Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato una estensione della data di inizio dei cosiddetti dazi reciproci, fissandola al 1° agosto. I dazi sarebbero dovuti entrare in vigore il 9 luglio. Rispondendo a una domanda su eventuali ulteriori rinvii, Trump ha affermato di avere preso una decisione ferma, ma non al 100%. Trump ha inoltre affermato che gli Stati Uniti avrebbero imposto tariffe del 25% sui prodotti provenienti da Giappone, Corea del Sud, Tunisia, Malesia e Kazakistan, con imposte del 30% su Sudafrica e Bosnia-Erzegovina, che sarebbero salite al 32% sull’Indonesia, al 35% su Serbia e Bangladesh, al 36% su Cambogia e Thailandia e al 40% su Laos e Birmania.
Netanyahu vola da Trump: “Israele controlli la sicurezza in Palestina”
Il premier israeliano Netanyahu è arrivato alla Casa Bianca per un incontro con il presidente degli Stati Uniti, Trump. I due leader hanno detto di stare lavorando a un cessate il fuoco a Gaza e di intrattenere colloqui con i Paesi della regione per portare avanti il piano di deportazione dei palestinesi promosso da Trump. Il premier israeliano ha inoltre affermato che il suo piano per il futuro della Palestina prevede una soluzione in cui i palestinesi detengano il controllo amministrativo delle proprie aree, cedendo a Israele il controllo «della sicurezza». Netanyahu ha candidato Trump al Nobel per la Pace.
Caso Epstein: le indagini dell’FBI si chiudono con un nulla di fatto
A quasi sei anni dalla morte di Jeffrey Epstein, il milionario pedofilo al centro di un vasto giro di traffico sessuale internazionale, le indagini ufficiali dell’FBI e del Dipartimento di Giustizia statunitense sembrano voler chiudere definitivamente il caso, con una conclusione tanto semplice quanto disarmante: nessuna prova di omicidio, nessuna lista clienti, nessun ricatto ai danni di élite politiche o finanziarie. In particolare, negare l’esistenza di una lista clienti e il conseguente ricatto dei potenti equivale a cancellare la parte più esplosiva dell’inchiesta che riguarda Epstein e la sua ex compagna, ancora in carcere, Ghislaine Maxwell.
Considerato il volume e la gravità delle irregolarità emerse negli anni successivi al decesso, la mossa dell’FBI sembra voler mettere a tacere le inchieste e le rivelazioni sconcertanti che si sono susseguite nel tempo, e sta suscitando un mix di perplessità e indignazione collettiva, a due mesi e mezzo dallo “strano” suicidio di Virginia Giuffrè, la principale accusatrice di Epstein e del principe Andrea.
Tra chi vede la vicenda come l’ennesimo cover-up globale troviamo Elon Musk, ora nemico giurato di Trump, che su X ha sbeffeggiato le conclusioni dell’indagine. In un post appare l’immagine di un timer azzerato con la scritta: «Che ore sono? Oh, guarda, è di nuovo l’ora in cui nessuno è stato arrestato…». Dopo la rottura pubblica del 5 giugno scorso con il presidente americano, l’imprenditore sudafricano aveva accusato Trump di essere «nei file di Epstein. Questo è il vero motivo per cui non sono stati resi pubblici», per poi scusarsi e cancellare il tweet.
Un decesso pieno di incongruenze
Sul caso Epstein, il 27 febbraio 2025, l’attorney general Pamela Bondi aveva reso nota una prima parte di file declassificati che, però, contenevano in gran parte documenti già trapelati, anche se mai resi pubblici ufficialmente dal governo americano. Le carte hanno suscitato delusione generale, poiché non rivelavano nulla di nuovo. Ora, secondo quanto anticipato da Axios, l’amministrazione Trump ha diffuso un video che dimostrerebbe che nessuno sarebbe entrato nel carcere la notte della morte di Epstein. Il breve filmato, datato 9 agosto 2019, mostra il finanziere mentre viene accompagnato da una guardia nella sua cella.
