Perdonerete la domanda così diretta, così cruda, così sgarbata, ma è un tema che sta facendo molto discutere e non certo da ieri: è vero che il modello dello streaming non paga? La questione sorge spontanea, se consideriamo queste due frasi ricorrenti che sentiamo dire sull’industria musicale attuale. La prima è che sono anni che il settore discografico cresce, e che quindi in questo mondo ci sono sempre più soldi e opportunità. La seconda è che lo streaming paga una miseria, tanto le case discografiche quanto gli artisti. Dov’è la verità?
Facciamo un passo indietro, seppur possa essere scontato per qualcuno. Oggi il settore discografico guadagna in questa maniera, grossomodo: le case discografiche hanno degli accordi di licenza quadro con le piattaforme di streaming, Spotify e competitors, alle quali concedono la totalità del loro catalogo, accumulato in anni e anni di operato. Questo catalogo deriva a sua volta da accordi di vario tipo conclusi con gli artisti o con etichette indipendenti, che cedono – per sempre, oppure in licenza o in pura distribuzione per un periodo limitato di tempo – i loro brani e i loro progetti discografici. Il meccanismo è: Spotify paga le grandi major che a loro volta pagano gli artisti. Poi chiaramente c’è tutta la parte derivante dal tutt’altro che morto mercato fisico, quindi CD e soprattutto vinili, più altre forme di ricavo residuali che per brevità non approfondiremo.
Agli artisti, un po’ come accade in tanti altri settori simili, viene riconosciuto un anticipo economico, calcolato sulla base del ritorno stimato negli anni dell’investimento, ma spesso banalmente dettato dal prezzo di mercato e non da un preciso calcolo analitico. In questo gioco le case discografiche sono come delle grosse finanziarie del settore, che possono anticipare soldi come fa una banca: sono colossi con le spalle larghe e dotate di una struttura internazionale.
L’orizzonte di recupero della casa discografica è sempre sul lungo periodo: non conta il ritorno dal singolo progetto (la stragrande maggioranza sono in perdita), ma dal catalogo. E il catalogo non è solo quello che la major firma nell’anno corrente, ma quello che ha firmato negli ultimi decenni, sia sul nascere (progetti che ha finanziato sin dall’inizio), sia con le cosiddette acquisizioni di catalogo avvenute in un secondo momento (esattamente come Netflix compra la distribuzione di film di 40 anni fa, per intenderci).
Torniamo alle domande di sopra. Si, affermativo, il settore cresce, da anni. Dopo gli anni della pirateria, lo streaming ha portato ad un rimbalzo positivo che ora fa sì che, a livello mondiale, il settore discografico fatturi oltre 26,2 miliardi di dollari all’anno, più di quanto faceva prima del crollo di inizio millennio.
Ma allora perché, per dire, James Blake ha detto che se vogliamo musica di qualità qualcuno la dovrà pagare, lanciando addirittura una sua piattaforma di streaming personale, e perché Kanye West, invece, ha paragonato lo streaming alla pirateria, sostenendo che non ci sia nessuna differenza tra le due cose e minacciando per Vultures Vol.2, il suo prossimo progetto, delle modalità di pubblicazione molto simili al vecchio e superato download digitale (iTunes, per intenderci)? E perché, più in generale, c’è così tanto malcontento nei confronti del modello dello streaming?
L’altra faccia della medaglia è la crescita smisurata del valore dei contratti discografici, avvenuta in questi anni nel mondo e in Italia. Oggi ci sono diversi artisti che possono ambire a contratti milionari nel nostro Paese. Il fatto che le major continuino a ricavare rendite passive da catalogo che non ha più costo è il motivo effettivo per cui Universal, ad esempio, ha potuto rinnovare il contratto che lo lega a Drake per un valore monstre di 400 milioni di dollari, uno degli accordi più grossi di sempre nella storia della discografia. Un “deal 360”, come viene definito da quelle parti, che non include solo la parte discografica, ma anche i diritti editoriali, il merchandising e progetti audiovisivi di vario tipo.
Insomma, i soldi ci sono e non sono pochi, perché altrimenti questi contratti non potrebbero esistere. Il tassello che manca per completare il quadro è che un artista può pubblicare anche per fatti suoi, non firmando per nessuna casa discografica ma ovviamente non ricevendo nessun anticipo ma solo royalties dagli streaming, quindi guadagni variabili se le cose vanno bene. L’artista in questo caso mantiene il rischio, mantiene la proprietà, si assicura il massimo rendimento se vende. È proprio l’entità di questi guadagni variabili ad essere sotto accusa: il pagamento delle piattaforme di streaming alle case discografiche (e quindi agli artisti) e agli artisti indipendenti è un tema di discussione centrale.
