martedì 11 Novembre 2025
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Come Israele usa YouTube per migliorare la propria immagine e negare il genocidio

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La guerra sul campo di battaglia non è l’unica forma di guerra esistente né la più importante: se non si ha il controllo della narrazione e dell’opinione pubblica, nessuna guerra può davvero essere vinta. Lo sa bene Israele che, per ripulire la propria immagine – fortemente incrinata dal massacro che sta portando avanti a Gaza e dai continui attacchi contro diversi Paesi del Medio Oriente – ha avviato una vera e propria campagna propagandistica rivolta ai cittadini europei utilizzando YouTube come principale canale divulgativo. La campagna è stata condotta dall’Agenzia Pubblicitaria del Governo israeliano che, a partire dallo scorso 13 giugno, ha pagato decine di milioni di inserzioni pubblicitarie solo su YouTube. Il ministero degli Esteri dello Stato ebraico, invece, per promuovere l’immagine d’Israele nell’ambito di quella che viene chiamata “diplomazia pubblica”, ha ricevuto 150 milioni di dollari, vale a dire una somma venti volte superiore a quanto stanziato negli anni passati. Inutile dire che tale iniziativa mediatica arriva in un momento in cui l’immagine di Israele agli occhi del mondo è fortemente compromessa e non solo i cittadini, ma anche alcuni governi stanno iniziando a prendere le distanze dalle azioni israeliane. Da qui la necessità di promuovere lo Stato ebraico dipingendolo letteralmente negli spot come un benefattore del popolo palestinese e un difensore della civiltà occidentale, sconfinando nel campo della cosiddetta guerra cognitiva.

Le nazioni a cui è stata principalmente rivolta la campagna propagandistica di Israele sono Regno Unito, Francia, Italia, Germania e Grecia. Lo Stato ebraico ha scelto, invece, di trascurare le opinioni pubbliche di quei Paesi i cui governi hanno formalmente condannato le sue azioni, come la Spagna e l’Irlanda. Nell’ultimo mese, i video caricati su YouTube dal ministero degli Affari Esteri israeliano hanno raggiunto 45 milioni di visualizzazioni solo sulla piattaforma multimediale controllata da Google. Gli spot vertono principalmente sulla questione degli aiuti umanitari a Gaza da parte di Israele e sulla presunta “minaccia iraniana”. In uno di questi, Israele si presenta come benefattore della popolazione palestinese, sostenendo che a Gaza sta conducendo «una delle più vaste operazioni umanitarie attualmente in corso nel mondo» e che tutto ciò avverrebbe «in linea con il diritto internazionale umanitario». Il video si conclude con la voce fuoricampo che afferma: «il vero aiuto si vede. I sorrisi non mentono. Hamas mente». Relativamente all’attacco all’Iran, invece, lo Stato ebraico giustifica ancora una volta se stesso sostenendo che si sia trattato di un «attacco necessario per impedire che il regime più pericoloso al mondo ottenesse l’arma più pericolosa al mondo». Inoltre, il video propagandistico sottolinea che mentre l’Iran avrebbe preso di mira i civili, lo Stato sionista avrebbe colpito solo siti militari e figure di alto rango dell’apparato militare iraniano. I numeri però raccontano tutta un’altra realtà: negli attacchi israeliani a Teheran, 935 civili iraniani sono stati uccisi, a fronte di soli 28 civili israeliani da parte dei missili degli Ayatollah.

A smentire le dichiarazioni e gli slogan a effetto della propaganda israeliana ci sono i fatti e i dati: nonostante Tel Aviv sostenga nella sua campagna mediatica di distribuire milioni di pasti ogni giorno, la penuria alimentare e la carestia nella Striscia di Gaza è sempre più grave. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha affermato che i palestinesi stanno morendo a causa di una «carestia di massa causata dall’uomo», e oltre 100 ONG hanno rilasciato un comunicato congiunto in cui avvertono del sempre più imminente rischio di «carestia di massa». Allo stesso tempo, l’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (USAID) ha condotto un’indagine interna sui presunti furti di cibo da parte di Hamas e non ha trovato alcuna prova a riguardo. Lo riporta in esclusiva l’agenzia di stampa Reuters, secondo cui «non è emersa alcuna segnalazione che affermi che Hamas abbia beneficiato di forniture finanziate dagli Stati Uniti». Inoltre, l’OMS e i medici dell’enclave segnalano diversi morti per malnutrizione negli ultimi giorni, mentre le Nazioni Unite stimano che le forze israeliane abbiano ucciso più di 1.000 persone in cerca di rifornimenti alimentari, la maggior parte delle quali nei pressi dei siti di distribuzione.

