Milano è sulla bocca di tutti, è un dato di fatto. Le iniziative e gli eventi che caratterizzano la città trovano spazio in numerosi giornali, ed è quasi impossibile non imbattersi sui social media in video e contenuti che ne decantano le attività più disparate, i locali più cool o le feste più in voga. Sempre più gente sceglie Milano come meta turistica, riversandosi nei vari poli della città, riempiendo i sempre più numerosi dehors di bar, bistropub, boutique del gusto e chi più ne ha, più ne metta. Ma le persone più grandi, anagraficamente parlando, ricorderanno sicuramente un tempo, non così remoto, nel quale Milano non aveva questa patina, al contrario, era nota per la sua freddezza, per l’ossessione per il lavoro: la città grigia per eccellenza, anche negli scintillanti anni della Milano da bere. Ad un tratto tutto cambiò, ed è ingenuo pensare che questo drastico cambiamento possa essere stato casuale. Il piano per trasformare Milano in una città accattivante è stato studiato perfettamente e adesso non si torna più indietro.
Difatti, i venticinque anni di governo della città, che hanno visto differenti colori politici, la destra dei primi anni 2000 e la sinistra dagli anni ’10 ad oggi, a dir la verità non hanno dimostrato grossi cambiamenti, bensì una definita continuità politica, fondata sull’urbanistica e sul marketing. Un vero e proprio rebranding ha reso Milano, perlomeno sulla carta, la città europea per eccellenza. Questa continuità politica non dovrebbe però stranirci, non a caso durante il secondo mandato del governo di Letizia Moratti, dal 2009 al 2011 il ruolo di Direttore Generale del Comune di Milano era ricoperto da colui che sarebbe in seguito diventato Commissario Unico per Expo 2015 e attualmente sindaco della città: Beppe Sala.
Tutto ebbe inizio con la «riqualificazione» della zona che si estende tra le stazioni di Milano Centrale e Milano Garibaldi, attraverso il Progetto Porta Nuova curato da Hines e da Hines Italia, all’epoca di Manfredi Catella, attuale dirigente di COIMA, e per un 18% dall’imprenditore pluripregiudicato Salvatore Ligresti. Dal 2004, anno di approvazione del progetto al 2015, anno di Expo Milano, la zona si è vista completamente riformata, grazie all’edificazione dei grattacieli che oggi compongono lo skyline milanese. Torre Unicredit, Torre Solaria, Torre Diamante e il Bosco Verticale sono solo alcuni dei progetti che hanno cambiato la conformazione del territorio. Questo è l’esempio migliore per descrivere il processo che sta modificando quotidianamente non solo la città di Milano, ma ormai un numero sempre maggiore di città in tutto il mondo. Non è nuovo ai più probabilmente il termine «turistificazione», che indica tutti quei processi che portano all’incremento del turismo all’interno delle città e che di conseguenza cambia l’assetto delle stesse, portando alla proliferazione di attività dedite a questo business. Alberghi, ostelli, hotel di lusso, appartamenti turistici, esplosi negli ultimi anni grazie a piattaforme on-line come AirBnb occupano in realtà solo una piccola parte della trasformazione cittadina, il turismo di massa nel tempo porta al graduale svuotamento delle attività indirizzate alla cittadinanza; tutti i servizi dedicati a chi vive, come mercati, parruccherie, biblioteche, calzolerie, cartolerie si vedono costrette a chiudere per lasciare il posto a locali dediti spesso alla ristorazione e a boutique di lusso. Questo processo però, spesso si unisce ad un altro fenomeno sempre più diffuso e in sordina rispetto al primo: la gentrificazione. Il quartiere adiacente al centro direzionale di Milano, Isola, è stato il primo a trasformarsi drasticamente e quello che è accaduto rientra perfettamente nei canoni della gentrificazione. Con la scusa di una presunta riqualificazione urbana, l’unica qualità che chi risiede nel quartiere vive è quella di vedere schizzare i prezzi degli immobili, che di conseguenza alzano vertiginosamente i prezzi degli affitti e dei servizi presenti sul territorio.
