mercoledì 7 Maggio 2025
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Gli incendi in California e il classismo dei media dominanti

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Los Angeles brucia da una settimana, e i grandi media italiani stanno iniziando, molto timidamente, a notare che a venire investite dalle fiamme non sono solo le case delle grandi star di Hollywood, ma anche – e soprattutto – quelle della cosiddetta “gente comune”. Buona parte di Altadena è stata inghiottita dall’Eaton Fire, e i soccorsi sarebbero arrivati ben più tardi che nei quartieri esclusivi della città del cinema. In tutta la contea, molte delle case colpite non sono coperte da clausole anti-incendio; in generale, gli incendi hanno devastato un’area grande quanto San Francisco, uccidendo 24 persone, causando 150.000 sfollati e provocando 150 miliardi di dollari di danni, di cui al massimo un 40% risulterebbe coperto da assicurazioni. Lo stesso popolo statunitense sta iniziando a sottolineare l’ipocrisia dietro questo doppio standard: il pompiere privato assunto dalla star del cinema è un operatore in meno dove c’è davvero bisogno; una delle diverse ville dell’imprenditore losangelino non è comparabile all’unica casa con il mutuo in sospeso dell’ordinario cittadino.

L’incendio di Los Angeles è scoppiato nella mattina di martedì 7 gennaio, attorno alle 10:30 (ora locale). Secondo il Los Angeles Times, tutto sarebbe partito dalla località di Skull Rock, a nord di Sunset Boulevard, a Pacific Palisades, quartiere esclusivo di Los Angeles situato a nord-ovest della città e sede di ville multimilionarie, da cui prende nome uno dei roghi (il Palisades Fire). Da lì, le fiamme si sono estese in tutta Los Angeles e nella vicina Contea di Ventura, causando sei diversi incendi, di cui tre ancora attivi. L’incendio di Palisades, il più esteso dei vari, è contenuto al 14%, ha bruciato più di 23.700 acri (circa 9.500 ettari) e oltre 5.300 strutture all’interno e intorno a Pacific Palisades, e ha ucciso almeno otto persone. Le fiamme dell’incendio di Eaton, sul lato est della città, vicino a Pasadena, risultano contenute al 33%. Il rogo ha ucciso almeno 16 persone, bruciato 14.117 acri (5.710 ettari) e distrutto oltre 7.000 strutture. L’Hurst Fire, a nord, infine, è praticamente estinto e ha bruciato 799 acri (320 ettari). Le stime dei danni continuano a crescere: Accuweather parla di una cifra che varia dai 135 ai 150 miliardi di dollari. Quando la cifra ammontava a 50 miliardi, JP Morgan aveva stimato che circa 20 miliardi sarebbero stati coperti dalle assicurazioni, ma per ora sembra assente un’analoga stima sulla nuova cifra ipotizzata da Accuweather.

Sin dall’inizio degli incendi, i media di tutto il mondo hanno riportato la notizia concentrandosi sulle case dei grandi attori e imprenditori hollywoodiani colpite dalle fiamme, spendendo, di contro, ben poche parole per quelle centinaia di migliaia di cittadini che, con la casa, hanno perso tutto. Dopo tutto, è dal 2020 che, proprio a causa degli incendi, il settore assicurativo della Contea vive una crisi senza precedenti. I frequenti incidenti hanno fatto lievitare i prezzi delle polizze anti-incendio, e in tanti sono stati costretti a rinunciarvi. Nella maggior parte dei casi, però, a tagliare i premi sono state direttamente le assicurazioni, come nel caso del gruppo State Farm, che l’anno scorso ha annunciato il taglio di 72.000 polizze. In totale, tra il 2020 e il 2022, nella sola Contea di Los Angeles, riporta CNN citando il Dipartimento delle assicurazioni della California, non sono state rinnovate 531.000 assicurazioni sulla casa.

