lunedì 14 Ottobre 2024

Cuba riaccoglie Gino Donè, il partigiano che insegnò a Che Guevara come sparare

A Cuba, nell’archivio storico delle Forze Armate Rivoluzionarie, esiste un fascicolo per ognuno degli 82 membri della spedizione del Granma, la barca con la quale Fidel Castro partì dal Messico alla volta di Cuba per dare inizio alla Rivoluzione. Tra questi c’è un membro che di cognome fa Donè. Da questo cognome, tipicamente veneto, i giornalisti Giovanni Cagnassi de “La Nuova” di Venezia e Gianfranco Ginestri de “El Moncada”, periodico dell’Associazione Nazionale di Amicizia Italia-Cuba, hanno ricostruito negli anni la storia incredibile di un uomo, ultimo partigiano garibaldino, eroe dei due mondi e protagonista di due lotte di liberazione nazionale. Dalla provincia di Venezia alle montagne, fucile in spalla, per combattere i nazifascisti, e poi Oltreoceano, di nuovo imbracciando il fucile, unico europeo che prese parte alla rivoluzione cubana. Nel 2003, ormai anziano, Donè tornò in Italia, ma espresse la volontà che dopo la morte le sue ceneri riposassero a L’Avana. L’ultimo viaggio di Donè si è compiuto ieri, quando nella capitale cubana un picchetto d’onore lo ha riaccolto consentendo a lui di riposare nel pantheon riservato ai guerriglieri che nel 1959 liberarono Cuba dalla dittatura filo-americana, e a noi di riavvolgere il nastro dell’incredibile storia del partigiano dei due mondi.

ll Presidente dell’ANAIC Marco Papacci consegna l’urna con le ceneri alle autorità cubane

Gino Donè nasce il 18 maggio 1924 a Monastier, vicino a Venezia. Figlio di braccianti ma dalla curiosità prorompente, dopo aver frequentato le scuole professionali viene arruolato nell’esercito nel 1942, di stanza a Pola, dove si troverà anche l’8 settembre 1943, data dell’armistizio: rifiuta l’inquadramento nei ranghi nazisti e torna in Veneto, dove si arruola partigiano, dapprima con la Brigata Piave in operazioni di soccorso e liberazione di prigionieri e successivamente con la Missione Alleata Nelson sotto la guida del Comandante Guido, un ingegnere italo-americano operante nell’area della laguna di Venezia. Le sue azioni partigiane gli valgono, nel 1946, un encomio personale da parte del Generale in capo dell’esercito alleato in Italia, Harold Alexander, per il salvataggio di alcuni prigionieri inglesi catturati dai tedeschi. Che Gino la guerra la sapesse fare, e anche bene, è da subito evidente: né sarà l’ultima volta che avrà modo di mettere a frutto questa sua abilità.

Terminata la guerra, l’Italia non è generosa con lui: la disoccupazione e l’obbligo di prestare servizio di leva per altri due anni lo spingono nel 1947, zaino in spalla, ad abbandonare il Paese per cui ha combattuto e ad emigrare, non prima di aver contribuito a fondare la Sezione Provinciale Veneziana dell’ANPI – Associazione Nazionale Partigiani d’Italia. Pieno di entusiasmo e di curiosità, Gino parte alla volta di Francia, Belgio e Germania, dove lavora come minatore. Nel 1950, stanco del Vecchio Continente, si imbarca da Amburgo e raggiunge nel 1951 Cuba, dove viene registrato come Gino Donè Paro, prendendo anche il cognome materno come usanza nei paesi di lingua spagnola.

Si guadagna da vivere come muratore, decoratore, falegname. È carpentiere nella costruzione della grande Plaza Civica, l’attuale Plaza de la Revolución. Alloggia vicino all’Università e nel tempo libero affina il proprio spagnolo conversando con gli studenti e con uno scrittore americano, un tale Ernest Hemingway, che amava l’Italia e conosceva bene il Veneto per averci combattuto durante la Prima Guerra Mondiale, da cui aveva tratto ispirazione per i suoi romanzi “Addio alle armi” e “Di là dal fiume e tra gli alberi”.