«Almeno il valore della mia casa è aumentato» ho sentito dire spesso in città. Ed è vero, ma il beneficio proveniente dall’incremento del valore è relativo per numerose ragioni. In primis, chi vive in una zona gentrificata sta già facendo i conti con lo spopolamento del tessuto sociale che lo circonda, chi non può permettersi un affitto, che sale anno dopo anno, è costretto a lasciare il quartiere, portandosi spesso con sé il contributo che apportava alla sua comunità. E le case, ormai vuote, vengono affittate a prezzi accessibili solo a chi possiede un potere d’acquisto adeguato alla nuova richiesta. La nuova città diventa quindi ad esclusivo appannaggio di alcune categorie, tra le quali possiamo osservare i cittadini «short-term», migranti di nuova generazione, che per eredità classista preferiamo definire «expat», che sopraggiungono in città grazie alla propria condizione di nomadi digitali e lavoratori da remoto, spesso impiegati in aziende multinazionali, con salari molto più alti rispetto a quelli del tessuto sociale originario. Per soddisfare i bisogni della nuova cittadinanza è necessario ricreare servizi riconoscibili in tutto il mondo: brunch dei quali si può godere anche a Manhattan; coworking spaziosi in loft post-industriali modellati su quelli che si possono incontrare nel quartiere di Gràcia a Barcellona o Shinjuku a Tokyo e supermercati Carrefour Express, aperti sette giorni su sette, che ho avuto la possibilità di frequentare sia in un piccolo paese della costa taiwanese, che in ogni angolo del quartiere dei Navigli.
L’altra illusione che consola chi vede crescere il valore del proprio immobile è indubbiamente il fatto che chi vive in una casa di proprietà, non godrà mai di alcun introito a meno che non decida di venderla. «La valorizzazione del metro quadro non è una fonte di ricchezza per i proprietari. La rendita rende solo ai multiproprietari» mi spiega Lucia Tozzi, studiosa di politiche urbane, giornalista e autrice del testo «L’invenzione di Milano», edito da Cronopio; «questo passaggio spesso sfugge anche agli attivisti, ed è fondamentale». Difatti, chi possiede solo la casa in cui vive, per poter usufruire del valore economico del proprio immobile è costretto a vendere e ad andarsene, ma se il processo coinvolge l’intera città, la possibilità di accedere a case più spaziose al prezzo equivalente al proprio immobile, può avvenire solo spostandosi in piena periferia, rinunciando così, oltre che alla propria comunità, a tutti i servizi che la città offre. I quartieri si svuotano, cambiano aspetto e la nuova cittadinanza non ha interesse di manifestare un impegno profondo verso il tessuto sociale nel quale si è trasferito, in quanto, molto probabilmente, dopo poco tempo se ne andrà, preferendo centri urbani più alla moda, che hanno iniziato da meno tempo il loro processo di gentrificazione.
Basandosi su questa politica, il Comune di Milano ha dato vita a numerose iniziative finalizzate allo sfruttamento di quartieri abbandonati a loro stessi, grazie alla negligenza dello stesso governo comunale. Ma tutto ciò non avviene per caso, anzi. Con il tempo numerose strutture comunali pubbliche, con la scusa della mancanza di capitale adibito alla manutenzione, sono state svendute ad enti immobiliari privati, che hanno messo in marcia la solita riqualificazione, trasformando così un luogo aperto a tutti ad un contesto accessibile a pochi, spingendo sul modello che Milano domina alla perfezione: la comunicazione. «Uno dei più grandi progetti di riqualificazione urbana in Europa» recita il sito di BAM – Biblioteca degli Alberi di Milano, un parco inaugurato nel 2018, incastonato sotto la piazza Gae Aulenti, con il fine di essere il nuovo «polmone» della città meneghina. Questo progetto racchiude alla perfezione le peculiarità della relazione pubblico-privato della città; curato ancora una volta da Manfredi Catella e dall’azienda di cui è socio fondatore, COIMA, il parco sorto su uno spazio pubblico, viene curato nei minimi dettagli per essere l’eccellenza verde di Milano, ospitando infinite specie arboree e spazi dediti allo sport, allo svago e alla musica. L’unica caratteristica che differenzierebbe questo parco dai vari parchi pubblici della città è la sua struttura, progettata da Petra Blaisse, che manifesta tutto il suo splendore se vista dall’alto, dagli attici del Bosco Verticale. Accessibile a tutti, godibile a pochi. Inoltre, il parco, che presenta una fitta rete di eventi, spesso sponsorizzati da brand e multinazionali, è perennemente pattugliato dalle Forze dell’Ordine e da custodi, pronti ad intervenire in caso di situazioni a loro giudizio «sgradevoli».
