lunedì 29 Aprile 2024

“Essere vivi”, una poesia di Shuntarō Tanikawa (1971)

Essere vivi ora vuol dire avere sete essere abbagliati dal sole fra gli alberi ricordare all’improvviso una melodia starnutire tenerti per mano.

Essere vivi essere vivi ora vuol dire minigonna un planetario Johann Strauss Picasso le Alpi vuol dire imbattersi in tutte le cose belle e poi essere attenti e opporsi al male che vi si nasconde.

Essere vivi essere vivi ora vuol dire poter piangere poter ridere potersi arrabbiare vuol dire libertà
essere vivi essere vivi ora vuol dire un cane che abbaia in lontananza ora la terra che sta girando ora da qualche parte il primo vagito che si alza ora da qualche parte un soldato ferito ora è un’altelena che dondola ora è l’ora che passa ora.

Essere vivi essere vivi ora vuol dire il battito d’ali degli uccelli vuol dire il fragore del mare il lento procedere di una lumaca vuol dire gente che ama il tepore della tua mano vuol dire vita.

(Shuntarō Tanikawa, 1971)

Il pensiero giapponese talvolta raffigura la metafisica di un attimo, la sospensione del divenire, ci fa accettare, senza domandarci nulla, quel che accade, quello che la nostra vista coglie così senza ragione.

Cogliere ma non vedere non guardare non osservare, semplicemente, essenzialmente dare nomi alle cose, ma forse soltanto nomi senza che le cose davvero esistano.

Attorno a noi ogni evento, ogni dato di realtà, ogni azione ha la sua piena entità, priva però di prima e di poi, quasi una nomenclatura dell’esistente di cui noi prendiamo parte.
E la poesia è come una sequenza di flash, di attimi, di entità che prendono la direzione di un nulla-tutto.

Giappone è ripetere con la poesia un copione di cose che esistono e basta, che servono soltanto per abitare il nostro sguardo, lento e immenso.

Poesia significa essere vivi, percepire immensità e minuzie, straordinario e ordinario come facce della stessa medaglia.

Non c’è sintassi, non c’è ordine, non ci sono cause ed effetti, ma soltanto tra le parole un circuito di passi sospesi, una congerie di frammenti che non dovranno mai trovare sintesi o destino.

Essere vivi, cioè fare diventare qualsiasi cosa poesia significa sottrarla a qualsiasi ordinamento, lasciarla lì senza senza legami.

Le sensazioni sono piccoli fulmini a ciel sereno, luci nella notte dell’ovvio, frammenti di un delirio felice che trova il suo ordine nell’incantesimo dello stupore.

Lo stupore però come sospesa anarchia di un battito stonato che dà la sua musica attorno, in un disordine incantevole, senza soggetto e senza oggetti. Quello di una leggerezza separata, di parole come ali, come conchiglie che risuonano ma non dicono nulla.

Una poesia impossibile per noi occidentali e per ciò stesso incantevole benché lontana.

[di Gian Paolo Caprettini]

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