Ma la Storia torna a bussare alla sua porta: Cuba in quegli anni è un paese in fermento, sotto una dittatura feroce e spietata, che reprime e tiene soggiogati processi sociali che stanno per esplodere. Ed è proprio nell’ambito universitario che entra in contatto con il malcontento popolare e le istanze di rinnovamento che il 26 luglio 1953 esploderanno nell’assalto alla Caserma Moncada, momento in cui il giovane leader del Partito Ortodosso Cubano, l’avvocato Fidel Castro, si incammina a diventare leader del movimento contro la dittatura. «La sera – raccontò Gino – mi sedevo sugli scalini dell’Università, e ascoltavo quello che dicevano i giovani studenti che si radunavano in piccoli gruppi. I loro discorsi mi interessavano sempre di più, perché mi rendevo conto che si stavano organizzando contro Batista».

L’incontro e il matrimonio con Norma Turino Guerra, giovane rivoluzionaria della città di Trinidad e amica di Aleida March, futura moglie di Ernesto Che Guevara, lo avvicinano all’organizzazione rivoluzionaria Movimento 26 Luglio – chiamato così dalla data dell’assalto alle caserme di Bayamo e Santiago de Cuba. Diventa presto tesoriere della sezione di Santa Clara e viene incaricato dal dirigente Faustino Pérez Hernández, dato il suo passaporto italiano che non insospettisce le autorità cubane, di portare missive e denaro in Messico, dove Fidel Castro è stato esiliato e sta preparando la controffensiva. Quel denaro servirà ad acquistare armi, rifornimenti, uniformi, ma soprattutto lo yatch Granma, l’imbarcazione con cui Castro intende guidare la spedizione di rivoluzionari verso la liberazione di Cuba.

È così che Gino conosce il giovane Fidel Castro, il fratello Raúl e il giovane medico argentino Ernesto Guevara. Più grande di due anni di Fidel, è il più vecchio del gruppo – ha 32 anni – ma anche il più esperto. La sua esperienza da partigiano, la sua conoscenza delle tecniche di guerriglia e la comprensione della loro efficacia contro un esercito regolare sono preziosissime in quelle settimane di addestramento in Messico. Parlando di Guevara, che lui non chiama mai il Che ma solo Ernesto, ricorda con un sorriso «sono stato io a insegnargli a sparare bene, e soprattutto le tecniche della guerriglia, come si organizzano gli agguati, come si attacca e come si fugge. Ernesto era un bravo medico, ma con le armi era inesperto. Se sbagliava un tiro, durante l’addestramento, io lo incoraggiavo. Insomma, credo di essere stato un buon maestro».

Un momento della cerimonia riservata a Gino Donè a Cuba

Il 25 novembre 1956 i rivoluzionari partono dal porto di Tuxpan a bordo del Granma, in 82 su una barca che di persone ne poteva portare al massimo 20. Gino ha in quel momento il grado di Tenente del Terzo Plotone sotto il comando di Raúl Castro. È l’unico europeo del gruppo, lo chiamano scherzosamente el Italiano: gli altri stranieri sono l’argentino Ernesto, il messicano Alfonso e il dominicano Ramón.

La traversata del Golfo del Messico è lunga e difficoltosa, «doveva durare tre giorni e invece siamo stati in mare per sette giorni», finiscono viveri e carburante. «Sul Granma, secondo me, più che responsabili eravamo tutti dei pazzi, ma pronti a dare la vita uno per l’altro. Uno per tutti, tutti per uno». I militari batistiani sono al corrente del loro arrivo, ma il maltempo che rallenta i rivoluzionari al tempo stesso li nasconde, ne permette lo sbarco a Playa de las Coloradas, ancorché disastroso per le mangrovie e il terreno fangoso, che intrappola i guerriglieri, ne limita i movimenti, impedisce loro di rifugiarsi subito verso la Sierra Maestra, rendendoli facili bersagli della repressione dell’esercito, che li insegue, li bracca, li accerchia ad Alegria de Pio, prima che riescano a trovare salvezza e a riunirsi sulla Sierra. Degli 82 granmisti partiti dal Messico, solo una dozzina si riuniscono sulle montagne, il resto disperso o ucciso. Lo scontro a fuoco separa Gino Donè dal gruppo principale, lo costringe a rifugiarsi a Trinidad, dove si ricongiunge con la moglie, e poi a Santa Clara. Lì partecipa e organizza azioni di sabotaggio contro il regime, finché la sua condizione di ricercato lo costringe nel gennaio 1957 all’esilio negli Stati Uniti.