Questo è uno dei motivi per cui sul web sta iniziando a emergere un sentimento di generale fastidio – e in taluni casi odio – nei confronti delle persone più privilegiate. Questa sorta di “effetto Mangione”, seppur moderato, è direzionato verso tutte quelle celebrità e personalità abbienti che il pubblico ritiene in una certa misura responsabili degli incendi. Un articolo del Daily Mail riporta la rabbia degli utenti dei social nei confronti di coloro che – prima degli incendi – hanno violato le regole sul consumo dell’acqua per irrigare i propri giardini. Altri puntano il dito contro la famiglia Resnick, magnati dell’agricoltura proprietari dell’azienda Wonderful Pistachios, che secondo lo stesso Daily Mail «consuma più acqua di intere città, anche se i vigili del fuoco di Los Angeles non riescono a estrapolarne una goccia dagli idranti che costeggiano le strade». Contro di loro è stato lanciato un movimento di boicottaggio, mentre l’azienda ha smentito le accuse.

I Resnick sono criticati anche per i loro presunti rapporti con la politica, e specialmente con i democratici, accusati anch’essi di essere responsabili degli incendi a causa delle politiche di gestione dell’acqua e dei tagli ai dipartimenti di vigili del fuoco. Il moto di odio sta prendendo di mira anche coloro che si possono permettere pompieri privati: tutto è iniziato con un post sul social X pubblicato (e poi cancellato) da Keith Wasserman, in cui l’imprenditore scriveva che avrebbe pagato «qualsiasi somma di denaro» per assumere squadre private di vigili del fuoco che dedicassero i loro sforzi a domare le fiamme del proprio quartiere. Questa ondata di critiche si è acuita ancora di più con la notizia che i prezzi di listino per il servizio erogato dai pompieri privati sarebbero aumentati, e con l’annuncio che lo Stato della California avrebbe dispiegato prigionieri per rinforzare il contenimento delle fiamme, pagandoli un dollaro all’ora.

Con il passare dei giorni, la rabbia si sta sempre più generalizzando, stanno sorgendo battute sul fatto che stiano bruciando ville con piscina, e stanno spuntando meme su Hollywood in fiamme. Questa rabbia amara è spinta tra le altre cose anche da denunce da parte dei cittadini di Altadena, località a nord di Pasadena tra le più colpite dagli incendi, che hanno denunciato un’iniqua distribuzione dei vigili del fuoco, che si concentrerebbe proprio nelle aree più ricche della Contea. Il presunto doppio standard statunitense sta venendo rimarcato anche con espliciti riferimenti a Gaza, mettendo in parallelo la copertura mediatica degli eventi: l’ultima settimana di distruzione che ha vissuto Los Angeles è quello che la Palestina subisce da quindici mesi, ma a quanto pare, lamentano gli utenti, se non si tratta di VIP non interessa a nessuno.

[di Dario Lucisano]

Lo Stato vuole che i No TAV paghino le spese per la repressione della Val di Susa

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Quasi 7 milioni di euro. È questa l’impressionante cifra che la Presidenza del Consiglio, insieme ai Ministeri dell’Interno e della Difesa, ha richiesto come risarcimento ai 28 imputati nel maxiprocesso contro i membri del centro sociale torinese Askatasuna e il movimento No TAV. Secondo l’Avvocatura dello Stato, i 28 dovrebbero sobbarcarsi con 250.000 euro a testa il conto complessivo delle spese sostenute dalle istituzioni per fronteggiare le manifestazioni che, tra il 2020 e il 2021, hanno infiammato la Valle di Susa e, in alcune occasioni, anche la città di Torino. A dicembre, i pm avevano chiesto per gli imputati un totale di 88 anni di carcere. Tra le accuse, per molti di loro, anche quella di associazione a delinquere.

