quindi non solo la dipendenza dall’importazione, ma anche i costi. La produzione toscana del Cannabis FM-2 è stata avviata nel 2016 e nel 2018 è stata seguita dalla varietà Cannabis FM-1, che prevede una percentuale di THC più elevata.

Le problematiche italiane

Nonostante il supporto teorico delle normative e l’avvio della produzione nazionale, però, la situazione a livello italiano non è delle più rosee. Da una parte, infatti, c’è la limitazione dell’utilizzo, autorizzato, nella maggior parte dei casi, solo di fronte al fallimento delle terapie tradizionali e limitato a specifiche patologie o condizioni. Dall’altra c’è il problema legato alla produzione, che attualmente non riesce a soddisfare il fabbisogno nazionale e costringe all’importazione senza però che sia garantita la continuità terapeutica ai pazienti. Una problematica, questa, che ha sollevato il dibattito sull’autoproduzione a fini terapeutici sia dentro che fuori dal Parlamento, dove a segnare la cronaca è stata la vicenda, conclusasi con l’assoluzione, di Walter De Benedetto, paziente affetto da artrite reumatoide imputato poiché coltivava cannabis a scopo terapeutico nella propria casa.

A queste problematiche si aggiunge la scarsa formazione dei medici, che anche in caso di necessità spesso non prescrivono la terapia non conoscendola approfonditamente, e la scarsa informazione dei pazienti, che molte volte non sanno di avere a disposizione questa opportunità. Ultimo, ma non meno importante, l’applicazione della normativa a livello regionale.

Ogni Regione, infatti, ha la possibilità di stabilire le proprie linee guida che possono spaziare dalla scelta delle patologie coinvolte fino alle modalità di prescrizione, passando per l’aspetto economico. In alcune, infatti, i medicinali sono a carico del Sistema Sanitario Regionaleè il caso di Emilia-Romagna, Lombardia e Puglia, per esempio — in altre, invece, è a carico dei pazienti, che si trovano così ad affrontare spese che superano i 300€ e, nei casi più complessi, arrivano anche a 1000€ mensili. La situazione avrebbe potuto cambiare nel 2017, quando è stato proposto un decreto fiscale secondo il quale la cannabis terapeutica sarebbe stata, a livello nazionale, a carico del sistema sanitario italiano, ma il decreto non è mai entrato in vigore creando così una situazione frammentata e di profonda disuguaglianza in termini di diritti alle cure. Ora, grazie alla mobilitazione dei cittadini e di alcuni membri del Parlamento, la situazione potrebbe cambiare. Lo scopriremo nel 2022.

[di Martina Sgorlon]

Ok del Senato al ddl Salvamare per recupero dei rifiuti in acqua

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Il ddl Salvamare è stato approvato in Senato con 220 voti favorevoli, nessun contrario e 15 astenuti (mossa preannunciata da Fratelli d’Italia), dopo aver ricevuto l’ok della Camera nel 2019. Il provvedimento ora dovrà passare al vaglio di un’ultima revisione, dopo leggere modifiche apportate al testo. Con la definitiva approvazione i pescatori che raccolgono rifiuti in mare, nei laghi, nei fiumi e nelle lagune non commetteranno più un illecito, potendo così portarli a terra e gettarli negli appositi punti di smaltimento che verranno istituiti all’interno dei porti. Come segnala il WWF, il 95% dei rifiuti raccolti nel Mediterraneo è costituito da plastica, la cui ingestione costituisce un pericolo per almeno 134 specie marittime, senza contare tutte quelle che rimangono impigliate nei rifiuti abbandonati.

Omicidio Youns el Boussettaoui: una storia ancora in cerca di giustizia

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Mario Venditti, coordinatore delle indagini sulla morte di Youns el Boussettaoui per mano dell’assessore leghista Massimo Adriatici, ha presenziato ad un convegno della Lega nel 2020, poco prima delle elezioni amministrative. All’incontro interviene l’eurodeputato Angelo Ciocca, che il giorno dopo l’assassinio di Youns parlerà di «chiaro episodio di legittima difesa». L’episodio, riportato in una inchiestaè forse sconveniente ma non grave per un magistrato. Tuttavia, collocato nel contesto dell’indagine per l’omicidio di Youns, costituisce un fattore equivoco che va ad aggiungersi alla già lunga lista di punti poco chiari nelle indagini. Tra questi, l’insistenza della procura per l’imputazione di eccesso colposo di legittima difesa anziché di omicidio volontario, nonostante elementi quali il pedinamento di el Boussettaoui da parte di Adriatici e l’uso di proiettili ad espansione sembrino suggerire una dinamica di tutt’altro tipo.

I fatti risalgono alla fine di luglio scorso, quando l’assessore leghista di Voghera Massimo Adriatici ha sparato a Youns el Boussettaoui un colpo di pistola in pieno petto, dopo una lite di fronte a un bar. Adriatici affermerà che il colpo è stato esploso accidentalmente nel corso della colluttazione e rimarrà saldo su questa posizione. Le indagini svolte, però, acquisiscono sin dall’inizio delle sfumature poco chiare.

