domenica 28 Aprile 2024

Il linguaggio della forza (e della debolezza)

Mi ha sempre entusiasmato la casualità con i suoi significati, spesso l’ho applicata alla lettura mettendo a contatto opere e autori lontani tra di loro. Ogni libro, poi, ha una sua carica speciale e, aperto a caso, ci prepara a delle rivelazioni.

Sentite Chatwin, Le Vie dei Canti (Adelphi 1988, p. 285), che prende a esempio l’etologo Konrad Lorenz: “Fu il concetto di Lorenz di combattimento rituale a entusiasmare i guerrieri della Guerra Fredda. Ne dedussero che le superpotenze devono per forza combattere, perché combattere fa parte della loro natura; tuttavia, forse, teatro delle loro battaglie doveva essere qualche Paese povero, piccolo, preferibilmente privo di difese, proprio come due cervi scelgono per i loro scontri un pezzo di terra di nessuno”.

Inevitabile poi ricorrere a Jack London. Nel suo romanzo Il lupo dei mari la maestosità oceanica diventa espressione di un antagonismo positivo. “Poi il ‘Fantasma’ riprese la sua corsa innanzi all’uragano. Ma adesso era più spesso di prima sommerso dall’acqua, che qualche volta raggiungeva perfino il posto del timoniere. In questi momenti mi sentivo stranamente solo con Dio, e solo ad osservare il caos della sua collera. Poi la ruota del timone riappariva, e Lupo Larsen, che ne teneva saldamente afferrati i raggi, con essa. Dominando la tempesta come se  disponesse di un potere divino, egli proseguiva verso la sua meta. Era uno spettacolo meraviglioso quello. Un uomo, un minuscolo e debole uomo conduceva il suo fragile apparecchio, fatto di legno e tela, attraverso la convulsione degli elementi”.

Chi conosce il mare sa appunto che il modello vincente riguarda il ciascuno, l’Everyman virtuoso che vive in ciascuno di noi: l’esempio che va da Ulisse al Santiago de Il vecchio e il mare di Hemingway: “Un uomo può essere distrutto ma non sconfitto”. Il mare non è una prateria, non è un deserto, anche se vi assomiglia, è la sorgente mitica delle origini, ti mette di fronte alla morte, la tua, non quella di un altro. Ti mostra tutta la tua responsabilità, tutta la tua volontà, tutta la tua solitudine. Insomma, il mare è un luogo sacro.

“Il teatro del Mediterraneo”, dicono gli esperti di strategia militare. Sì, è davvero un teatro, dove si mette in scena la commedia umana, faticosa, rischiosa e tenace, della pesca, l’avventura inquietante della migrazione, le gioie di una traversata da diporto ma dove ora c’è qualcuno che rischia di trasformare la dimostrazione di forza, il gioco d’azzardo in guerra, in tragedia.

Ci vuole un altro Ulisse, che sappia con la sua intelligenza astuta superare l’ira di Poseidone. Quel Poseidone re dei mari che si sa vendicare di chi lo sfida scuotendo le profondità con i terremoti. Le flotte di guerra nel nostro magico Mediterraneo sono come degli alieni che insidiano la pace ma che soprattutto minacciano il nostro immaginario, la nostra ostinazione a pensare il nostro mare come crocevia di rotte pacifiche, come alimento simbolico di un pensare marinaio che non tollera l’arroganza.

Il modello novecentesco degli arsenali militari è oggi orrendamente anacronistico, la loro calata maestosa nei mari parla di uno spreco, di una dissoluzione di valori, di un disinteresse, di una assoluta incapacità di fronte ai veri bisogni. Espressioni di potenza legittime forse e giustificabili soltanto in un videogame.

[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]

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