Nella memoria consegnata ieri dai legali dell’Avvocatura distrettuale al processo che sta ricostruendo le presunte responsabilità degli attivisti per alcuni scontri con le forze dell’ordine avvenuti in Piemonte si elencano costi dettagliati: 4,1 milioni solo per il ripristino dell’ordine pubblico, con 205.988 agenti schierati nel 2020 e 266.451 l’anno successivo; a questi si aggiungono 135 mila euro per straordinari, 86 mila per l’assistenza agli agenti feriti, 40 mila per i veicoli di servizio danneggiati e 3 milioni per danni non patrimoniali, come l’eco mediatica negativa e la lesione al prestigio delle istituzioni. Accanto alle richieste dello Stato, vi è poi quella di TELT, la società incaricata della costruzione del Tav Torino-Lione, che attraverso il proprio legale ha chiesto un risarcimento di 1 milione di euro per i danni subiti dai cantieri, spesso oggetto di sabotaggi e incursioni. Dal canto suo, la Procura di Torino punta il dito contro un presunto «comitato ristretto» all’interno di Askatasuna, accusato di orchestrare e dirigere le azioni violente sotto il vessillo del movimento No TAV. L’impostazione accusatoria dipinge un quadro in cui la violenza è sistematica e organizzata per destabilizzare l’ordine pubblico e acquisire consenso politico. La difesa, però, non ci sta. L’avvocato Claudio Novaro ha criticato duramente l’impianto della Procura, definendolo un «teorema accusatorio che vuole negare la politicità dell’agire degli imputati, relegando la storia dei movimenti a espressioni deliquenziali, complotti criminali e nient’altro». Un altro elemento critico è il cosiddetto “danno non patrimoniale”, che include aspetti difficilmente quantificabili, come l’impatto mediatico delle proteste e il presunto danno alla credibilità delle istituzioni. Per molti osservatori, questa parte della richiesta rischia di trasformarsi in un monito generalizzato contro chi osa protestare, legittimando un principio per cui chi manifesta deve pagare non solo per eventuali danni materiali, ma anche per i costi delle operazioni di polizia.

Lo scorso dicembre, durante la requisitoria del processo, la Procura di Torino ha chiesto condanne a ottantotto anni di carcere complessivi per 28 persone, con pene da 1 a 7 anni. Tra gli imputati, 16 si trovano ad affrontare l’accusa più grave, ovvero quella di associazione a delinquere: due in quanto ideatori della presunta associazione, sei in quanto promotori e altri 8 come partecipanti Molti dei militanti di Askatasuna coinvolti sono infatti anche membri del Movimento No TAV, realtà di resistenza tra le più tenaci e organizzate in Italia, che da decenni lotta contro la devastazione del territorio della Val di Susa dovuto alla costruzione della grande opera. Le accuse si basano su intercettazioni raccolte tra il 2019 e il 2021, utilizzate, secondo gli attivisti, in maniera «completamente decontestualizzata». Inizialmente, la Procura aveva ipotizzato il reato di associazione a delinquere con finalità eversive, uno dei più gravi del nostro ordinamento. In base a ciò, venne richiesto lo sgombero del centro sociale Askatasuna e di vari altri edifici occupati a Torino, nonchè di tutti i presidi No TAV in Val di Susa. L’accusa iniziale è stata tuttavia rigettata dal giudice dell’udienza preliminare e successivamente riformulata in associazione a delinquere.

[di Stefano Baudino]

Corea del Sud, il presidente Yoon è stato arrestato

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Il presidente sudcoreano Yoon Suk Yeol è stato arrestato dalle autorità, diventando così il primo presidente in carica nella storia del Paese a essere arrestato. L’arresto arriva dopo il tentativo di imporre la legge marziale lo scorso 3 dicembre, per il quale il presidente è sotto impeachment, procedimento attualmente in analisi presso la Corte Costituzionale. Il mandato di arresto è stato emesso sulla base delle accuse di insurrezione, tradimento e abuso di potere, e ha seguito la mancata risposta di Yoon alle convocazioni per gli interrogatori. Dopo un fallito tentativo di arresto, il presidente è stato fermato nelle prime ore di oggi.

In Perù sono state scoperte 27 nuove specie animali

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Ventisette specie animali precedentemente sconosciute sono state scoperte in una foresta tropicale in Perù. A stupire, più che i ritrovamenti, è il fatto che essi siano avvenuti in una zona remota ma, allo stesso tempo, popolata: si tratta dell'Alto Mayo, regione nota per la sua biodiversità. Essa è coperta da una foresta pluviale tropicale, che fornisce rifugio a molti animali in via di estinzione. A condurre lo studio è stata una squadra di ricercatori dell'organizzazione ambientalista Conservation International. Il team è partito due anni fa e ha trascorso sei settimane documentando la pres...