Sulla stampa generalista il progetto è stato ampiamente elogiato, come d’altronde ogni iniziativa del genere. Difatti, è praticamente impossibile trovare opinioni contrastanti, perché, come al solito, l’occhio dei media preferisce scorgere l’opulenza che la città manifesta, invece che porsi dilemmi etici sulla questione. Spesso, voci critiche riguardo la gestione amministrativa del Comune, possono portare a querele, come nel caso del giornalista del Fatto Quotidiano, Gianni Barbacetto, querelato attraverso una delibera della giunta comunale della città, per diffamazione in seguito ad alcuni post pubblicati dal giornalista inerenti all’inchiesta giudiziaria per abuso edilizio nella città.
Porta Nuova è stato l’apripista dei vari progetti che hanno così trasformato intere aree della città; come per il quartiere Isola, la zona dello scalo di Porta Romana dove sorge Fondazione Prada ha iniziato ad essere stravolto, lasciando spazio a edifici per studenti, poli del terzo settore e, attualmente, è pronto ad ampliarsi coinvolgendo le zone circostanti, nel complesso che verrà adibito alle Olimpiadi Invernali di Milano-Cortina 2026, dove sorgerà il temporaneo villaggio olimpico, ma che, terminato l’evento, sarà pronto per essere utilizzato per progetti di housing sociale e, ancora una volta, avrà tutte le carte in regola per riqualificare un’altra, «degradata», zona periferica.
Stesso discorso si può applicare per la zona Nord-Est e per le vie che partono da Piazzale Loreto, Viale Monza e Via Padova. Entrambe sono state storicamente un luogo d’arrivo per numerose comunità che durante gli anni hanno trovato casa e che, ovviamente, hanno sofferto la ghettizzazione e la critica da parte della stampa razzista del paese. Durante gli ultimi anni del 2010, però, l’area si è vivacizzata all’altezza di Piazzale Morbegno, divenendo così la capostipite insieme al quartiere di Porta Venezia della diversità queer, etnica e culturale e l’onda «alternativa» è stata tale che il quartiere degradato, è diventato cool, tanto da cambiare nome: NoLo, North of Loreto (a ricordare il più noto SoHo, South of Houston Street, a Manhattan). Anche in questo caso, i prezzi delle case hanno iniziato a lievitare, colpendo tutte quelle persone a basso reddito, che anagraficamente rientrerebbero nella «diversità», ma risultando, evidentemente, troppo diverse per partecipare alla vita rinnovata del quartiere. In questo gioco, Via Padova è inizialmente riuscita a difendersi dalle grinfie della speculazione abitativa, fino a ricevere nel 2022 la stangata da parte del Comune di Milano, attraverso LOC – Loreto Open Community un progetto di riqualificazione e ristrutturazione di Piazzale Loreto, a cura di Ceetrus Nhood, ente facente capo a Gérard Mulliez, fondatore di Auchan e i marchi di fast fashion Kiabi e Pimkie, e promosso dal comune e il network internazionale C40 Cities. Attraverso questo bando la piazza diventerà sostenibile (nella stessa maniera in cui lo sono probabilmente Kiabi e Pimkie), ospitando nuovamente parchi, percorsi ciclabili con rispettivi servizi di bici a noleggio e uno spazio attraversabile di 9000 metri quadrati. Il progetto è attualmente fermo, in attesa dello svolgimento delle indagini da parte della procura di Milano e, soprattutto, in attesa del decreto del Governo indirizzato ai condoni urbanistici, fortemente voluto dal Ministro delle infrastrutture e dei Trasporti Matteo Salvini.
