Era il 14 maggio del 1948 quando il capo del movimento sionista, nonché futuro primo ministro del nuovo governo di Israele, David Ben Gurion, proclamò la nascita dello Stato ebraico, il 14 maggio 1948. Sul piano internazionale, il nuovo Stato fu subito riconosciuto da Stati Uniti e URSS, mentre la Cina sostenne con forza le rivendicazioni arabe. La proclamazione del nuovo Stato scatenò l’ira degli arabi palestinesi e del mondo arabo circostante: il 15 maggio, il cosiddetto Esercito Arabo di Liberazione, composto da siriani, libanesi, iracheni, giordani, arabi palestinesi e da militanti dei Fratelli Musulmani egiziani, invase il neocostituito Stato sionista: iniziò così la guerra arabo-israeliana, che sarebbe terminata nel gennaio del 1949 con la vittoria dello Stato ebraico. Quest’ultimo non solo ebbe la meglio sugli eserciti arabi, ma riuscì anche ad annettere parti di territorio che, secondo la spartizione ONU, sarebbero appartenute al popolo palestinese. Una volta cessato il fuoco, i confini tracciati da Israele arrivarono a comprendere il 78% della Palestina mandataria, rispetto al 56% previsto dal Piano di partizione delle Nazioni Unite. Tali confini, successivamente, diventarono noti come Green Line. La Striscia di Gaza e la Cisgiordania, invece, furono occupate rispettivamente dall’Egitto e dalla Transgiordania. Nel 1949, Israele firmò armistizi separati con l’Egitto il 24 febbraio, con il Libano il 23 marzo, con la Transgiordania il 3 aprile e con la Siria il 20 luglio.
Durante la guerra del 1948-49 ebbe luogo anche il massiccio esodo di più di 700.000 palestinesi, letteralmente cacciati dalle loro case e dai loro territori dagli occupanti sionisti, e definito dal popolo arabo come Nakba, in arabo, catastrofe. L’esercito israeliano applicò la politica di allontanamento forzato dei palestinesi anche nelle aree destinate loro dall’ONU: la maggior parte di essi furono costretti a fuggire nel Libano meridionale, nella Striscia di Gaza o in Cisgiordania, territorio rimasto arabo e allora annesso alla Giordania. L’esodo fu anche all’origine del successivo problema dei rifugiati palestinesi: secondo i dati dell’UNRWA, nel 2015 i rifugiati e i loro discendenti erano pari a 5.149.742, distribuiti in Giordania, Striscia di Gaza, Cisgiordania, Siria e Libano. Molti di loro risiedono nei campi-profughi palestinesi.
La guerra dei Sei Giorni e i confini del 1967

Negli anni precedenti vi erano stati anche scontri militari minori tra Tel Aviv e gli Stati confinanti, in particolare con Damasco: a sostegno della capitale siriana, a maggio Nasser cominciò a mobilitare l’esercito egiziano nella zona del Sinai – dove allora erano presenti contingenti di pace dell’ONU – e a giugno annunciò nuovamente l’intenzione di chiudere il Golfo di Aqaba alle navi israeliane. Allo stesso tempo, altri Stati arabi, tra cui la Siria e la Giordania, avvicinarono i loro eserciti lungo il confine. La reazione di Israele fu durissima e fulminea: al generale Moshe Dayan venne affidato il compito di attuare una decisa rappresaglia militare. Le operazioni scattarono il 5 giugno 1967 e, la mattina successiva, l’aviazione israeliana bombardò a sorpresa le basi aeree di Egitto, Siria e Giordania: si tratta di uno degli attacchi preventivi più famosi della storia contemporanea. Sei furono i giorni sufficienti a Israele per conquistare le Alture del Golan, il Sinai, la Striscia di Gaza e la Cisgiordania. Le ostilità cessarono il 10 giugno con l’estensione territoriale di Israele quadruplicata: negli anni seguenti, Siria, Giordania ed Egitto reclamarono, rispettivamente, la restituzione delle Alture del Golan, della Cisgiordania e della penisola del Sinai. Nonostante una risoluzione ONU del 1967 invitasse Israele a restituire i territori occupati, lo Stato ebraico si è sempre rifiutato di farlo. Al contrario, nel 1981, annesse le Alture del Golan, mentre a partire dal 1973 – dopo la guerra del Kippur – Tel Aviv accettò una graduale restituzione del Sinai all’Egitto in cambio di un trattato di pace con Il Cario e il suo impegno nel riconoscere lo Stato ebraico.
Nel frattempo, già a partire dal 1964 era nata l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), una federazione di diversi gruppi politici al cui interno cresceva il prestigio di Yasser Arafat, capo di al-Fatah, gruppo politico militare che aderì all’OLP nel 1967. L’Organizzazione nacque anche come risposta all’insoddisfacente sostegno dei Paesi arabi vicini, che non sono mai stati in grado di difendere concretamente le istanze dei palestinesi nonostante i numerosi proclami al riguardo. Nell’ottobre 1974 l’ONU riconobbe l’OLP – guidata da Yasser Arafat – come unico rappresentante legittimo del popolo palestinese.