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Il Mali ha iniziato a sequestrare l’oro alle multinazionali straniere

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L’azienda di estrazione mineraria Barrick Gold, la seconda più importante al mondo, ha dovuto interrompere le operazioni di estrazione dell’oro dal complesso minerario di Loulo-Gounkoto, in Mali, dopo che il governo ha sequestrato provvisoriamente le scorte estratte dal sito e le ha messe sotto custodia in una banca locale. La decisione è giunta in quanto il governo ritiene che l’azienda non stia rispettando i termini di un contratto che prevede una redistribuzione più equa delle ricchezze estratte dalla cava per tutte le parti in gioco.

La disputa tra Mali e Barrick ha inizio vari mesi fa. Nell’autunno scorso, il ministero delle Miniere e il ministero delle Finanze del Mali avevano accusato l’azienda di non rispettare i termini di un accordo siglato con il governo, finalizzato a raggiungere una più equa redistribuzione delle ricchezze derivanti dallo sfruttamento delle risorse minerarie del Paese. Tra i termini previsti, vi era un aumento della quota statale dei benefici economici generati dal complesso minerario di Loulo-Gounkoto. Il nuovo codice minerario approvato dalla giunta golpista di Assimi Goïta, in carica dal 2021, ha infatti aumentato la quota massima per gli investitori statali e locali sulle miniere dal 20% al 35%. Barrick ha dichiarato di aver effettuato verso il goveno un pagamento di 50 miliardi di CFA (85 milioni di dollari) all’inizio di ottobre, il quale non ha evidentemente soddisfatto il governo maliano. Secondo quanto sarebbe stato riferito a Reuters dai dipendenti di Barrick impiegati nella miniera, infatti, il valore complessivo dello stock di Loulo-Gounkoto, pari a 4 tonnellate metriche, è di circa 380 milioni di dollari. E se da un lato le riserve di Loulo-Gounkoto rappresentano circa un settimo della produzione d’oro stimata da Barrick per il 2025, queste costituiscono l’80% delle esportazioni del Mali nel 2023.

Nel settembre dello scorso anno, inoltre, le autorità maliane avevano arrestato e detenuto quattro dipendenti dell’azienda, mentre l’11 gennaio scorso, secondo quanto riferito dai dipendenti a Reuters, il governo ha iniziato ad applicare l’ordine provvisorio di sequestro delle scorte d’oro presenti nel sito. In una comunicazione di oggi (14 gennaio), Barrick ha infine annunciato la sospensione temporanea delle operazioni nel sito. Il governo, riferisce l’azienda, ha spostato le scorte di oro dalla miniera a una banca di custodia, impedendo fisicamente la spedizione e la vendita del materiale. «Barrick rimane impegnata in un rapporto costruttivo con il goveno maliano e con tutte le parti interessate per trovare una soluzione amichevole che garantisca la sostenibilità a lungo termine del complesso minerario di Loulo-Gounkoto e il suo contributo vitale all’economia e alle comunità del Mali» si legge nella nota odierna dell’azienda.

Quella con Barrick Gold non è l’unica controversia di questo genere tra il governo del Mali e le compagnie minerarie che operano nel settore. Nel novembre dello scorso anno, l’australiana Resolute Mining ha dovuto pagare 160 milioni di dollari al governo maliano per porre fine a una disputa fiscale. Pochi giorni prima, Bamako aveva arrestato tre dipendenti dell’azienda con l’accusa di falsificazione e danneggiamento di proprietà pubblica e con l’obiettivo di spingere Resolute Mining a pagare la cifra richiesta.