Si nota, dunque, come gli spot promossi da Israele effettuino un vero e proprio ribaltamento della realtà, mettendo in atto le tecniche standard della cosiddetta guerra cognitiva che è una versione rafforzata della guerra dell’informazione. Secondo la definizione data dall’Alleanza Atlantica, infatti, “Nella guerra cognitiva, la mente umana diventa il campo di battaglia. L’obiettivo è cambiare non solo ciò che le persone pensano, ma anche il modo in cui pensano e agiscono”. Tale definizione sembra corrispondere agli obiettivi di Israele di influenzare le convinzioni dell’opinione pubblica circa il suo operato, necessitando di ripulire la sua immagine in questo momento più che in ogni altro periodo della sua storia. In ciò, lo Stato ebraico è enormemente facilitato dalle relazioni privilegiate che intrattiene con i giganti della Silicon Valley, tra cui Google. Secondo il Times of Israel, “il sostegno internazionale a Israele è diminuito drasticamente”.

Se da un lato, non sembra che al momento la campagna mediatica lanciata da Israele abbia sortito gli effetti desiderati, dall’altra, l’operazione dello Stato ebraico conferma l’importanza del controllo dell’opinione pubblica e della manipolazione e il grave danno d’immagine che sta subendo Israele a livello internazionale. In altre parole, anche le democrazie, vere o presunte, sono maestre nell’arte della propaganda.

Cosa dice davvero lo studio sulle 2,5 milioni di vite salvate dai vaccini Covid

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Titoli clickbait, speculazioni giornalistiche e articoli privi del necessario contesto e dei condizionali tipici della corretta divulgazione scientifica, i quali sembrano aver già acceso numerose polemiche social e rinvigorito la ormai storica diatriba tra cosiddetti “novax” e “provax”: si possono riassumere così gli effetti che ha avuto nel mondo dell’informazione un recente studio condotto da un team internazionale di scienziati, sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista scientifica JAMA Health Forum. Se da una parte numerosi articoli hanno divulgato la notizia trattando i vaccini come «cruciali» e descrivendoli come origine di «risultati straordinari», dall’altra vi sono i dati dello stesso studio spesso completamente omessi e descritti dagli autori in ben due pagine di limitazioni, in cui gli autori ribadiscono che si tratta di stime approssimative, basate su ipotesi tutt’altro che solide, che l’efficacia è decine di volte inferiore rispetto a stime precedenti e ad altri vaccini e che il rapporto rischio-beneficio per i giovani andrebbe attentamente valutato, visto che costituirebbero solo lo 0,01% sul totale delle vite “salvate”. «Si tratta di uno studio epidemiologico basato su assunti a dir poco arbitrari, tra i quali uno dei più discutibili è proprio quello relativo all’efficacia dei vaccini nella prevenzione dei decessi da Covid», commenta il medico e farmacologo Marco Cosentino in esclusiva per L’Indipendente.

I risultati dello studio

«I vaccini hanno salvato 2,5 milioni di vite anche dopo la pandemia», «impatto gigantesco», «Il ruolo cruciale dei vaccini nella Salute Pubblica», «risultati straordinari»: sono queste alcune frasi e locuzioni usate per descrivere lo studio o che addirittura sono state inserite nei titoli di diversi articoli usciti nei giorni scorsi. Tuttavia, basta analizzare i dati e le stesse affermazioni degli autori per rendersi conto che – sensazionalismo a parte – lo studio dice ben altro. Gli esperti hanno esaminato i dati della popolazione mondiale applicando una serie di metodi statistici per scoprire chi, tra le persone che si sono ammalate di Covid, lo ha fatto prima o dopo la vaccinazione, prima o dopo il periodo Omicron, e quanti di loro sono deceduti. Come sottolineato dagli autori – ma non dalla maggior parte degli articoli che trattano la notizia – al contrario di quanto stimato da ricerche precedenti – come quella finanziata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità che calcolava circa 1,4 milioni di decessi in meno solo in Europa o quella pubblicata su The Lancet che attestava tale numero a circa 20 milioni nel mondo – sarebbero stati prevenuti circa 2,5 milioni di decessi nel periodo 2020-2024 a livello globale, corrispondenti a circa l’1% della mortalità totale di quel periodo. Di questi, l’82% ha riguardato persone inoculate prima di incontrare il virus, il 90% ultrasessantenni e pochi punti percentuali per i giovani: 0,01% per bambini ed adolescenti e 0,07% per giovani adulti di età compresa tra 20 e 29 anni. In totale, concludono gli autori, la campagna vaccinale avrebbe evitato un decesso ogni 5.400 dosi somministrate e garantito 14,8 milioni di anni di vita, corrispondente ad un anno di vita salvato ogni 900 dosi.