E qui, nei fatti, termina la storia conosciuta di Gino Donè. Da quel gennaio del 1957 e fino al 2003, anno del suo ritorno in Italia, le notizie sulla sua vita sono quasi inesistenti. Il poco che si sa lo si è appreso da spezzoni di conversazioni, frasi lasciate in sospeso da Gino stesso. Una volta negli Stati Uniti chiede e ottiene il divorzio dalla moglie Norma per sposare la militante antimperialista portoricana Antonietta De La Cruz, alla cui morte, senza figli e doppiamente vedovo, ritorna in Italia nel 2003.

Cosa sia successo in quei quasi 50 anni è avvolto nel mistero. Si possono fare solo supposizioni. Lui non ne ha mai parlato, ha sempre eluso la domanda, dando risposte evasive e criptiche come questa: «Dal giorno del desembarco in poi, noi superstiti abbiamo fatto quello che abbiamo potuto, chi in una forma e chi in un’altra. Io che ero straniero ero il più indicato per starmene lontano da Cuba per fare ciò che nella Sierra Maestra non avrei potuto realizzare. C’era bisogno di addestramenti, collegamenti, informazioni, notizie, soldi, armi, e di molte altre cose ancora. Così, chi con armi e chi senza armi ognuno ha fatto quello che doveva fare. E anch’io».

Tutti coloro che lo hanno conosciuto in Italia sono concordi: Gino Donè era una persona riservata. Estremamente parco di dettagli, soppesava con attenzione le parole quando parlava della sua vita, centellinando le informazioni, senza mai dire nulla di troppo esplicito. Come tutti coloro che hanno vissuto eventi simili, Gino aveva molto di più da raccontare di quello che ci è pervenuto. E quei pochi aspetti della sua vita bastano comunque a dipingere un’epopea incredibile, da romanzo di Salgari, ce lo dipingono come un eroe dei due mondi, un novello Garibaldi liberatore di popoli e amante delle rivoluzioni e della libertà. Chi l’ha conosciuto in età avanzata ne ha riconosciuto la grandezza anche nella sua semplicità, nel suo coniugare perfettamente queste due nature, da una parte il partigiano, el italiano come lo chiamavano i compagni granmisti, e dall’altra Gino, la persona spontanea, curiosa e innamorata della libertà. Questa sintesi incredibile lo rende in tutto e per tutto un uomo del Novecento, di quel secolo di passioni dove gli uomini sentivano l’imperativo di dare alla Storia il proprio contributo.

Altrimenti cos’altro può spingere una persona a gettarsi a capofitto in una rivoluzione, in una lotta di liberazione popolare, dall’altra parte del mondo? «Perché, anche se ero il più vecchio, avevo il sangue che mi bolliva. Facevo il carpentiere, ma dentro ero ancora un maledetto partigiano. E allora, se vuoi bene alla patria, ai tuoi fratelli, alla famiglia, devi scegliere. A San Donà di Piave dovevi scegliere fra nazisti e fascisti e la libertà che stava dall’altra parte. Lo stesso problema lo trovai a Cuba. Da una parte c’erano il maledetto Batista e i suoi sicari, dall’altra Fidel, Raúl, Ernesto e gli altri compañeros».

Tornato con discrezione a Noventa di Piave nel 2003, Gino Donè viene presto contattato dall’Associazione Nazionale di Amicizia Italia-Cuba (ANAIC), che aveva nel frattempo ricostruito la sua vicenda umana e rivoluzionaria, a cui si iscrive e con la quale collaborerà profondamente negli ultimi anni. Inizia un capitolo nuovo della sua vita, fatto di incontri, conferenze e viaggi. In quegli anni riesce finalmente a tornare a Cuba per la prima volta dal 1957, e in due occasioni estremamente significative: la prima volta nel 2004, dove viene decorato in quanto partecipante alla rivoluzione e nel 2006 in occasione delle celebrazioni per il 50° anniversario della spedizione del Granma. In queste occasioni riesce finalmente a ricongiungersi con Fidel e Raúl Castro.