La progressiva riappropriazione delle risorse minerarie da parte del Mali, tramite politiche di nazionalizzazione, è solo una delle mosse proposte dall’amministrazione di Goïta da quando è salito al potere con il golpe del 2021. Burkina Faso e Niger, due Stati della fascia del Sahel, hanno prontamente seguito le orme del Mali e, nel novembre 2023, i tre Paesi hanno costituito l’Alleanza del Sahel (AES), della quale Goïta è presidente. L’obiettivo dichiarato dell’AES è «rivendicare la nostra sovranità nazionale» e costituire «un’alternativa a qualsiasi gruppo regionale artificiale, costruendo una comunità libera dal controllo di potenze straniere». Anche il Niger, d’altro canto, ha manifestato l’intenzione di nazionalizzare le proprie riserve di oro, petrolio e uranio, mentre il Burkina Faso ha fatto lo stesso con le proprie scorte di oro. I tre Paesi dell’AES, inoltre, stanno progettando la creazione di una nuova moneta comune regionale anticoloniale, che sostituisca il franco CFA muovendo un passo decisivo verso il recupero della sovranità nazionale e la decolonizzazione.

[di Valeria Casolaro]

La storia dell’attacco alla sinagoga di Bologna è una bufala totale

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«Assalto alla sinagoga di Bologna», «Vandalizzata la sinagoga», «Presa di mira la sinagoga»: sono queste le parole che nei giorni scorsi hanno campeggiato sulle prime pagine dei giornali italiani, facendo risuonare l’allarme di un presunto attacco antisemita in una delle città più importanti della Penisola. Il riferimento è alle dure proteste avvenute la sera dell’11 gennaio nel capoluogo emiliano in solidarietà a Ramy Elgaml, 19enne di origine egiziana morto a Milano lo scorso novembre in circostanze controverse durante un inseguimento dei carabinieri. Eppure, nessun manifestante ha mai attaccato la sinagoga, dal momento che il corteo, nella via in cui si trova l’edificio, non ha mai messo piede. Tutto è partito quando, a poche ore dalla manifestazione, il sindaco di Bologna Matteo Lepore ha condannato l’azione dei dimostranti, esprimendo «particolare preoccupazione» per «gli atti vandalici e le minacce» che si sarebbero verificati «contro la Sinagoga di Bologna». Non è ancora chiaro chi abbia diffuso questa voce: sta di fatto che, subito dopo le dichiarazioni di Lepore, i giornali mainstream – incluse molte agenzie di stampa – l’hanno sparata ai quattro venti a suon di articoli e titoloni, senza mettere mano ad alcuna verifica e senza l’utilizzo del condizionale. Trasformando in una notizia una vera e propria fake news.

Partiamo dall’inizio. La manifestazione andata in scena a Bologna l’11 gennaio, nata per chiedere giustizia per Ramy Elgaml, è degenerata in atti di “guerriglia urbana” che hanno visto contrapporsi alcuni gruppi di manifestanti e le forze dell’ordine, con cariche, lanci di oggetti e lacrimogeni, sedie ribaltate e cassonetti incendiati: il corteo ha attraversato diverse vie del centro, comprese quelle vicine agli uffici della comunità ebraica di via de’ Gombruti. Qui finisce la cronaca dei fatti e inizia l’opera di disinformazione. La sinagoga di Bologna, situata in via Mario Finzi, non è stata nemmeno sfiorata dai manifestanti, che in quella strada non hanno mai messo piede. A confermarlo sono stati i militari dell’esercito che sorvegliano l’edificio e le telecamere di sicurezza. Le scritte “Free Gaza” e “Ramy Justice”, che hanno alimentato le accuse di antisemitismo, sono state trovate su muri di via de’ Gombruti, una strada parallela, e non su proprietà della sinagoga o della comunità ebraica. La prova del nove è arrivata con la dichiarazione di Daniele De Paz, presidente della comunità ebraica di Bologna, che a Repubblica ha detto: «Le sinagoghe non sono state toccate, non c’è stato alcun danno. Su questo voglio essere chiaro. Questa narrazione è stata innescata dal sindaco Lepore».

