venerdì 11 Ottobre 2024

L’indomita resistenza di Barcellona contro la speculazione turistica

Se pensiamo alla città di Barcellona ci viene probabilmente in mente una metropoli mediterranea, famosa per il suo mare, le sue spiagge, i quartieri composti da vicoli intricatissimi e le grandi opere di Gaudí e Miró. Forse siamo anche convinti che questa città sia una mecca turistica da tempi immemori, ma la realtà è ben diversa. Per farsi un’idea calzante di questa città, è doveroso tenere in considerazione una data: il 1992, anno in cui si sono celebrati i giochi della XXV Olimpiade e che hanno dato il via ad un processo di inesorabile trasformazione. Per quanto possa sembrare difficile, dobbiamo immaginare questa città senza il mare. L’unico quartiere esposto sulle onde era quello della Barceloneta, una penisola abitata un tempo da pescatori, spesso provenienti dal sud della Spagna, e adibita esclusivamente alla pesca. Inoltre, questo quartiere ospitava il porto industriale e mercantile della città, successivamente spostato e oggi limitato esclusivamente all’ultimo tratto orientale della costa cittadina, la Zona Franca.

Fino al 1992 il mare, eccetto per un brevissimo tratto di spiaggia tuttora esistente, era separato dalla città da un vero proprio muro che, costeggiato dalla ferrovia, a malapena permetteva la visione dell’acqua. È interessante notare, ad esempio, che gli autoctoni, ancora oggi, evitano frequentare le spiagge barcellonesi, ricordando la scarsa igiene che la costa vantava all’epoca, inquinata da scarichi industriali, spazzatura, siringhe e rifiuti d’ogni tipo. Il ’92 segnò la trasformazione. Una città nota per il suo decadentismo, meta di riferimento per i modernisti dei primi anni del Novecento, doveva essere pronta a spiccare il volo e le Olimpiadi, come avvenne alla città di Seul quattro anni prima, sono state la vetrina perfetta per dare vita ad un nuovo business: il turismo.

Ma gli abitanti cosa ne pensano di questo inesorabile processo di turistificazione?

Attraversiamo le vie della Barceloneta e notiamo la grande quantità di bar, ristoranti e boutique che si affacciano sulle strette vie che compongono il geometrico dedalo del quartiere. La piazza principale ci presenta un mercato storico, rimpiazzato da attività destinate al turismo. In uno dei luoghi più iconici della città, caratterizzato da una forte densità, tanto sociale, quanto abitativa, tutte quelle attività aperte dagli abitanti e per gli abitanti, in pochi anni hanno dovuto tirare giù la saracinesca. «Siamo aperti da quattro anni, anche se, a dire la verità, abbiamo preso in gestione la vecchia attività, che dopo vent’anni chiuse a causa del pensionamento del proprietario.» Così si presenta il nuovo gestore della Libreria La Garba. «Sarebbe stato un peccato perderla, ormai sono tante le attività che stanno scomparendo.» La libreria si unisce all’impegno dell’Associazione dei vicini della Barceloneta, un’entità finalizzata agli interessi e ai bisogni dei cittadini.

Quali sono questi bisogni?

Mentre mi perdo tra i vicoli che svelano per un attimo la vista del mare, per poi celarla subito dietro l’angolo delle palazzine, intuisco l’essenza di questo quartiere, attraverso le bandiere appese ai balconi, le porte aperte sulla strada e i saluti della gente tra i marciapiedi. «Ci aiutiamo l’uno con l’altro contro la proliferazione di appartamenti turistici» mi confessa Leo, proprietaria di uno dei bar più antichi del quartiere. Nata a Granada, si trasferisce in tenera età nella città condale e apre questo bar che vanta ormai sessant’anni d’attività. Oltre al bar, Leo è amministratrice della sua palazzina. «Anche se sto qua a lavorare, io so tutto. Tra vicini ci aiutiamo e con il tempo abbiamo ottenuto delle tutele dal comune.» In questo quartiere, a detta di Leo, i proprietari concedono contratti d’affitto a partire da un anno fino a cinque, dando quindi la possibilità di trasferirsi solo a chi è disposto a vivere davvero il quartiere. Il problema principale della città di Barcellona è l’unione tra gentrificazione e turistificazione. Nel primo caso, il trasferimento di persone spesso lontane dalle tradizioni del luogo e con un potere d’acquisto alto cambia il tessuto della zona, attirando investitori stranieri disposti a comprare gli spazi un tempo adibiti alla vita del quartiere. Questa peculiarità si unisce con l’esplosione del turismo, avvenuta inizialmente grazie ad interventi di riqualificazione urbanistica, i quali, come effetto collaterale, hanno portato all’incremento del costo degli affitti. Gli abitanti che non riescono a stare al passo con il nuovo tenore di vita si muovono verso zone più accessibili, mentre altri approfittano della situazione, trasformando le proprie case in appartamenti turistici. In questo circolo vizioso il vecchio viene sostituito con il nuovo e, molto spesso, il bagaglio culturale del vicinato storico si perde con esercizi costruiti ad hoc per un vicinato divenuto “usa e getta”.