Muore a San Donà di Piave la sera del 22 marzo 2008, circondato dall’affetto dei familiari. Ai suoi funerali sono recapitate quattro corone di rose rosse dedicate “A Gino da Fidel Castro Ruz”. “A Gino da Raúl Castro Ruz”. “A Gino dall’Ambasciata di Cuba”. “A Gino dai suoi Compagni del Granma”.

L’Avana, 2 dicembre 2023: cerimonia di tumulazione delle ceneri di Gino Donè

La storia di Gino sembrava essere finita. Fino ad oggi, dal momento che l’Associazione Nazionale di Amicizia Italia-Cuba ha voluto rispettare il suo desiderio di essere sepolto insieme ai suoi compagni granmisti nel Pantheon delle forze armate cubane e si è adoperata per realizzarlo. La famiglia era conscia di questa sua volontà e ha contattato il locale circolo dell’Associazione a Venezia: da lì è cominciato un lungo e paziente lavoro burocratico, fatto di contatti con l’avvocato della famiglia e con le autorità cubane per ottenere i permessi e l’avallo a questo ambizioso progetto. Nel corso degli anni ben due presidenti dell’Associazione, Irma Dioli e Marco Papacci, si sono succeduti nella realizzazione dell’iniziativa, pesantemente rallentata dalla pandemia da Covid-19, che ieri si è finalmente realizzata.

Lo scorso 27 novembre è partita dall’Italia una delegazione di rappresentanti dell’ANAIC per depositare a Cuba le ceneri dell’ultimo partigiano garibaldino. La delegazione era composta dal Presidente ANAIC, da membri della Segreteria e del corpo esecutivo, dall’avvocato della famiglia Donè e dal nipote di Gino. Ieri, 2 dicembre, anniversario dello sbarco del Granma e dichiarato Giornata delle FAR, si è tenuta la cerimonia di inumazione nel Pantheon dei veterani della Necropoli di Colón, presieduta dal Comandante della Rivoluzione Ramiro Valdés, dal Comandante dell’Esercito Ribelle José Ramón Machado Ventura e dal membro del Comitato Politico del Partito Comunista di Cuba, nonché Ministro delle Forze Armate Rivoluzionarie, Álvaro López Miera. Numerosissime le corone di fiori fatte pervenire, tra cui quella di Raúl Castro e del Presidente di Cuba Miguel Díaz-Canel Bermúdez.

«Voleva morire nel suo paese natale e riposare per l’eternità assieme ai suoi compagni del Granma» ha detto il nipote Ivan Cadamuro durante la cerimonia. «Per noi familiari è un onore essere associati alla sua memoria, ed è stato indescrivibile ricevere il caloroso benvenuto delle istituzioni cubane. Mio zio Gino era una persona dal cuore gentile e dai forti ideali, che ha lottato con immutato coraggio per la causa di Cuba e contro il nazifascismo».

Si è così realizzato l’ultimo desiderio di Gino Donè Paro, el Italiano del Granma. Dalle lotte partigiane fino alla Rivoluzione Cubana, la sua storia è una parabola di avventura, romanticismo e idealismo che si coniugano perfettamente con la dimensione umana di una persona discreta, un protagonista della Storia che rifugge il ruolo da eroe nel momento stesso in cui il suo ruolo termina, e proprio questo ne accresce il fascino.

Un eroe disinteressato, fedele alla sua causa fino alla fine. In una delle sue rare apparizioni disse: «Mi hanno chiesto se sono anarchico, comunista, rivoluzionario… Io sono soltanto un maledetto selvaggio. Però osservo il mondo e vedo che c’è sempre qualcuno più povero e più ignorante di me. E oggi, chi dà una mano ai proletari? Forse ci vorrebbero ancora uomini che decidono di essere fratelli. Hasta siempre».

[di Rubén Ernesto Umbrello]

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3 Commenti

  1. Un grande e vero Eroe, che ha rischiato la tortura, il carcere e la vita per degli ideali, e senza chiedere ed ottenere nulla in cambio; ma facendosi da parte quando il proprio ruolo fosse finito: sarebbe il caso che anche da noi, sua patria natale, se ne onorasse la memoria…e senza bandiere politiche che pretendano di rivendicarne l’eredita’…

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