L’autopsia viene effettuata in tempi record, entro dodici ore dai fatti, senza che né la famiglia né gli avvocati di el Boussettaoui ne venissero informati e fossero presenti, come invece richiesto dalla procedura. Debora Piazza, già difensore d’ufficio del trentanovenne marocchino, ha appreso dell’omicidio dai giornali. Il capo d’imputazione, che inizialmente sembrava essere di omicidio volontario, viene convertito dopo pochi giorni in eccesso colposo di legittima difesa dal pm, senza che la dinamica dei fatti fosse ancora del tutto chiara. Le registrazioni delle telecamere di sorveglianza puntate su piazza Meardi, poi, mostrano Adriatici pedinare el Boussettaoui prima della colluttazione, fatto ad ora non preso in considerazione dai pm.

In uno dei video, che ritrae i momenti immediatamente successivi ai fatti, si sente Adriatici chiedere a uno dei testimoni “Hai visto che ha fatto per darmi un calcio in testa? L’importante è quello, che hai visto che stava dandomi un calcio in testa”. Un fatto assolutamente fuori da ogni procedura: i carabinieri sono già presenti sul luogo, ma l’omicida viene lasciato aggirarsi sulla piazza e parlare con i testimoni. Nel video si possono ancora udire i lamenti di el Boussettaoui, che morirà poco dopo in ospedale. Adriatici viene poi prelevato dalla scena del crimine quasi un’ora dopo per essere interrogato. A coronare il tutto vi è il fatto che la pistola dell’assessore fosse caricata con proiettili espansivi, vietati in Italia per la difesa personale proprio in ragione dell’estremo danno che possono causare: la procura non ha tuttavia ancora preso in considerazione questo fatto, insistendo con l’imputazione di eccesso di legittima difesa.

Al netto di tutto questo, oggi Adriatici è un uomo libero, dopo aver scontato appena tre mesi ai domiciliari. Proprio per questo motivo Nicola Fratoianni, segretario regionale di Sinistra Italiana, ha presentato alla ministra della Giustizia Cartabia un’interrogazione parlamentare circa i troppi dubbi che riguardano la regolarità delle indagini. Resta da chiedersi quanto, in una partita giocata a ruoli invertiti, le Forze dell’Ordine e la procura si sarebbero dimostrate tanto garantiste nei confronti di un giovane immigrato che avesse “accidentalmente sparato” ad un assessore, uccidendolo per “legittima difesa”.

[di Valeria Casolaro]

 

USA, Corte Federale sospende obbligo vaccinale nelle aziende private

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Una Corte Federale statunitense ha sospeso l’obbligo per le aziende private con 100 o più dipendenti di richiedere il vaccino o il regolare test diagnostico per il Covid-19. Secondo quanto riportato dalla Corte, composta da un giudice voluto da Reagan e due da Trump, l’obbligo “non terrebbe conto delle differenze nei luoghi di lavoro e nei lavoratori”, e sottolinea che “l’interesse pubblico è anche servito mantenendo la nostra struttura costituzionale e mantenendo la libertà degli individui di prendere decisioni intensamente personali secondo le proprie convinzioni”. Biden aveva annunciato il provvedimento lo scorso settembre: nei giorni scorsi era stato fissato al 4 gennaio il termine entro il quale i lavoratori avrebbero dovuto completare il ciclo vaccinale. È probabile che ora il caso passerà nelle mani della Corte Suprema.

Cop26: cosa si sta decidendo concretamente al vertice sul clima

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Limite di riscaldamento globale fissato ad 1,5°C, riduzione delle emissioni di anidride carbonica del 45% entro il 2030 e zero netto intorno la metà del secolo. Importanza del ruolo dei giovani, delle comunità indigene e della natura nella lotta alla crisi climatica. E ancora, addio al carbone e richiesta di “profonde riduzioni nelle emissioni di gas serra che non siano anidride carbonica”. Queste, a grandi linee, le conclusioni emerse dalla seconda bozza del testo finale del vertice sul clima pubblicata questa mattina. Un complesso di buoni propositi che, tuttavia, non sfugge ancora alle critiche degli ambientalisti. Questi, infatti, hanno chiesto misure più concrete e messo l’accento su dei cambiamenti apportati al testo rispetto alla prima versione.

In relazione alla decarbonizzazione, nella prima bozza pubblicata due giorni fa, effettivamente, si chiedeva ai paesi di “accelerare l’eliminazione graduale del carbone e dei sussidi per i combustibili fossili”. Richiesta che, nell’ultima versione, è poi diventata “accelerare l’abbandono graduale dell’energia a carbone unabated – cioè quello non accompagnato da sistemi di riduzione delle emissioni – e dei sussidi inefficienti per i combustibili fossili”. Differenze che non sono passate inosservate e tutt’altro che viste di buon occhio da Greenpeace secondo cui «la parte chiave del testo è stata gravemente indebolita». In riferimento agli obiettivi climatici, hanno poi aggiunto «siamo passati dall’”esortare” i governi a rafforzare i loro target climatici per il 2030, al semplice “richiedere” che lo facciano entro il 2022». Considerando che le differenze tra i due testi dipendono dalle richieste avanzate dai Paesi partecipanti dopo la lettura della prima bozza, secondo la nota organizzazione ambientalista ci sarebbe ancora lo zampino delle lobby dei combustili fossili.