Leo conosce tutti qui, gli amici dei figli e dei nipoti la considerano come una seconda madre. «Ho pensato di lasciare, ma durante la pandemia mi sono resa conto che troppe persone avevano bisogno di un aiuto, e qui, in qualche modo, lo hanno trovato.» Gli occhi della proprietaria trasmettono un amore profondo verso la sua gente, che in molti casi ha visto crescere. Per lei la Barceloneta è una fortezza. Questi vicoli, l’aria di mare, le fragorose risate e le conversazioni che si intavolano sul suo bancone non lasciano alcun dubbio: non saranno le nuove insegne a nascondere l’essenza di questo luogo.

Muovendoci dal quartiere della Barceloneta e oltrepassata la Ronda Litoral, ci immergiamo in uno dei quartieri più famosi della città: il quartiere storico del Gòtic. Furono proprio questi vicoli a vedere sorgere il nucleo principale dell’insediamento romano di Barcino, dal quale la città, nel corso dei secoli, si espanse. La zona antica di Barcellona si differenzia sostanzialmente da quelle delle più grandi città europee per una caratteristica, che sembra accomunarla alle metropoli del continente americano. Se siamo abituati ad associare i centri storici con i ceti sociali più ricchi, qui, durante il XIX secolo, la borghesia si è istallata nelle periferie, in particolar modo nella zona alta di Barcellona, lasciando il centro città alle classi sociali più umili.

«Ormai non c’è più nessuno» afferma desolata Iolanda, la proprietaria di un bar situato in Carrer Ample, una delle vie principali del quartiere. «Noi siamo qui dal 1983, io sono nata e cresciuta in questo quartiere e gradualmente osservo come i vicini stanno andando via e si stia spopolando il tessuto storico della città». La vita di quartiere è pressoché scomparsa, tutte le attività storiche, che offrivano servizi e si sostentavano grazie ad una clientela abituale, si sono viste costrette a chiudere i battenti, in difficoltà a causa dell’esplosione immobiliare e dei rispettivi prezzi degli affitti.

Quindi il quartiere è vuoto?

«Ormai tutte le case sono diventate appartamenti turistici. I palazzi contano 8, 10 appartamenti, ma di inquilini reali ce ne saranno 3 o 4. Il resto sono tutti turisti. Una stanza la affittano anche per 400 euro al mese». Passeggiando tra le vie è facile comprendere ciò di cui parla Iolanda. Qui è praticamente impossibile ascoltare qualcuno che parli in catalano, ma anche il castigliano si utilizza poco e quello che può sembrare un elemento linguistico, si riflette sull’intera fisionomia del quartiere. Le licenze, facilmente accessibili per le attività commerciali, sono destinate a ristoranti finalizzati al turismo; gli orari di attività si dilatano, le cucine rimangono aperte tutto il giorno e fino a tarda notte e dove prima figuravano insegne di parrucchieri, macellai o calzolai, adesso campeggiano quelle dei noleggi di monopattini, elaborati tapas bar e ristoranti da brunch. Per quanto il turismo possa coinvolgere anche le attività di ristorazione storiche, i nuovi ritmi e i gusti diventano complessi da gestire. «Noi i brunch non li abbiamo mai fatti, qui trovi un menù del giorno e in ogni caso per le 17.00 chiudiamo».

L’ex sindaca Ada Colau, al governo della città dal 2015 al 2023, proponeva nel suo programma elettorale la gestione del turismo, finalizzata a renderlo sostenibile e il più possibile rispettoso del tessuto sociale e urbano della città. Tra le varie misure attuate nei suoi otto anni da sindaca si annoverano il Pla especial urbanístic d’allotjaments turístics del 2017, un piano di regolazione delle attività turistiche, che ha limitato la concessione di licenze e lo stanziamento di fondi per la creazione di abitazioni pubbliche o di spazi, come le superilles. Queste grandi zone pedonali sono state il progetto cardine della reggenza Colau; finalizzate alla formazione di dinamiche cittadine sostenibili, hanno impattato fortemente sulla struttura di alcuni quartieri residenziali. Una politica di limitazione della concessione di licenze, ha avuto come controparte l’aumento del mercato illegale degli appartamenti turistici che, se nel caso della Barceloneta o di Gràcia, sono denunciati dall’attenzione della comunità di vicini, in quartieri ormai spopolati come il Gòtic diventano molto più difficili da contrastare. «La Colau ci ha provato e ci è riuscita in quartieri come Gràcia, dove la comunità di residenti è ancora molto presente e sono riusciti a metterci una pezza, ma qui non c’è più nessuno disposto a resistere».