La ricostruzione ufficiale parla di suicidio per impiccagione. Le circostanze in cui è avvenuta la morte – il 10 agosto 2019 presso il Metropolitan Correctional Center di New York, una struttura federale ad alta sicurezza – appaiono, a dir poco, misteriose, con una lunga serie di anomalie. Il primo a suggerire che si fosse trattato di omicidio fu proprio Donald Trump, che su Twitter rilanciò alcune teorie del complotto, puntando addirittura il dito contro i Clinton.
Poche settimane prima di morire, come riportato dal Daily Mail, Epstein aveva confidato alle guardie del carcere che qualcuno voleva ucciderlo. La stessa fonte lo aveva incontrato in varie occasioni durante la detenzione, affermando che il finanziere, solitamente riservato, sembrava di buon umore: «Non c’erano segnali che potesse tentare il suicidio».
Il 23 luglio, esattamente tre settimane prima della morte, Epstein fu trovato privo di sensi nella sua cella con lesioni al collo. Il finanziere sostenne di essere stato aggredito dal suo compagno di cella, l’ex poliziotto Nick Tartaglione, 52 anni. Tartaglione, accusato di aver ucciso quattro uomini, ha negato l’aggressione. L’episodio giustificò l’inserimento nel protocollo anti-suicidio, revocato inspiegabilmente il 29 luglio, solo 12 giorni prima della morte. La sorveglianza prevista ogni 30 minuti non fu rispettata: la notte tra il 9 e il 10 agosto, i controlli non furono effettuati per quasi nove ore. Come se non bastasse, le telecamere di sorveglianza esterne alla cella risultarono malfunzionanti. I video? Danneggiati o cancellati “per errore tecnico”.
Il compagno di cella di Epstein fu trasferito poche ore prima della morte, nonostante le norme prevedano la presenza obbligatoria di un secondo detenuto. Secondo fonti citate dal Washington Post, almeno otto membri del personale del Federal Bureau of Prisons avrebbero ignorato l’ordine di non lasciare Epstein da solo. In parallelo, due guardie furono successivamente accusate di falsificazione di documenti, mentre oltre 20 membri del personale carcerario furono oggetto di mandati di comparizione. La direttrice del carcere, Shirley Skipper-Scott, fu trasferita.
L’autopsia ufficiale, firmata da Barbara Sampson, confermò la morte per impiccagione. Ma un’analisi indipendente del patologo forense Michael Baden – già coinvolto in casi celebri come quello di O.J. Simpson – evidenziò lesioni atipiche per un suicidio:
- Tre fratture nella cartilagine tiroidea e nell’osso ioide, raramente riscontrate in impiccagioni volontarie, ma compatibili con strangolamento.
- Contusioni, ematomi e ferite su polsi, spalla, labbro e braccio, né spiegate né documentate nel rapporto ufficiale.
- Presenza di capillari esplosi su viso e occhi, ulteriore segnale di strangolamento manuale secondo Baden.
Secondo il noto patologo, le lesioni – in particolare le tre fratture al collo – non sarebbero compatibili con un suicidio: «Le prove indicano un omicidio piuttosto che un suicidio», ha dichiarato in un’intervista a Fox & Friends.
A tutto questo si aggiunge un altro dato inquietante: non esiste alcuna immagine del cadavere di Epstein all’interno della cella, come confermato dalla trasmissione d’inchiesta 60 Minutes, che ha dedicato un’intera puntata alla vicenda su CBS.
La questione della “lista clienti”
L’aspetto più controverso dell’indagine dell’FBI è l’affermazione secondo cui non esisterebbero prove che Epstein tenesse una lista clienti o praticasse ricatti ai danni dei potenti.
Un’affermazione in netto contrasto con:
- Le testimonianze giurate di numerose vittime, che parlano di personalità influenti (politici, reali, banchieri, imprenditori) coinvolte nei festini con minori.
- I documenti sequestrati nella residenza di Epstein: hard disk, video, fotografie compromettenti, registri di volo del jet privato (soprannominato Lolita Express).
