Era l’agosto del 2020 quando l’allora ministro della Salute Roberto Speranza, con la pubblicazione di una circolare, promulgava gli aggiornamenti alle “Linee di indirizzo sulla interruzione volontaria di gravidanza con mifepristone e prostaglandine”, inserendo la possibilità di abortire farmacologicamente fino a nove settimane compiute di gravidanza e presso consultori, o in day hospital. A distanza di tre anni, però, e nonostante l’Organizzazione mondiale della sanità abbia giudicato tale pratica sicura ed efficace, in Italia chi vuole interrompere la gravidanza – esercitando un diritto riconosciuto dalla legge 194 del 1978 – senza ricorrere alla chirurgia deve fare i conti con moltissimi ostacoli. Solo 3 regioni su 20 infatti — cioè Toscana, Emilia-Romagna e Lazio — hanno, nel tempo, applicato le nuove direttive, “peraltro in ordine sparso e con grandi differenze in termini di regole, accesso, applicazione”.
Lo dice Medici del Mondo, una rete internazionale impegnata a garantire l’accesso alla salute, denunciare le ingiustizie e promuovere il cambiamento sociale, e che sull’aborto tenta di sopperire a quel vuoto informativo che in Italia investe molteplici settori. Dall’ultima raccolta dati, pubblicata in un rapporto intitolato “Aborto farmacologico in Italia: tra ritardi, opposizioni e linee guida internazionali”, curato dalla giornalista Claudia Torrisi, è emerso che sulla pillola abortiva, conosciuta come RU486 – arrivata da noi nel 2009 solo per uso in ambito ospedaliero e fino alla settima settimana – l’Italia ha ancora molta strada da fare se vuole renderlo un diritto effettivo. Nonostante la sua assunzione – che prevede l’ingerimento di due pillole a 48 ore di distanza l’una dall’altra – sia preferita al metodo chirurgico, passando dallo 0,7% nel 2010, al 20,8% nel 2018, fino al 31,9% nel 2020, i numeri rimangono nettamente inferiori a quelli degli altri Paesi europei. In Francia, per esempio (dove la RU486 è stata introdotta nel 1988) gli aborti farmacologici superano il 70% del totale. Cifra che sale al 90% nel Nord Europa.
Nel nostro Paese la prima regione a mettere in atto le linee guida – e quindi a dare il consenso alla somministrazione di farmaci per l’aborto in strutture extra-ospedaliere – è stata la Toscana, adeguatasi alle direttive pochi mesi dopo la circolare governativa. Poi è stata la volta dell’Emilia-Romagna, che ha però applicato delle restrizioni (per esempio l’obbligo di assumerla entro le sette settimane dal concepimento fuori dagli ospedali). Infine il Lazio, che ha elaborato un ‘piano’ per l’assunzione della pillola a casa, dopo una sola visita in ambulatorio. Per tutte le altre regioni, la situazione è piuttosto confusionaria. Alcune hanno emanato direttive che alla fine non sono state applicate, altre hanno modificato la circolare originale, altre ancora hanno espresso parere negativo alla somministrazione fuori dagli ospedali. In certi casi, è perfino difficile reperire la pillola in tutti gli ospedali – a Catania, ad esempio, la RU486 non è disponibile in alcuna struttura.
A frenare l’accesso all’aborto, sia farmacologico che chirurgico, sono molteplici fattori. Prima di tutto c’entrano gli i medici obiettori. Secondo gli ultimi dati forniti dal Ministero della Salute e raccolti dal Sistema di Sorveglianza Epidemiologica delle IVG (interruzione volontaria di gravidanza), nel 2020 su scala nazionale ha presentato obiezione di coscienza il 64,6% dei ginecologi, il 44,6% degli anestesisti e il 36,2% del personale non medico, con ampie variazioni regionali per tutte e tre le categorie. I numeri riportati dall’Associazione Luca Coscioni, che ha richiesto i dati specifici direttamente alle singole ASL e ai presidi ospedalieri (anche se non tutte hanno fornito quanto chiesto) dicono che in Italia ci sono 72 ospedali che hanno tra l’80 e il 100% di obiettori di coscienza, 22 ospedali e 4 consultori con il 100% di obiezione tra medici ginecologi, anestesisti, personale infermieristico e OSS e 18 ospedali con il 100% di ginecologi obiettori.
Secondo Michele Mariano, il medico molisano costretto a rimandare la pensione per poter garantire la presenza in Regione di almeno un professionista abortista, citato dal settimanale L’Essenziale, «la maggior parte dei colleghi è obiettore perché chi fa aborti non fa carriera». Per quale motivo? «In Italia c’è la Chiesa, e finché ci sarà il Vaticano che detta legge il problema ci sarà sempre». Silvia De Zordo, un’antropologa dell’Università di Barcellona, che ha studiato le dinamiche di quattro ospedali pubblici di Roma e Milano per capire le motivazioni degli obiettori, dice che la religiosità individuale ha un ruolo importante. Ma non è tutto, c’è anche una questione pratica. Nel nostro Paese ci sono troppo pochi consultori familiari rispetto ai bisogni della popolazione (1 consultorio ogni 35.000 abitanti sebbene siano raccomandati nel numero di 1 ogni 20.000) e spesso, al loro interno, è perfino difficile reperire ginecologi e personale ostetrico, impiegati per troppe poche ore. L’Istituto Superiore di Sanità dice che solo 5 Regioni del Nord raggiungono lo standard atteso per la figura dell’ostetrica e 2 per il ginecologo. E c’entra anche il fatto che l’Italia non dispone ancora di una rete informativa adeguata, accessibile e facile da consultare, in merito alla fornitura di servizi per l’interruzione di gravidanza.
[di Gloria Ferrari]
E vogliamo parlare dei medici obiettori nel pubblico e abortisti nel proprio studio privato?