Cosa dice davvero e limitazioni

Oltre a questi dati, però, gli autori avvertono per ben due pagine di possibili limitazioni e problematiche relative ai calcoli effettuati, ribadendo che si tratta di stime basate su ipotesi tutt’altro che incontrovertibili. Per quanto riguarda i metodi, viene ipotizzato che diverse fasce di popolazione abbiano ricevuto almeno una dose precedente a qualsiasi infezione prima della variante Omicron, mentre d’altra parte il restante della popolazione globale non infettata entro novembre 2021 abbia contratto il virus almeno una volta fino ad ottobre 2024. Tale ipotesi risulta tutt’altro che scientificamente rigorosa. Basti pensare che, pur ammettendo che molti casi non siano stati rilevati (soprattutto nei paesi a basso reddito), rispetto alla popolazione mondiale di oltre 8 miliardi di persone, i casi segnalati di infezione sono attestati a meno di 780 milioni fino al 31 dicembre 2024, che potrebbero inoltre includere persone infettate più volte. Sostanzialmente, come sottolineato dagli stessi autori, viene ipotizzato che in assenza di vaccinazione prima o poi si sarebbe contratta l’infezione durante il periodo Omicron. Inoltre, un’assunzione che certamente non sarebbe condivisa da ogni ricercatore sul tema riguarda l’efficacia vaccinale: gli autori hanno ipotizzato una efficacia relativa pari al 75% prima della variante Omicron e al 50% successivamente. «Si tratta di numeri enormi che nessuno studio autorizzativo avalla in alcun modo. I vaccini a RNA nei loro studi autorizzativi non pare abbiano effetto sui decessi (Pfizer anzi ha più decessi nei vaccinati) mentre un minimo di effetto favorevole ce l’ha AstraZeneca. Ma certo non con le percentuali usate in questa ricerca», commenta in esclusiva per L’Indipendente il medico e farmacologo Marco Cosentino.

Infine, gli autori concludono con una serie di avvertenze e osservazioni che hanno trovato decisamente poco spazio all’interno degli articoli a riguardo: «La falsa percezione di una prevenzione altamente efficace della trasmissione potrebbe essersi ritorta contro di noi», scrivono, alludendo al fatto che molti vaccinati potrebbero aver ridotto le precauzioni facilitando la circolazione del virus. Inoltre, «il contributo relativo di bambini, adolescenti e giovani adulti alle vite e agli anni di vita salvati appare minimo» e ciò richiederebbe «un’attenta valutazione dei potenziali benefici aggiuntivi derivanti da esiti non letali ed effetti avversi. I rapporti costo-efficacia dovrebbero essere valutati attentamente in queste fasce d’età per valutare se la vaccinazione sia stata utile per loro». In aggiunta, c’è anche il fattore relativo all’organizzazione dei servizi sanitari che, in quei casi dove l’assistenza non era ottimale, potrebbe aver contribuito all’aumento dell’indice di mortalità, mentre non è da escludere nemmeno la variabile geografica: «La maggior parte dei dati provengono da Paesi ad alto reddito mentre nazioni come Cina e India presentano notevoli incertezze» sia sulle stime degli indici da utilizzare sia per quelli relativi ai benefici dei vaccini, continuano. Inoltre, gli autori sottolineano che è fondamentale considerare le modalità con cui sono stati segnalati i decessi e il nesso di causalità: viene stimato che in una scala da 0 a 1 – dove 0 indica che non ha contribuito affatto e 1 indica una causa dominante su tutte le altre, tipo una bomba atomica – il Covid avrebbe un peso medio di 0,5 il che, sommato al fatto che secondo i dati la maggior parte dei decessi è avvenuto in persone anziane e con almeno una o più patologie pregresse, sembrerebbe minare ulteriormente la solidità dei modelli considerati.