Dalla nascita di Hamas agli accordi di Oslo
L’occupazione delle terre da parte di Israele e la repressione delle autorità israeliane a danno dei palestinesi scatenarono rappresaglie e proteste tra la popolazione araba: la prima grande Intifada (in italiano, rivolta) scoppiò l’8 dicembre del 1987, quando quattro palestinesi del campo profughi di Jabalya morirono in un incidente stradale con un veicolo israeliano. Le proteste, coordinate dall’OLP, inclusero scioperi generali, boicottaggi e forme di guerriglia attuate principalmente con il lancio di pietre. È in questo contesto che fa la sua comparsa Hamas, acronimo di Harakat al-Muqawama al-Islamiya (Movimento di resistenza islamica): un movimento che affonda le sue radici nella Fratellanza Musulmana, un’organizzazione nata in Egitto nel 1928 con l’ambizione di instaurare uno Stato islamico, integralmente modellato sui principi della Sharia. Dopo la nascita di Israele nel 1948, la Fratellanza aveva cercato di reclutare adepti anche a Gaza, ma nel periodo in cui il territorio era governato dall’Egitto laico di Nasser, la Fratellanza fu duramente repressa. Tendenza che si invertì quando Israele prese il controllo della Striscia dopo la guerra dei Sei giorni: paradossalmente, infatti, lo Stato ebraico allentò la stretta sulla Fratellanza imposta da Nasser, dando la caccia, invece, ai membri di Fatah e altre fazioni laiche dell’OLP.
Obiettivo del sionismo era quello di consentire l’esistenza del gruppo islamista come contrappeso ai nazionalisti laici dell’OLP e alla sua fazione dominante, Fatah di Yasser Arafat. A gettare i semi del futuro Movimento di resistenza islamico fu un religioso paraplegico, Sheikh Ahmed Yassin – capo dei Fratelli Musulmani a Gaza – il quale creò il gruppo islamista Mujama al-Islamiya, un precursore di Hamas, che fu ufficialmente riconosciuto da Israele come ente di beneficenza e poi, nel 1979, come associazione. Yassin lanciò ufficialmente Hamas nel 1987 durante la Prima Intifada, ed è provato oltre ogni dubbio come per lungo tempo i vari governi israeliani ne facilitarono l’ascesa favorendo anche lo scorrimento di un flusso di finanziamenti nelle casse del movimento islamista, particolari tra l’altro ammessi da vari politici israeliani. Nel frattempo l’OLP aveva rinunciato al suo impegno per la distruzione di Israele, iniziando a negoziare, invece, una soluzione a due Stati. Ciò gli procurò l’accusa di tradimento da parte di Hamas e degli altri movimenti della resistenza palestinese, a cominciare dal Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) che fondarono il cosiddetto Fronte del rifiuto. Gli scarsi successi della trattativa iniziarono ad alienare all’OLP anche l’appoggio di settori sempre più consistenti del popolo palestinese, anche a causa del parallelo sviluppo degli insediamenti dei coloni israeliani sui territori palestinesi, in particolare nella Cisgiordania. Questo comportò un crescente consenso verso Hamas da parte della popolazione araba, e degli abitanti della Striscia in particolare, che raggiunse il culmine nelle elezioni palestinesi del 2006.
La Prima Intifada venne duramente repressa dalle forze israeliane e terminò il 13 settembre 1993 con l’uccisione di più di 2000 palestinesi e circa 160 israeliani. Nonostante ciò, la rivolta costrinse il governo dello Stato ebraico a sedersi al tavolo delle trattative mettendo al centro dell’attenzione internazionale la scottante questione palestinese. Il 13 settembre 1993 furono firmati a Washington gli Accordi di Oslo, stipulati segretamente nella capitale norvegese il 20 agosto, tra il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin e il capo dell’OLP, Yasser Arafat, con la mediazione degli Stati Uniti. Gli accordi prevedevano un piano per arrivare alla soluzione e al riconoscimento reciproco dei due Stati, ma furono fortemente osteggiati dalle fazioni più radicali di entrambe le parti: Hamas e Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) da un lato, e gruppi sionisti ortodossi dall’altro.
L’allora presidente Rabin fu ucciso con un colpo d’arma da fuoco proprio da un esponente del sionismo ortodosso, Yigal Amir, il 4 novembre 1995. Nel frattempo, il consenso di Hamas continuava a crescere tra la popolazione palestinese, mentre Israele ne permetteva tacitamente – direttamente e indirettamente – il finanziamento, come testimoniato da diversi funzionari israeliani e da alcuni alti rappresentanti delle gerarchie militari. Lo stesso giornale progressista Haaretz alcuni mesi fa ha pubblicato un articolo dal titolo Una breve storia dell’alleanza Netanyahu-Hamas in cui si dice esplicitamente che “Per oltre un decennio Netanyahu ha contribuito, in vari modi, al crescente potere militare e politico di Hamas. Netanyahu è colui che ha trasformato Hamas da organizzazione terroristica con poche risorse in un organismo semi-statale”. L’obiettivo di Tel Aviv non era solo quello di sostenere Hamas in funzione anti OLP, ma anche quello di usare l’organizzazione islamista per impedire la nascita di uno Stato palestinese, mantenendo divisi politicamente e militarmente i territori della Striscia e quelli della Cisgiordania.