Tuttavia, sebbene indebolita, è la prima volta che l’eliminazione graduale delle fonti inquinanti è stata inclusa come intenzione dichiarata in una Conferenza delle Parti, tant’è che non ci si aspettava sopravvivesse alla riformulazione considerando, soprattutto, la tempestiva opposizione dei principali Paesi produttori di petrolio. Altri punti a favore, l’introduzione esplicita della parola “metano” e una maggiore enfasi al ruolo cruciale delle popolazioni indigene. Nel complesso, il vertice sul clima potrebbe anche non aver soddisfatto le aspettative, ma rappresenta comunque un decisivo passo avanti. Basti pensare, ad esempio, all’alleanza tra Cina e Stati Uniti per favorire una rispettiva riduzione delle emissioni climalteranti. Se alle parole seguiranno i fatti è tutto da vedere, ma che due superpotenze notoriamente in contrapposizione politica abbiano annunciato congiuntamente l’intenzione di agire contro la crisi climatica resta, indubbiamente, un forte messaggio. Va detto inoltre che, se troppo drastica, come effettivamente sarebbe necessario, la Cop semplicemente fallirebbe del tutto. Che lo si voglia o meno, infatti, gli interessi in ballo sono tanti, meglio quindi addolcire gradualmente la pillola.

Eppure nemmeno la giovane Greta Thunberg, icona dell’attivismo climatico contemporaneo, si è trattenuta dal muovere pesanti critiche agli esiti del vertice. Già venerdì scorso, senza mezzi termini, ha definito la Cop26 «un fallimento», in particolare, in relazione alla mancanza di immediate e drastiche misure che portino a consistenti riduzioni annuali delle emissioni. Secondo un rapporto dell’Agenzia internazionale dell’energia, nel caso in cui tutti gli impegni assunti dalla comunità internazionale nell’ambito del vertice venissero rispettati, si riuscirà a mantenere l’aumento della temperatura terrestre circa a +1,8° rispetto ai livelli preindustriali. Quindi, il target degli 1,5°C verrebbe sì disatteso, ma c’è da dire che gli scienziati climatici comunque raccomandano un contenimento non superiore ai 2°C. Tuttavia, secondo un’altra ricerca firmata in questo caso dal Climate Action Tracker, tenendo conto delle dichiarazioni, anche non vincolanti, dei paesi partecipanti alla Cop26, la temperatura aumenterà di oltre 2,4°C entro la fine del secolo.

In definitiva, riepiloghiamo. Sono stati stanziati 12,2 miliardi di dollari allo scopo di fermare la deforestazione entro il 2030 dove, sebbene sorprenda l’adesione del Brasile di Bolsonaro, pesa l’assenza dell’Indonesia dell’olio di palma. Novanta paesi hanno poi firmato l’accordo per ridurre le emissioni di metano del 30% entro il 2030, pur gravando la mancata partecipazione di Cina, Russia ed India. È emerso, inoltre, un impegno finalizzato alla chiusura delle centrali a carbone, dove rincuora la partecipazione della Polonia ma scoraggia l’assenza delle principali potenze inquinanti. E ancora, stop ai sussidi pubblici a Paesi terzi per infrastrutture basate sui combustibili fossili. Una misura notevole, quest’ultima, sebbene firmata da appena 20 tra nazioni ed istituzioni finanziarie.

Tra le principali criticità vanno invece citati gli aiuti economici che i paesi in via di sviluppano aspettano dal 2009: 100 miliardi di euro all’anno per far sì che possano affrontare la transizione energetica. Senza mai ottenere nulla, i paesi meno sviluppati, infatti, da tempo chiedono che le economie avanzate, responsabili delle emissioni accumulate dal 1750 a oggi, compensino anche i danni provocati dai disastri climatici e si facciano carico delle spese richieste dalla conversione alla sostenibilità. Se i paesi del Nord del mondo ancora una volta deluderanno le loro aspettative, c’è il rischio che 120 delegazioni legate ai Paesi vulnerabili si oppongano facendo fallire la Cop26. Una strada questa tentata da diversi negoziatori sauditi venerdì scorso, i quali hanno cercato di bloccare le trattazioni in corso sulla stesura della cosiddetta “decisione di copertura” per il testo finale, facendo pressioni affinché le misure di sostegno ai paesi poveri e vulnerabili da parte di quelli più ricchi venissero annullate. Il fatto che una nazione storicamente legata all’industria fossile possa aver influenza la dice lunga sull’autenticità delle decisioni prese al vertice. Così come insospettisce l’elevato numero di delegati accreditati al summit e legati al settore del petrolio e del gas. Tuttavia, in ultima analisi, se la Cop26 sia stata un successo o il solito “bla bla bla” aspettiamo a dirlo.

[di Simone Valeri]