Quanti soldi danno le piattaforme? Ancora pochi, nel senso che un artista che fa un brano da un milione di streaming si trova con un pugno di mosche in mano. Questo perché lo streaming è un modello vincente sui grossi numeri, non sui piccoli. È questo il motivo per cui, ad esempio, un artista indipendente come Russ riesce a guadagnare molto bene: ogni anno arriva ad avere un miliardo di streaming tra tutto il suo catalogo, che gli permettono di avere solidi guadagni da milionario. Chiaramente poi l’artista monetizza anche con tutto il resto della filiera, collaborazioni con i brand e live in primis, ma anche con i guadagni editoriali, cioè i proventi da diritto d’autore, che sono un discorso a parte.
Il discorso è che le vie attuali sono due, se sei un artista:
- o firmi un contratto dopo aver creato un interesse intorno al tuo progetto e intaschi grossi anticipi perché qualcun altro, la major, si sta prendendo il rischio di mercato al posto tuo.
- o vai da indipendente e, accumulando catalogo e numeri importanti negli anni, puoi arrivare a grossi guadagni.
Anche Kanye West, ad esempio, è andato da indipendente con la pubblicazione di Vultures 1, ma nella sua prospettiva quello che guadagnerà dal progetto sono noccioline, soprattutto sul breve periodo. E su questo bisogna sempre tenere conto di chi è l’interlocutore: Kanye è uno che ha toccato il miliardo di patrimonio e se in queste prime settimane avesse incassato anche solo 5 milioni di dollari dal disco si sentirà comunque derubato, dalla sua prospettiva.
Che lo streaming non sia un modello perfetto è assolutamente vero, e infatti è da anni che case discografiche e piattaforme litigano su come distribuire i guadagni e su come migliorare la situazione. Il punto, però, è che le sue imperfezioni dovrebbero giustificare dei ragionamenti sul suo miglioramento, ma non un’insensata nostalgia per modelli vecchi come il già fallito download digitale o addirittura per la discografia pre-internet, che era in realtà un settore molto più ingiusto, opaco e mafioso di quello attuale. Oggi i soldi ci sono, più di prima ma sicuramente meno di quanto vorrebbero artisti, piattaforme e major, ma che per andarseli a prendere la concorrenza è fitta perché escono letteralmente 100.000 canzoni al giorno e perché l’economia digitale è ancora imperfetta.
A volte l’opinione pubblica a riguardo ha la memoria corta: stiamo parlando di un settore che poteva anche non esistere più.
Ma sicuramente c’è un modo per non arricchirsi mai con la musica, ed è quello di ripetersi tutto il giorno il pensiero limitante che nella musica i soldi non ci sono. Che poi, se proprio dobbiamo essere brutalmente sinceri, ci sarebbe da discutere anche sulla pretesa, tutta da primo mondo ricco e viziato, di vivere della propria musica anche se sei un artista irrilevante. Non puoi campare della tua musica se hai 10.000 ascolti al mese: è un dato di fatto da cui, al netto dei miglioramenti auspicabili, non si può scappare perché semplicemente il valore economico che i consumatori danno alla musica rimane sicuramente limitato, e in questo l’imprinting culturale della pirateria –cioè del pensiero che la musica possa essere gratis sempre e comunque – ha lasciato un segno molto difficile da rimuovere e forse dovremmo fare pace con questa cosa qui e vedere i tanti pregi del modello streaming. Che magari sarà una cattiva medicina, una medicina migliorabile, ma senza di essa a questo bel paziente avremmo già fatto un bel funerale.
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La musica dei giovani in Italia, in poche parole. Questa rubrica nasce con l’intento di spiegare, in maniera semplice, cosa stanno ascoltando i giovani in Italia e perché lo stanno facendo. Troppo spesso nei media tradizionali la narrazione della “nuova musica”, in particolar modo del rap, è distorta e sbagliata, frutto soprattutto di una mancanza di strumenti adeguati da parte dei “grandi” per decifrare quello che sta accadendo. Questa rubrica nasce per provare a cambiare un po’ la situazione e dare a tutti la possibilità di capire meglio cosa sta succedendo oggi nella musica.
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[di Alessandro Quagliata]
Ottima rubrica, mi piace!
Bravo, articolo molto interessante. Grazie
…ma la domanda vera è: come fa Spotify a pagare così tanto le case discografiche? Quanti abbonati ha? Non conosco una persona che ha l’abbonamento a Spotify e lo usa solo in modalità free … intanto Deezer ha abolito la modalità free