lunedì 2 Dicembre 2024

“Noi che facciamo?”, Una poesia di Rocco Scotellaro (1949)

Ci hanno gridata la croce addosso i padroni 
per tutto che accade e anche per le frane 
che vanno scivolando sulle argille. 
Noi che facciamo? All’alba stiamo zitti 
nelle piazze per essere comprati, 
la sera è il ritorno nelle file 
scortati dagli uomini a cavallo, 
e sono i nostri compagni la notte 
coricati all’addiaccio con le pecore. 
Neppure dovremmo ammassarci a cantare, 
neppure leggerci i fogli stampati 
dove sta scritto bene di noi! 
Noi siamo i deboli degli anni lontani 
quando i borghi si dettero in fiamme 
dal Castello intristito. 
Noi siamo figli dei padri ridotti in catene. 
Noi che facciamo? 
Ancora ci chiamano fratelli nelle Chiese 
ma voi avete la vostra cappella 
gentilizia da dove ci guardate. 
E smettete quell’occhio
smettete la minaccia, 
anche le mandrie fuggono l’addiaccio 
per qualche stelo fondo nella neve. 
Sentireste la nostra dura parte 
in quel giorno che fossimo agguerriti 
in quello stesso Castello intristito. 
Anche le mandrie rompono gli stabbi 
per voi che armate della vostra rabbia. 
Noi che facciamo? 
Noi pur cantiamo la canzone 
della vostra redenzione. 
Per dove ci portate 
lì c’è l’abisso, lì c’è il ciglione. 
Noi siamo le povere 
pecore savie dei nostri padroni

Una ballata politica, certamente. E soprattutto la ballata della terra padrona e dei suoi servi silenziosi. Le pecore tacciono, non fuggono come le mandrie inquiete, scontano il loro destino contadino e proletario, pregano però più vicini all’altare quel Dio che in chiesa i padroni contemplano da lontano, in galleria. Loro stanno sul palcoscenico ogni giorno, aspettano sulla piazza che qualcuno li prenda a lavorare per quella giornata e quando cantano  sono innocue canzoni non versi di lotta.

Qui però s’innalza la poesia non c’entra la storia, sono le corde del cantore che ha voce per tutti,  per i braccianti che non saprebbero leggere, qui un giovane poeta vede i suoi fratelli che alla sera tornano dal lavoro scortati come carcerati. E trasforma la pena in versi, cercando di spegnere quella fatica reale, quell’abbandono al destino ed elevarlo come uno spiritual o un blues delle piantagioni.

Ma è Italia non è Alabama. Noi italiani del 2024 siamo chiamati a capire, a cercare ragioni in questa Italia del  ’49 che ha ancora tutto da fare. Dobbiamo amare con stupore, con rabbia, senza dimenticare quanto ci è costato crescere.

Dostoevskij nelle Memorie del sottosuolo (1864) si chiedeva: «Può darsi che l’uomo non ami la sola prosperità. Può darsi che ami esattamente altrettanto la sofferenza. Può darsi che proprio la sofferenza gli sia esattamente altrettanto vantaggiosa quanto la prosperità».

Strada ne è stata fatta sul cammino sognato da Rocco e i suoi fratelli ma, come ha cantato vent’anni fa Simin Behbahani, la attivista poetessa iraniana: bisogna sempre che si scriva dei «giorni tenebrosi,/ scrivi il sacrificio della vita, la baraonda del giovane e del vecchio,/ del bambino e della donna,/ scrivi di una casa, di una dimora, del più e del meno,/ di tutto ciò che hai./ Scrivi il lancio di una pietra di un bambino che gioca, /scrivi il colpo di un piccone di un anziano che assiste». La vita prende così le sue curve e le sue alture, i suoi sguardi di silenzio e di passione, i suoi tempi di ripetizioni e di canti.

 [di Gian Paolo Caprettini]

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