- Le dichiarazioni di avvocati e investigatori indipendenti, che descrivono un sistema di raccolta di materiale compromettente da usare come strumento di pressione e ricatto.
Sostenere oggi che «non ci sono prove» equivale a rimuovere decine di elementi raccolti negli anni, trasformando un caso giudiziario esplosivo in un incidente burocratico archiviato per “mancanza di evidenze”. Negare l’esistenza di una lista clienti significa cancellare la rete e, con essa, ogni complicità.
Indagine o insabbiamento?
La chiusura del caso Epstein da parte dell’FBI rappresenta, a tutti gli effetti, un esempio da manuale di gestione del danno istituzionale. Invece di fare luce sulle ramificazioni globali di un sistema di abusi con protezioni ai più alti livelli, si è scelto di archiviare il caso, tra omissioni, “errori tecnici” e silenzi strategici.
La narrazione ufficiale riduce la morte di Epstein a un evento isolato, scollegato da tutto ciò che rappresentava in vita: un nodo nevralgico nel cuore di una rete internazionale di potere, sesso, pedofilia, ricatto e manipolazione.
La domanda resta aperta: se davvero non c’è nulla da nascondere, perché è stato fatto di tutto per non vedere?
Per i suoi legami oscuri con CIA e Mossad. Come ben documentato nel libro Robert Maxwell: Israel’s Superspy (2002), il padre di Ghislaine – compagna storica di Epstein – sarebbe stato un agente di alto livello del Mossad. Robert Maxwell, imprenditore ed editore, grande antagonista di Rupert Murdoch, morì il 5 novembre 1991 alle Canarie per un presunto infarto, anche se tre patologi forensi smentirono questa ipotesi.
Secondo un altro saggio, Dead Men Tell No Tales, a introdurre Epstein nei circoli dell’intelligence israeliana sarebbe stato proprio Maxwell. Da giovane, il finanziere frequentava la casa dell’editore, dove conobbe Ghislaine, con la quale ebbe una lunga relazione.
Secondo l’ex agente del Mossad Ari Ben-Menashe, Jeffrey Epstein e Ghislaine Maxwell avrebbero procurato ragazze minorenni a politici e potenti di tutto il mondo, per poi ricattarli per conto dei servizi segreti israeliani.
Russia: ministro rimosso da Putin si suicida
Questa mattina, a Mosca, il ministro dei trasporti russo, Roman Starovoit, è stato trovato morto nella sua macchina, poco dopo essere stato rimosso dal proprio incarico dal presidente russo Vladimir Putin. Secondo le indagini preliminari, Starovoit si sarebbe suicidato, sparandosi un colpo di arma da fuoco. Starovoit era stato sollevato dall’incarico proprio questa mattina, ed era stato sostituito da Andrej Nikitin, nominato ministro ad interim. Da quanto comunica il portavoce del Cremlino, Starovoit non sarebbe stato rimosso dall’incarico per una «perdita di fiducia».
Kenya, la polizia spara sui manifestanti
La polizia keniota ha aperto il fuoco su una folla di manifestanti in corteo a Nairobi. La notizia arriva da un giornalista dell’agenzia di stampa Reuters, che ha reso noto anche l’uso di gas lacrimogeni e idranti per disperdere la folla. La sparatoria sarebbe avvenuta su una delle arterie principali della capitale, su cui stavano marciando centinaia di persone. Tra manifestanti e forze dell’ordine si sarebbe verificato uno scontro, e la polizia avrebbe sparato in direzione della folla. Ancora ignoto il numero di eventuali vittime e feriti. Le manifestazioni in Kenya sono iniziate lo scorso giugno, quando un la polizia ha ucciso un blogger in occasione di una marcia commemorativa.