Le ragioni dietro la proliferazione di progetti del genere, finalizzati alla privatizzazione e alla trasformazione della città si fondano su più cause strettamente connesse. In primo luogo, dal 2005 al 2023, gli oneri di urbanizzazione richiesti dal Comune di Milano agli enti immobiliari privati non hanno superato il 3%, differentemente da molte altre città europee dove i suddetti oneri superano anche il 30%. Chiaramente questo ha permesso di dare vita ad una situazione nella quale costruire conveniva (e continua a farlo), levando al Comune la spesa della manutenzione dello spazio pubblico. Tutto ciò, se coperto da una patina di forte rebranding, non solo diventa giusto nella vitalità cittadina, ma viene venduto come una vera e propria necessità per la popolazione. Quest’ultima, infatti, anche nelle sue frange più rumorose, viene tenuta non solo silenziata, ma resa illusoriamente partecipe di questo progetto, del quale, in fondo, ne è esclusa. Milano ha così organizzato una fitta rete di bandi a finanziamento attraverso i quali mettere in gioco le poche entità contrarie a questo progetto, convincendole che partecipando alla costruzione della nuova città, avrebbero potuto farsi sentire, facendole finire però nel meccanismo ben oleato della gentrificazione.
Resta così la resistenza di una rete di sindacati per l’abitare, collettivi politici e persone impegnate nella divulgazione di questa tematica, che si sta espandendo a macchia d’olio. «Il primo focus da tenere d’occhio sono sicuramente gli scali, non solo lo Scalo di Porta Romana, ma in tutte quelle zone, come lo scalo Greco, dove i valori immobiliari stanno già crescendo, anche se il completamento dell’opera magari avverrà tra dieci anni.» mi spiega Luca Trada, attivista del collettivo politico Off Topic Milano, una realtà situata nel quartiere Isola, che si occupa di lotta e divulgazione, che ha da poco pubblicato un pieghevole sul processo di gentrificazione del quartiere Corvetto. «Ci sono un sacco di aree dove prima o poi scatterà l’effetto domino, come Città Studi, non appena avverrà il trasferimento di facoltà in area MIND (ex Expo)». A questi si aggiungono le caserme, il nuovo stadio di San Siro, Santa Giulia, Porta Vittoria, l’area degli ex Mercati Generali, Dergano, il Giambellino, gli impianti ippici, le piste d’allenamento, la Piazza d’Armi e molte altre ancora.
Nel gioco della gentrificazione non c’è spazio per chi non ha la possibilità economica di rimanere e questa denigrazione colpisce tutti, in particolar modo chi ha un tetto sopra la testa grazie alle soluzioni pubbliche come le case popolari. Il caos mediatico scaturito dalle dichiarazioni di Ilaria Salis sulla sua militanza nei movimenti di difesa alla casa e sulle accuse di occupazioni e le multe a lei destinate dall’ente ALER, dimostra come la stampa generalista sia totalmente disinteressata al problema reale e che adesso, attraverso la figura di Salis, ha trovato il modo di disinnescare, se non affossare. Le case popolari, emblema dell’impegno pubblico proposto dai comuni, nel momento in cui vengono abbandonate a se stesse, magari con la giustificazione dell’assenza di soldi (chiara conseguenza dell’applicazione di oneri d’urbanizzazione insignificanti), diventano il primo bersaglio della privatizzazione. Luoghi simbolo del «degrado» cittadino, dei quali attualmente più di 15.000 tenuti vuoti secondo le stime dei bilanci ALER, se acquistati e gestiti da enti di housing sociale diverranno la soluzione abitativa per la nuova cittadinanza giovane e smart, fortemente attesa da Sala e che rimangono in linea con il racconto della città che da vent’anni si è pedissequamente obbligati a ripetere.
