martedì 15 Ottobre 2024

Il decreto per la privatizzazione delle Poste è arrivato in Parlamento

La privatizzazione di Poste Italiane prende forma. Il decreto della presidenza del Consiglio dei ministri (DPCM) che dettaglia l’arretramento del soggetto pubblico è stato inviato alla Camera per il parere delle Commissioni Trasporti e Bilancio. L’atto governativo prevede che la quota “dello Stato nel capitale di Poste Italiane” non debba essere “inferiore al 35 per cento”. In altre parole l’Italia metterà sul mercato il restante 29 per cento delle azioni detenute, offrendole a risparmiatori e investitori istituzionali, italiani e internazionali. L’operazione, che alla luce dei tempi burocratici dovrebbe realizzarsi nell’autunno di quest’anno, vale nell’immediato 1,5 miliardi di euro. Sul lungo periodo, invece, si tradurrà in entrate minori per le casse pubbliche e dividendi ridotti, per una delle aziende più redditizie del panorama italiano. Si tratta del primo, piccolo, tassello della svendita che il governo Meloni ha in mente per racimolare 20 miliardi di euro e coprire gli impegni finanziari contratti.

Ad oggi, il 29,26 per cento delle azioni di Poste Italiane è controllato dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF), mentre Cassa Depositi e Prestiti – azienda controllata dal MEF – ne detiene il 35 per cento. Ciò vuol dire che il 64,26 per cento del capitale sociale di Poste Italiane è in mano al governo, almeno per ora. Nel DPCM inviato alla Camera, infatti, l’esecutivo fa sapere che è stato ritenuto “opportuno procedere alla dismissione di una ulteriore quota del capitale sociale di Poste Italiane mediante un’offerta di largo mercato rivolta al pubblico dei risparmiatori in Italia, inclusi i dipendenti del gruppo Poste Italiane, e/o a investitori istituzionali italiani ed internazionali”. Alla prima categoria dovrebbe essere destinato circa il 30 per cento delle azioni messe sul mercato, con gli investitori istituzionali – come fondi di investimento, fondi pensioni o compagnie assicurative – che si spartiranno la fetta più grande della torta. Una torta che fa gola a molti, visti gli ultimi dati che delineano un quadro estremamente positivo per il bilancio di Poste Italiane. Tra il 2022 e il 2023 si è registrato infatti un’importante crescita dei ricavi, arrivati a 12 miliardi di euro (+5,4%), e dell’utile netto, pari a 1,9 miliardi (+22,1%). I dividendi per gli azionisti sono aumentati del 23 per cento, arrivando a circa 80 centesimi per azione.

Per il momento i sindacati hanno risposto alla mossa governativa con una debole mobilitazione. L’Unione Italiana del Lavoro (UIL) ha realizzato un presidio nell’ufficio postale di Montesacro, a Roma; sempre nella capitale la Confederazione Generale Italiana del Lavoro (CGIL) distribuirà dei volantini nei pressi degli uffici postali fino a venerdì. L’obiettivo è sensibilizzare i cittadini circa i timori di una seconda ondata di privatizzazione delle Poste, asset strategico di un Paese che riguarda non solo i risparmi dei cittadini ma anche le loro identità digitali, dunque un’enorme mole di dati personali, e tutta l’infrastruttura logistica. L’arretramento del soggetto pubblico nella gestione delle Poste fa temere una dimensione di impresa più votata agli utili di bilancio – che già allo stato attuale delle cose viaggiano spediti, come dimostrano gli ultimi dati disponibili – che a una missione di cucitura sociale e territoriale. Ai sindacati preoccupa in particolar modo l’eventuale ridimensionamento dell’universalità del servizio (si pensi alla presenza sui territori con meno di cinquemila abitanti) sacrificabile alla luce di una visione meramente utilitaristica della gestione imprenditoriale.

[di Salvatore Toscano]

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4 Commenti

  1. Il grande tranello del sistema finanziario borsistico. L’azionista di maggioranza resterà sempre e comunque lo stato che avrà sempre il diritto di veto in consiglio di amministrazione, incluso sulle nomine dei suoi componenti, incluso il CEO. Questo accade anche per le ben più strutturate public company multinazionali private, dove l’azionista di maggioranza detiene un misero 2-3% e decide per il restante 98-97%. Un meccanismo perverso dove tutto il pacchetto azionario è scambiato in borsa, e non esiste più un “proprietario”, con una logica imprenditoriale, ma un azionista di maggioranza con logica finanziaria e opportunistica, che naturalmente se ne infischia (entro certi limiti) del futuro del restante 97-98%., fino al punto da distruggere un’azienda nelle sue fondamenta ed abbandonarla dopo averla subdolamente spremuta (Pfizer docet), lasciandosi alle spalle miseria e desolazione, oltre che perdita di immagine. Ma si sà, il proprio 2-3% di maggioranza lo si può “giocare” da un’altra parte, in una public company più “fortunata”.
    Pensare ai dividendi come premio per gli azionisti come se fossero tutti proprietari, non essendo in realtà proprietari di nulla, è la perversione delle perversioni!
    I servizi pubblici essenziali non devono essere inglobati in questo meccanismo di controllo perverso, a meno che l’azionista di maggioranza (in questo caso lo stato per le poste Italiane) non abbia veramente a cuore le sorti dell’azienda pur avendo un misero 2-3% o 30% che sia. La responsabilità della conduzione di un’azienda esula da logiche finanziarie. Quindi mi chiedo perché non fare in modo che certi servizi siano esclusivamente controllati da un governo responsabile e meritevole che non debba svendere le sue proprietà per racimolare qualche miliardo (in realtà sono nostre proprietà, dato che chi ci governa ha solo il dovere di amministrare le proprietà pubbliche). In questo modo si distribuiscono dividendi all’infinito. Denaro che, all’infinito, mancherà allo stato che dovrà chiedere come tasse. Non dimentichiamoci che i conti alla fine devono sempre tornare. Ma i conti si dev’essere in grado di farli, e a volte basta un modesto e accorto ragioniere più che un arrogante e sprovveduto statista.

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