In conclusione, al contrario da quanto “divulgato” recentemente da numerose testate mainstream e siti di informazione italiani, non si tratta di uno studio «gigantesco» e «straordinario», ma di una analisi che, come sottolineato dagli autori, mira a fornire stime approssimative utili per ricerche successive e modelli sui cui potrebbero basarsi ulteriori studi futuri.

Corte dei Conti: PNRR in linea, ma permangono criticità

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La Corte dei conti ha esaminato l’attuazione del PNRR e PNC nel primo semestre 2025, riscontrando che, pur in linea con gli obiettivi europei, persistono alcune criticità. Tra le problematiche, si segnalano ritardi nelle opere più complesse, come le infrastrutture penitenziarie e il potenziamento ferroviario. Le difficoltà principali riguardano la rimodulazione degli interventi, la rendicontazione frammentata, carenze di personale, un monitoraggio finanziario insufficiente e l’aggiornamento non tempestivo delle piattaforme digitali, come ReGiS, per il controllo dei fondi.

Il governo Meloni ha stanziato 7,5 milioni per la comunicazione pro-nucleare

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Il governo Meloni punta forte sulla comunicazione per riportare l’atomo in Italia. La Conferenza unificata tra governo, regioni ed enti locali ha infatti dato parere positivo alla legge delega sul «nuovo nucleare sostenibile», che prevede anche 7,5 milioni di euro tra il 2025 e il 2026 per campagne informative e azioni nei territori potenzialmente interessati a impianti. Nessun fondo analogo è destinato a rinnovabili o efficienza energetica, nonostante il 93% degli italiani chieda più impegno su questo fronte. Gli obiettivi nucleari italiani includono 0,4 gigawatt (GW) di piccoli reattori modulari entro il 2035 e 7,6 GW di fissione al 2050, tecnologie ancora lontane dall’essere disponibili.

La cifra stanziata risuona come un campanello d’allarme per il Coordinamento FREE, principale rete italiana di associazioni delle rinnovabili e dell’efficienza energetica. «Un intervento senza precedenti», sottolinea il presidente Attilio Piattelli, evidenziando il clamoroso sbilanciamento rispetto ad altre tecnologie energetiche cruciali per la transizione. Basti un confronto: il Decreto Legislativo 102/2014 ha destinato un contributo massimo di appena 3 milioni di euro per informazione e formazione sull’efficienza energetica, spalmati però su un decennio (2021-2030). Una disparità che stride. Ma le perplessità vanno ben oltre la questione dei fondi. FREE solleva infatti dubbi sostanziali sulla roadmap nucleare italiana: i primi piccoli reattori modulari (SMR) sarebbero operativi verso il 2035, con un obiettivo di 7,6 GW (+ 0,4 GW da fusione) al 2050. Numeri che impallidiscono di fronte alla realtà delle rinnovabili: nel solo 2024 sono stati installati in Italia 7,48 GW di nuovi impianti puliti.

A ciò si aggiunge l’incertezza tecnologica ed economica che avvolge gli SMR, tecnologia ancora sperimentale, con costi sconosciuti e nessun impianto commerciale operativo al mondo. L’Agenzia Internazionale per l’Energia (IEA) ha stimato che nel 2050 il nucleare rappresenterà appena il 10% della produzione elettrica globale. La spesa per la comunicazione pro-nucleare appare ancor più problematica se contestualizzata. L’Italia, infatti, non ha ancora risolto il problema fondamentale dello smaltimento delle scorie radioattive esistenti, ereditate dalle centrali del passato. Il deposito nazionale unico, pur tecnicamente individuabile, è un caso emblematico di paralisi politica. Ogni proposta di sito ha scatenato fortissime opposizioni locali, spesso sostenute proprio da quegli amministratori e forze politiche – anche di maggioranza – che oggi invocano il ritorno all’atomo.