La città allora si svuota da ogni servizio destinato alla cittadinanza reale, spariscono elementi urbanistici poco «sostenibili», come le discariche, attualmente relegate ai confini della periferia, come nel caso della ricicleria di Piazzale delle Milizie dismessa per lasciare spazio al progetto Bosconavigli, un enorme complesso abitativo costituito da più di 10.000 metri quadrati di spazi verdi, 3.550 dei quali ad uso privativo. Inutile dire che il prezzo al metro quadro di questi appartamenti si aggira intorno agli 8.000 euro.
Il problema evidentemente non riguarda solo Milano, che punta ad imporsi come faro per le altre città in Italia. Questo processo si sta gradualmente espandendo ovunque, si può osservare a Napoli, a Bologna, per non parlare di tutte quelle città nel mondo che già stanno facendo i conti con le conseguenze nefaste di questo processo. La gentrificazione, attraverso la speculazione classista dei grandi gruppi immobiliari e della politica, snatura le peculiarità sociali dei centri urbani, mettendo in evidenza l’emblema culturale della globalizzazione.
«Perché venire a Trude? mi chiedevo. E già volevo ripartire. – Puoi riprendere il volo quando vuoi, – mi dissero, – ma arriverai a un’altra Trude, uguale punto per punto, il mondo è ricoperto da un’unica Trude che non comincia e non finisce, cambia solo il nome dell’aereoporto».
Con queste parole Marco Polo raccontava a Kublai Khan la città di Trude, nel libro Le città invisibili di Italo Calvino. Anche nella nostra realtà, tutte queste città fregiatesi a baluardo della diversità e della sostenibilità, vendute attraverso i video verticali dei social network e con altisonanti articoli dei media affiliati a gruppi immobiliari saranno ineluttabilmente sempre più simili, fino a diventare indistinguibili, giungendo al giorno in cui anche la resistenza della cittadinanza verrà annientata, per far posto agli avari interessi di pochi. Sempre più imponente sulle cartine geografiche, anche Milano ha tutte le carte in regola per diventare presto una città vuota.
[foto e testo di Armando Negro]
Un articolo serio e profondo. Potrei aggiungere che a parte i dati citati dal giornalista, dati che ormai si possono riconoscere in ogni grande città europea, si dovrebbe anche considerare le origini di tanta brama, di tanto progresso-scempio. E qui la questione diventa “analogica”. Questa trasformazione avviene con il consenso della massa, orientata verso un mondo completamente digitale che fa perdere il contatto con la realtà di tutti i giorni, un mondo che ha come punto cardinale il Brand, il marchio, il sembrare e non l’essere ( qui mi ricorda il vecchio dimenticato Fromm ). Un’esperienza vissuta in prima persona al mio ritorno dopo tanti anni a Milano, mia città d’origine. Sono in piazza Duomo e naturalmente desidero entrare per rivedere gli interni e respirare per un momento l’atmosfera sacrale di un tempo. Sulla destra una transenna che mette in riga una fila di cinesi e sudamericani. Prenotazione e pagamento del biglietto via applicazione. Al centro, il portone principale chiuso, sulla sinistra un angolino staccionato con possibilità di entrare gratis, su permesso e benvolere di guardie più o meno giurate alle quali devi spiegare che vuoi entrare per pregare. Entri e rimani ingabbiato sulla sinistra. Il centro e la maggior parte del Duomo rimane per i paganti digitalizzati. A sera passeggiando attorno a questo edificio simbolo della cristianità meneghina, svettano e lampeggiano enormi cartelloni luminosi appesi al Duomo fino all’altezza delle guglie che pubblicizzano un profumo, una casa di moda, appunto un Brand. Volti di esili slavati unisex modelli o modelle, non so, ricoprono gli edifici circostanti.
Articolo rivoluzionario. Complimenti. Per permettere una vita dignitosa ai residenti-lavoratori basterebbe indicizzare il loro stipendio ai prezzi degli immobili.
Che bel l’articolo! Finalmente qualcuno ha spiegato perché quando arrivo a Milano mi viene solo voglia di andare via… non ha più una sua identità, non è più una “città “ ma un gigantesco centro commerciale