La Cina punta sullo yuan digitale per costruire un sistema monetario multipolare
La Cina sta giocando un ruolo sempre più centrale nella ridefinizione degli equilibri finanziari globali, e le recenti dichiarazioni del governatore della Banca Popolare Cinese, Pan Gongsheng, non lasciano dubbi sulla direzione intrapresa da Pechino. L’impegno ad espandere l’uso internazionale dello yuan digitale (e-CNY) e la richiesta esplicita di un sistema valutario globale multipolare non sono semplici proclami, ma tasselli fondamentali in un disegno geopolitico ben più ampio: la progressiva de-dollarizzazione e la creazione di un nuovo ordine mondiale, il quale, come già abbiamo avuto modo di scrivere, passa (anche) dalla moneta. Il potere egemonico degli Stati Uniti è stato a lungo sostenuto dal dominio del dollaro nel sistema finanziario globale, un’egemonia consolidata prima dagli accordi di Bretton Woods e poi dal sistema dei “petrodollari”. Tuttavia, l’erosione di questo potere è diventata un obiettivo chiave per sottrarsi dall’orbita finanziaria statunitense e costruire una vera indipendenza economica e politica. È in questo contesto che si inserisce la promozione dello yuan digitale da parte della Cina.
Pan Gongsheng ha annunciato l’istituzione di un centro operativo internazionale per l’e-CNY a Shanghai, sottolineando come le tecnologie digitali abbiano esposto le debolezze dei tradizionali sistemi di pagamento transfrontalieri. Questi, a suo dire, come riportato da Reuters, possono essere «facilmente politicizzati e armati» e «utilizzati come strumento per sanzioni unilaterali, danneggiando l’ordine economico e finanziario globale». Questa visione trova un’eco perfetta nelle motivazioni che spingono numerosi paesi a cercare alternative al dollaro, in particolare dopo la reazione internazionale alle sanzioni imposte da Washington nei confronti della Russia, e più in generale l’utilizzo del dollaro come “arma finanziaria”, ha accelerato la ricerca di circuiti finanziari alternativi al sistema SWIFT, inclusa l’esplorazione delle criptovalute. Altra conferma a supporto di questo la recente, e non ancora conclusa, guerra commerciale mondiale di Trump. L’ambizione della Cina di far diventare lo yuan una valuta globale non è nuova, ma sta acquisendo nuovo slancio. Alla metà del giugno appena trascorso, sei banche straniere – Standard Bank, African Export-Import Bank, First Abu Dhabi Bank, Eldik Bank, United Overseas Bank e Bangkok Bank – si sono unite al sistema di pagamento interbancario transfrontaliero cinese (CIPS), in un chiaro segnale di espansione dell’uso dello yuan nel commercio globale.
Almeno il 70% degli accordi commerciali tra Russia e Cina avviene in rubli o yuan, mentre il ministero delle finanze russo, come riportava TRT World già lo scorso anno, sostiene che si siano raggiunti picchi del 90%. Intanto l’India sta spingendo per l’internazionalizzazione della rupia. Dunque, il gruppo BRICS è in prima linea nel processo di de-dollarizzazione e di cambiamento degli equilibri economici, valutari e finanziari globali. In cantiere c’è anche la creazione di una nuova valuta internazionale, potenzialmente digitale e legata a un paniere di valute o a materie prime come l’oro. Un impulso significativo a questo processo viene anche dal parziale allontanamento delle monarchie del Golfo rispetto agli Stati Uniti. La possibilità per i sauditi di commerciare petrolio con la Cina in yuan, mettendo in discussione il meccanismo dei petrodollari a favore del petroyuan, rappresenta un duro colpo all’egemonia americana. La Cina sta attivamente incentivando questa de-dollarizzazione, come dimostrato dall’espansione del suo sistema di pagamento interbancario transfrontaliero alla regione del Consiglio di Cooperazione del Golfo.
La creazione di un mondo multipolare dipende intrinsecamente da un cambiamento nel sistema finanziario globale. L’internazionalizzazione dello yuan digitale, promossa con determinazione da Pechino, è un elemento cruciale in questa trasformazione. Sebbene la strada verso una piena de-dollarizzazione e la realizzazione di una moneta comune BRICS sia ancora lunga e complessa, il processo è chiaramente avviato. La sfida lanciata all’Occidente liberale dai paesi del Sud Globale, con la Cina in veste di leader globale, è una delle più significative nel rimodellare gli equilibri di potere del XXI secolo.