Il via libera del Consiglio dei Ministri al disegno di legge delega sul cosiddetto “nuovo nucleare sostenibile” era arrivato lo scorso 28 febbraio. Il provvedimento, composto da quattro articoli, affida al governo il compito di adottare, entro dodici mesi dall’entrata in vigore, una serie di decreti legislativi per disciplinare in maniera organica l’intero ciclo di vita della produzione di energia nucleare. Si prevede la sperimentazione, localizzazione, costruzione ed esercizio di nuovi reattori, insieme alla gestione dei rifiuti radioattivi e allo smantellamento delle vecchie centrali. Inoltre, verranno istituiti strumenti di formazione per nuovi tecnici e si valuterà la creazione di un’Autorità indipendente per la sicurezza e il controllo.

Un recente rapporto dell’Institute for Energy Economics and Financial Analysis (IEEFA) ha sollevato molti dubbi in merito agli SMR. Sebbene inizialmente presentati come una soluzione economica e rapida rispetto alle centrali nucleari tradizionali, essi hanno infatti visto un aumento dei costi che spesso supera le previsioni iniziali, come dimostrano esempi concreti in Paesi come Russia, Cina, Argentina e Stati Uniti. Inoltre, i tempi di costruzione si sono rivelati molto più lunghi del previsto, mentre le rinnovabili proseguono con progressi rapidi. Un ulteriore problema riguarda l’incertezza e i rischi associati alla tecnologia, che rimane relativamente nuova. In Italia, dietro alle novità sul nucleare c’è anche una dirimente questione politica, dal momento che i referendum del 1987 e del 2009 avevano bocciato l’energia nucleare. Tuttavia, il governo attuale sostiene che il nucleare “sostenibile” rappresenti oggi una fonte sicura e pulita, diversa da quella oggetto del voto popolare passato.

Rischio incendi, Spagna e Portogallo in allerta

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Forte caldo in arrivo sulla penisola iberica. Nel fine settimana, il Portogallo è entrato in stato di allerta a causa di un grave rischio di incendi, con temperature previste tra i 36 e i 44 gradi. La ministra dell’Amministrazione interna, Maria Lúcia Amaral, ha annunciato divieti su accesso a spazi forestali, lavori e attività che potrebbero favorire i roghi. Cinque provincie sono in allerta rossa, altre in arancione. Anche la Spagna affronta una seconda ondata di caldo, con temperature oltre i 40 gradi in alcune regioni, come Andalusia e Castiglia-La Mancia. Il ministero della Salute ha emesso un’allerta sanitaria rossa per numerosi comuni.

Le bevande alla cannabis sfidano il mercato USA e i produttori di alcolici

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Negli Stati Uniti un'innovazione silenziosa sta rivoluzionando il mercato delle bevande per adulti: quella delle bibite infuse con la cannabis. Questo fenomeno non è solo una tendenza emergente, ma un vero e proprio motore di cambiamento che sta alterando gli equilibri di un settore tradizionalmente dominato dall'alcol. La chiave di volta di questa espansione risiede in una singolare ambiguità della legislazione federale, in particolare nella Farm Bill del 2018. Su questa faglia molti Stati hanno iniziato a legiferare in maniera autonoma. Questo ha innescato un'impennata nelle vendite e ha per...

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Da inizio 2025 in Italia ci sono state 873 morti sul lavoro, in media una ogni 6 ore

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Dal 1° gennaio 2025, in Italia sono morti 873 lavoratori, di cui 621 sul posto di lavoro, con una media di una morte ogni 6 ore. Lo ha attestato l’Osservatorio Nazionale Morti sul Lavoro nel suo ultimo report, rendendo noto che si tratta dei numeri più alti registrati nei 18 anni di esistenza dell’ente. Tra le vittime, oltre il 30% ha più di 60 anni (di cui il 17% oltre 70) e il 32% è costituito da stranieri. Le categorie più colpite includono i lavoratori agricoli, gli autotrasportatori, e chi soffre per stress da superlavoro. Se si considerano solo i dati INAIL, che escludono migliaia di lavoratori non assicurati o assicurati con altri enti, le denunce al 30 maggio 2025, comprensive di itinere, risultano invece, in un’enorme sottostima, appena 389. Il rapporto dell’Osservatorio Nazionale Morti sul Lavoro riguarda il periodo compreso tra l’inizio dell’anno e il 31 luglio. Senza prendere in considerazione i morti in itinere, la regione dove si è registrato il numero più alto di casi (in termini assoluti) è la Lombardia, con 73 morti; seguono la Campania con 58, e l’Emilia-Romagna e il Veneto con 56. Mettendo in proporzione il numero di morti alla popolazione, invece, la regione con il tasso più alto è l’Abruzzo (31 morti in termini assoluti), con 24,2 morti per milione di abitanti; seguono la Basilicata (10 morti totali) con 18,5 morti per milione di abitanti e il Trentino-Alto Adige (15 morti) con 13,9. Secondo il rapporto, la maggior parte delle morti (94) sono avvenute per schiacciamento da trattori o mezzi agricoli; altre categorie particolarmente colpite sono quella degli autotrasportatori (88 morti) e delle persone morte per fatica o stress da superlavoro (anch’esse 88), che include, per esempio, operai, braccianti, medici e infermieri. I morti per incidenti domestici risultano 48, mentre 11 sono morti durante la potatura di alberi. Il rapporto stima, infine, che «gli stranieri sotto i 65 anni diventeranno presto la maggioranza delle vittime sui luoghi di lavoro».