Nonostante tali precisazioni, il danno è stato fatto. L’ambasciatore d’Israele in Italia, Jonathan Peled, ha definito gli scontri «un grave attacco antisemita». Media e politici hanno cavalcato la notizia di una presunta offensiva anti-ebraica, alimentando un’ondata di indignazione basata su informazioni errate. Prova ne sono le prime pagine dei giornali – sia le edizioni cartacee che quelle online – del 13 gennaio: «Pretesti, non proteste. Nel corteo per Ramy vandalizzata la sinagoga a Bologna», il titolo di un articolo sul Foglio; «Vandalizzata la sinagoga del capoluogo emiliano», si è letto su La Verità; «Bologna, bombe carta e devastazioni: attacco alla sinagoga», scriveva Tgcom24; «A Bologna attacco alla sinagoga. I timori di una strategia», il titolo di un pezzo posizionato in prima pagina su Il Messaggero; «L’assalto alla sinagoga di Bologna ha una logica: la lotta al sistema liberal capitalistico occidentale», titolava l’editoriale di Andrea Cangini sull’Huffington Post; «Bologna, atti vandalici anche alla Sinagoga durante il corteo per Ramy», scriveva RaiNews24; «Scontri a Bologna a corteo Ramy, vandalizzata la Sinagoga: ira del sindaco», il titolo dell’AdnKronos. E così via, fino ad arrivare al titolone di prima pagina di Libero: «Fogna Rossa – diciotto poliziotti feriti a Roma e Bologna dove i manifestanti di estrema sinistra hanno preso di mira anche la sinagoga».

La verità è che la protesta non era né di natura antisemita né diretta contro la sinagoga. Come spiegato dal questore Antonio Sbordone, il passaggio in via de’ Gombruti – dove si trovano gli uffici della comunità ebraica – è infatti avvenuto soltanto perché il corteo tentava di raggiungere la questura, dove erano stati portati due fermati. Gli slogan sui muri riflettevano il tema della manifestazione: giustizia per Ramy e solidarietà alla causa palestinese, nulla di più. Eppure, una corale narrazione distorta ha trasformato una protesta in un capro espiatorio per giochi politici e mediatici. Con buona pace della deontologia giornalistica.

[di Stefano Baudino]

L’Iraq annuncia un accordo sulla sicurezza con il Regno Unito

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Il primo ministro iracheno, Mohammed Shia al-Sudani, ha dichiarato che firmerà un accordo bilaterale sulla sicurezza e un accordo di partenariato strategico con la Gran Bretagna. L’annuncio è arrivato nel corso di un viaggio del primo ministro a Londra per una visita ufficiale. Gli accordi costituiscono «una delle pietre miliari più importanti nelle relazioni dell’Iraq con il Regno Unito. Posso descriverlo come l’inizio di una nuova era», ha detto al-Sudani all’agenzia di stampa Reuters, senza fornire ulteriori dettagli. L’accordo di sicurezza, ha aggiunto, rilancerà gli scambi bilaterali dopo la fine dei lavori della coalizione contro lo Stato islamico a guida USA, prevista nel 2026.

Torino, crolla il castello di accuse contro i movimenti ecologisti

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La Procura di Torino ha archiviato decine di denunce contro attivisti del movimento per l’ambiente Extinction Rebellion, accusati di reati di vario genere, come manifestazione non preavvisata, imbrattamento, invasione, violenza privata e detenzione abusiva di armi. Le accuse si riferivano a fatti avvenuti durante l’evento Climate Social Camp del 2023 e a una serie di proteste del movimento nei confronti della Regione Piemonte e del G7 Ambiente, Energia e Clima dello scorso aprile. «Le motivazioni della PM, convalidate dal GIP, sottolineano il diritto costituzionale e democratico al dissenso», scrivono gli attivisti, «e smontano, accusa dopo accusa, ogni denuncia».

Le condotte per cui gli attivisti erano stati denunciati riguardano tre manifestazioni distinte. La prima è del marzo del 2023, «quando venne rovesciato un quintale di letame all’ingresso del grattacielo della Regione Piemonte, per denunciare l’assenza di politiche strutturali per far fronte allo stato di siccità». Gli attivisti erano accusati, a vario titolo, di “violenza privata”, “deturpamento e imbrattamento” e “invasione”. Tutte le accuse sono cadute perché «gli elementi acquisiti nel corso delle indagini preliminari non consentono di formulare una ragionevole condanna». Di preciso, la PM ha chiarito che i casi non costituivano reato perché «l’accesso al palazzo era comunque garantito ai dipendenti», non erano stati fatti danni permanenti alla struttura e «non è stato occupato alcun terreno con la finalità di trarne profitto».