Le elezioni del 2006 e la strategia del divide et impera
Nel gennaio del 2006, le elezioni legislative palestinesi – le ultime che si sono svolte – sono state vinte da Hamas con il 44% dei voti, mentre Fatah ottenne solo il 41%. Tuttavia, la distribuzione dei voti tra le due organizzazioni è stata eterogenea, con Hamas che ha ottenuto la maggior parte dei consensi soprattutto nella Striscia di Gaza e al-Fatah in Cisgiordania. ciò ha portato ad uno scontro armato per il potere tra i due movimenti palestinesi, durato dal 2006 alla prima metà del 2007, in seguito al quale il movimento islamico prese il controllo di Gaza.
Negli anni successivi alla guerra civile, ci furono diversi tentativi di riconciliazione tra le due fazioni palestinesi, sempre boicottati da Israele e, in particolare, da Netanyahu, al fine di impedire la nascita di uno Stato palestinese unito, secondo la strategia del divide et impera. Lo stesso primo ministro israeliano, nel marzo 2019, durante un incontro dei parlamentari del Likud in cui si discuteva il trasferimento di fondi a Hamas, ha dichiarato che «chiunque si opponga a uno Stato palestinese deve sostenere la consegna di fondi a Gaza perché mantenendo la separazione tra l’Autorità Palestinese in Cisgiordania e Hamas a Gaza preverremo la creazione di uno Stato palestinese».
Nel 2014, Hamas e Fatah avevano annunciato un governo di unità nazionale, ma Israele mostrò la sua contrarietà minacciando che avrebbe messo in atto misure punitive. Da quando Hamas ha preso il controllo della Striscia, non solo lo Stato ebraico ha impedito ogni riconciliazione con l’ANP (Autorità Nazionale Palestinese), ma ha anche dato il via a diverse operazioni militari contro l’enclave. Nel 2014 ciò è avvenuto, curiosamente, pochi mesi dopo l’annuncio della possibile nascita di un governo di unità nazionale palestinese.
Le guerre tra Israele e Hamas degli ultimi anni

Questi ultimi si sono trasformati nel pretesto per mettere in atto una vera e propria pulizia etnica della popolazione palestinese attraverso l’operazione israeliana denominata Spade di Ferro, che ha mietuto finora oltre 22mila vittime, tra cui almeno 7mila bambini, rivelando la vera intenzione di Israele: espellere la popolazione nativa per occupare la Striscia. Ciò non è provato solo da documenti provenienti da istituzioni molto vicine alle centrali di potere israeliane, ma anche dalle recenti dichiarazioni di esponenti di spicco del governo di Netanyahu: secondo The Times of Israel, il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir e il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich hanno presentato la migrazione dei civili palestinesi come una soluzione al conflitto di lunga data e come un prerequisito per garantire la stabilità necessaria per consentire ai residenti del sud di Israele di tornare alle loro case.
In altre parole, nell’enclave è in corso un massacro, con la complicità degli Stati Uniti e dei suoi alleati vassalli, che nei disegni dell’élite israeliana dovrebbe concludersi in una seconda grande Nakba della popolazione palestinese, mentre la comunità internazionale si limita a osservare quello che, da più parti, è stato definito un vero e proprio genocidio. Si tratterebbe dell’ultima fase della strategia sionista del trasferimento, messa in atto fin dai primi anni di insediamento degli immigrati ebrei e proseguita ininterrottamente fino ad oggi. Un’eventualità che solo una forte reazione internazionale potrebbe impedire.
[di Giorgia Audiello]






Grazie per questo articolo, c’è bisogno di riportare sempre l’attenzione sui fatti storici di questo conflitto perché le menti sono molto offuscate e smemorate.
C’è un intervista molto interessante a Paolo Barnard in cui lui fa risalire le radici del conflitto alla fine dell’800 e delinea i tratti di un disegno sionista che ha dunque radici ben piu lontane e di cui i paesi occidentali sono stati complici. mi piacerebbe un vostro articolo documentato che ricostruisca questa genesi del conflitto. Grazie
Per storia familiare mi consta che sino alla caduta dell’Impero Ottomano nel 1917, Ebrei Cattolici e Arabi Palestinesi convivevano in Palestina, anzi a Gerusalemme la parte più ricca era quella Musulmana . Con il passaggio della Palestina sotto il protettorato Inglese cominciarono gli screzi tra Ebrei , che avevano ottenuto la possibilità di territori maggiori di spettanza della comunità, Musulmani Palestinesi ma anche Cattolici molti dei quali decisero di abbandonare la Palestina . Nello stesso periodo nacque il partito Sionista.
Sono abbonata ma non riesco a leggere l articolo per intero: cronistoria ragionata di un conflitto…