Dalla nascita dell’Osservatorio nel 2008, il dato del 2025 risulta il più alto di sempre. Tra le responsabilità politiche e normative di questo aumento, il rapporto cita l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori e l’aumento degli appalti con la legge del giugno 2023. Di preciso, l’Osservatorio riporta che, dall’abolizione dell’articolo 18, si è registrato un aumento del 43% dei morti, mentre la legge del 2023 «ha provocato un aumento del 15% dei decessi, soprattutto in edilizia e appalti pubblici». Di fronte ai dati in aumento, il governo ha dichiarato che stanzierà 650 milioni per «potenziare il sistema di incentivi e disincentivi per le imprese», mettendo tuttavia al centro la cosiddetta «cultura della prevenzione», che, secondo l’esecutivo, deve partire dal lavoratore stesso. L’annuncio è arrivato il primo maggio, con quel classico tempismo simbolico che caratterizza la politica, e non include alcuna misura volta ad aumentare concretamente la tutela dei lavoratori. Eppure, proposte alternative ci sarebbero, e risiedono in Parlamento da oltre un anno: l’entrata in vigore di una legge che istituisca il reato di omicidio e lesioni gravi o gravissime sul lavoro, che porterebbe, secondo i promotori, a significative modifiche nell’atteggiamento dei responsabili della sicurezza.

Siria: scontri tra drusi e forze governative: 4 morti

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La provincia siriana di Suwayda torna teatro di scontri. Secondo quanto riportano i media locali, i gruppi drusi avrebbero attaccato il personale delle forze di sicurezza interna siriane e bombardato alcuni centri. I combattimenti sono iniziati a Tal Hadid, dove, secondo quanto riporta l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, sarebbero stati uccisi tre membri del personale di sicurezza e un miliziano appartenente a fazioni locali. Altre dieci persone sarebbero rimaste ferite. Lo scorso mese, la stessa Suwayda è stata sede di violenti combattimenti tra le milizie druse e i gruppi beduini, terminati con l’istituzione di un cessate il fuoco e l’invio di personale di sicurezza da parte del governo centrale.

Migranti: oltre 60 morti al largo dello Yemen

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Una barca che trasportava 157 persone migranti è affondata al largo delle coste dello Yemen, causando almeno 68 morti. Di preciso l’incidente è avvenuto al largo del distretto di Ahwar, nella provincia meridionale yemenita di Abyan, sul Mar Arabico, e la maggior parte delle vittime provenivano dall’Etiopia. Da quanto ha comunicato Abdusattor Esoev, responsabile per lo Yemen dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, all’emittente britannica BBC, 12 persone sono state tratte in salvo, e decine risultano ancora disperse. Dalle prime ricostruzioni pare che l’imbarcazione si sia capovolta.

Da 223.000 casi l’anno a zero: come la repubblica di Timor EST ha sconfitto la malaria

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L'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha ufficialmente inserito Timor Est nella lista dei Paesi liberi dalla malaria. Un risultato straordinario, cui si è giunti dopo anni di lotte e sacrifici, da quando il piccolo Stato, appena indipendente nel 2002, ha deciso di affrontare la lotta contro questa malattia come una priorità nazionale. Con questo annuncio, arrivato a fine luglio, un totale di 47 Paesi e 1 territorio sono stati certificati dall'OMS come esenti da malaria. Timor Est è il terzo paese ad essere certificato nella regione del Sud-Est asiatico, dopo Maldive e Sri Lanka, certifi...

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