In ogni caso le misure di gestione turistica non sono riuscite a limitare un altro fenomeno che in egual misura ha influito sulla condizione dei quartieri storici, ovvero l’aumento degli expat e del nomadismo digitale. Persone con un potere d’acquisto elevato, che avendo la possibilità di vivere ovunque, grazie allo smartworking offerto da ingombranti aziende straniere, si stabiliscono, spesso per brevi periodi, in luoghi dove la qualità della vita è maggiore. Accedendo così a contratti d’affitto brevi, questa nuova comunità dà vita ad un processo che genera attività in linea con il consumismo globalizzato e che altera l’equilibrio cittadino. Gli esercizi commerciali storici tra queste vie, spesso a gestione familiare, sono ormai pochissimi. «Qui tutto è di cartapesta, decorato. Sotto, oramai, non è rimasto più nulla.»

A est del Barri Gòtic, attraversata la Rambla, la via più famosa di Barcellona e rappresentazione perfetta del processo di turistificazione, ci imbattiamo in uno dei quartieri più iconici e contraddittori della metropoli: El Raval.

Spesso avverso alle necessità turistiche, lontano ideologicamente dagli sbrilluccichi delle vie patinate, questo quartiere ha saputo accogliere le diverse anime di questa città, caratterizzandosi proprio per la sua diversità. Qui la popolazione, composta da numerose etnie, è presente, le attività sono numerose e si spazia dalla ristorazione agli eventi culturali, con alcuni tra i bar musicali più importanti della città. Anche qui il processo di gentrificazione è in corso, ma sta avvenendo in maniera più subdola. «Prepariamoci, le cose sono cambiate, prima ce n’erano uno o due al mese, adesso dobbiamo essere pronti ad almeno tre sfratti a settimana». Inizia con queste parole l’assemblea settimanale del Sindicat del habitatge del Raval, un collettivo composto da uomini e donne di tutte le età e di ogni provenienza. Una cinquantina di persone sono radunate all’interno di una delle sale storiche dell’Hospital de la Santa Creu, un edificio del XV secolo divenuto nel 1935 la sede dell’Accademia di Belle Arti, attualmente spostata in una piazza poco distante. Il sindacato ha occupato quest’edificio di proprietà del comune e da quando il nuovo sindaco Jaume Collboni, appartenente al Partito Socialista Catalano, si è insediato al governo municipale, anche il collettivo rischia lo sfratto. «Quando c’erano gli En Comù [partito di Ada Colau] al governo, potevamo pensare addirittura di ottenere la licenza e rimanere qui, ora il PSC ci intima di andarcene senza nemmeno darci la possibilità di riceverci e parlarne.»

La turistificazione si affronta su vari fronti. La lotta del collettivo è focalizzata sugli sgomberi che si stanno attuando ai danni dei cittadini, che spesso, senza possibilità di alternativa, si sono visti costretti a lasciare le loro case. Queste, infatti, sono state acquistate da grandi gruppi immobiliari o da istituti azionari, che ne hanno richiesto lo sgombero per creare uffici, alberghi e appartamenti turistici. È stato il caso della signora Blanca Espinosa, una donna di 78 anni che il 22 novembre ha visto i Mòssos d’Esquadra intenzionati a compiere lo sgombero dell’appartamento in cui viveva, a causa di un debito non pagato che ammontava a 178 euro. La donna, che vive lì da 55 anni, non era d’accordo con il risultato di alcuni lavori di ristrutturazione imposti dalla proprietaria e finalizzati a rendere la casa, in un futuro prossimo, un appartamento turistico. Insieme a numerose organizzazioni, quella mattina il Sindicat del Raval si è radunato sotto le finestre della signora Blanca per protestare ed impedire l’azione della polizia. Giovani, anziani, nuovi arrivati e residenti storici scambiano opinioni, presentano i propri problemi e ricevono i consigli e l’aiuto di chiunque possa dare una mano. Il collettivo permette a coloro che hanno subito uno sfratto di conservare lì le proprie cose in attesa di trovare un posto dove stare e, se possibile, offrire un po’ di empatia e vicinanza, in una condizione che sembra, purtroppo, accomunare sempre più persone.

Diventa quindi doveroso chiedersi se sia possibile generare una forma di turismo differente, che possa convivere con il contesto cittadino, arricchendosi delle esperienze che proprio questo, nella sua unicità, può regalare. Sicuramente un turismo fondato su un consumismo che si impone ferocemente sulle città, con il fine di trasformarle in semplici scorci da cartolina o da post, non otterrà facilmente l’accondiscendenza dei locali. Il cortocircuito si presenta quando questo turismo corrompe chi dovrebbe opporsi, dalle istituzioni agli abitanti, ma finisce per mettere contro vicini un tempo uniti nella cura verso il proprio spazio comune.

Come abbiamo visto però, c’è una parte della comunità che sta trasmettendo di generazione in generazione l’amore verso i propri luoghi, l’attenzione verso i bisogni della collettività e la necessità di difendere il diritto ad un’abitazione degna e accessibile a tutti. Attraverso la resistenza, che si manifesta attraverso la salvaguardia delle attività storiche o con le proteste contro gli sgomberi, non si compie un atto di lotta locale, ma si riscopre l’attenzione e la cura verso tutte le eterogeneità culturali.

[di Armando Negro]

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