Il fondo d’investimenti BlackRock ha deciso di abbandonare l’Ucraina

Il fondo di investimenti BlackRock ha interrotto la sua ricerca di investitori per sostenere il Fondo di Sviluppo ucraino. La notizia arriva a una manciata di giorni dalla presentazione del Fondo, che si sarebbe tenuta i prossimi 10 e 11 luglio a Roma in occasione della conferenza per la ripresa dell’Ucraina. Da quanto si apprende da fonti mediatiche, la scelta di BlackRock sarebbe arrivata già a inizio 2025, in risposta alla vittoria di Trump alle elezioni presidenziali statunitensi. Zelensky ha contatti con BlackRock sin dal 2022. Proprio il sostegno del colosso della finanza fu uno degli elementi fondamentali che portò alla nascita dell’iniziativa del Fondo di Sviluppo ucraino. Il Fondo era stato annunciato nel 2023 e intendeva attirare capitali privati per finanziare i progetti di ricostruzione del Paese.
La notizia sulla ritirata di BlackRock dal Fondo di Sviluppo ucraino è stata data dal sito di informazione Bloomberg. Bloomberg spiega che negli ultimi mesi del 2024, il colosso finanziario era sulla buona strada per ottenere oltre 2,5 miliardi di dollari da Paesi, banche di sviluppo, investitori privati e altri enti finanziari. Sotto la guida del vicepresidente di BlackRock, Philipp Hildebrand, i colloqui sembravano procedere rapidamente, e il gruppo sarebbe stato vicino a trovare i finanziamenti per almeno 15 miliardi di dollari di lavori di ricostruzione per l’Ucraina. Tale cifra avrebbe rappresentato solo l’inizio del percorso di finanziamento di Kiev, visto che attualmente la Banca Mondiale stima il costo per la ricostruzione del Paese a 500 miliardi di dollari. I progressi, riporta Bloomberg, si sarebbero interrotti bruscamente a gennaio, quando Trump era ormai prossimo a tornare alla Casa Bianca. A guidare tale decisione, il quadro sempre più incerto in cui sembrava andarsi collocando l’Ucraina, davanti a un allora quasi presidente che non pareva voler continuare a portare avanti il supporto incondizionato dell’uscente amministrazione Biden. Per tale motivo, anche l’interesse degli investitori sarebbe calato. Un portavoce di BlackRock avrebbe detto a Bloomberg che l’azienda avrebbe completato il suo lavoro di consulenza pro bono sul Fondo per lo Sviluppo dell’Ucraina nel 2024, e che attualmente non sarebbe impegnata in alcun mandato attivo con il governo ucraino.
Il Fondo di Sviluppo ucraino avrebbe dovuto essere presentato tra il 10 e l’11 luglio a Roma, e pare che fosse ormai vicino a ottenere il sostegno iniziale da parte di enti sostenuti dai governi di Germania, Italia e Polonia. Il governo italiano, contattato da Bloomberg, non ha rilasciato dichiarazioni sulla notizia dell’abbandono di BlackRock. L’iniziativa di istituire il Fondo di Sviluppo ucraino era stata lanciata nel 2023 allo scopo di attrarre capitali privati per finanziare i progetti di ricostruzione del Paese. Il presidente ucraino, tuttavia, ha contatti con il gruppo finanziario sin dal 2022, quando volò a Davos anche per firmare nuovi accordi per la ricostruzione post-bellica con BlackRock. In generale, i progetti per la ricostruzione del Paese e i prestiti erogati all’Ucraina, finanziati tra gli altri anche da JP Morgan, Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale, sono subordinati a precise richieste di riforme a Kiev, che favoriscono la penetrazione degli interessi privati.