Il secondo caso risale a luglio del 2023, in occasione del Climate Social Camp, un incontro internazionale che coinvolge diverse associazioni ambientaliste. Di preciso, 14 persone furono individuate come presunte organizzatrici di un giro in bicicletta per la città e denunciate per “manifestazione non preavvisata”, “invasione” e “imbrattamento”. Tutte le accuse sono state archiviate perché prive di «elementi probatori» nei confronti degli indagati, nel caso della prima accusa, peraltro, forniti su presunti argomenti ad personam. La PM, infatti, scrive: «non costituisce prova il ruolo storico, se così può dirsi, di appartenenti al centro sociale Askatasuna di alcuni degli indagati riportati, atteso che occorre sempre provare la condotta materiale specifica attribuibile all’indagato». Alcuni degli indagati, sottolinea il decreto, erano frequentatori del noto centro sociale Askatasuna e, denuncia il movimento, erano stati individuati tra i partecipanti all’evento come organizzatori sulla base del fatto che fossero già noti alla Questura. Il fatto che alle forze dell’ordine non vadano a genio i militanti dell’Askatasuna non sembra essere una novità: 28 attivisti sono sotto processo con l’accusa di associazione a delinquere, mossa sulla base di intercettazioni raccolte tra il 2019 e il 2021.

Il terzo e ultimo caso risale ad aprile del 2024, quando gli attivisti di XR hanno protestato presso il G7 di Venaria Reale. I due indagati erano accusati di “detenzione abusiva di armi” perché avevano portato con sé un coltellino svizzero. La risposta della PM è puntuale: «è circostanza che può dirsi acclarata e nota anche agli operanti che i due indagati siano degli appartenenti al movimento di opinione Extinction Rebellion che, in passato ed ancora nel presente, organizza manifestazioni di dissenso piuttosto “scenografiche” e finora del tutto non violente, caratterizzate anche da scalate ad edifici per appendere striscioni con slogan rappresentanti le loro posizioni assicurati da imbragature e corde. Appare pertanto piuttosto ragionevole che i due coltellini multiuso, la cui appartenenza alle armi improprie è già di per sé discutibile, fossero portati dagli indagati per un giustificato motivo, data anche la presenza della corda che evidentemente serviva al montaggio di qualche attrezzo per la manifestazione». Insomma: denunciare dei manifestanti intenti ad arrampicarsi con corde e imbragatura perché hanno dietro un coltellino svizzero è, a suo modo, comico, perché è evidente che quelle “armi” servano loro a svolgere l’azione dimostrativa.

[di Dario Lucisano]

Torino, falsi contratti d’affitto per borse di studio: maxi-truffa ad Edisu

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80 studenti di nazionalità straniera sono coinvolti in un’inchiesta effettuata dalla guardia di finanza di Torino che ha scoperchiato un meccanismo di frode finalizzato all’indebito ottenimento di borse di studio erogate dall’Ente Regionale per il diritto allo Studio Universitario del Piemonte (Edisu), in assenza dei requisiti previsti. La truffa ammonterebbe a mezzo milione di euro. Un 37enne di origine ucraina residente a Torino avrebbe infatti stipulato contratti di locazione fittizi per quattro immobili, dichiarando formalmente la presenza di 66 studenti, mentre le indagini hanno accertato la residenza solo degli occupanti reali. Gli studenti risultavano ospitati da amici o vivevano altrove senza contratti regolari.

America Latina: le mosse di Russia e Cina per contendere agli USA il giardino di casa

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Lo storico dominio statunitense sul resto del continente, già messo in discussione dalla volontà di riscatto dei popoli e da molti governi del Centro e del Sud America, è apertamente sfidato anche da un altro fattore: la progressiva capacità di Russia e Cina di stringere alleanze commerciali, politiche e, in alcuni casi, addirittura militari con diversi Paesi del continente. Spinte dal risentimento contro l’egemonia americana e allettate da nuove prospettive di sviluppo e possibilità politico-commerciali, diverse nazioni del Sud America hanno da tempo aperto le porte alle due superpotenze riva...

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