venerdì 11 Ottobre 2024

Aldo Moro: i 55 giorni che cambiarono la storia d’Italia

Francesco Zizzi era un poliziotto che avrebbe forse preferito la chitarra alla pistola. Si è infilato la divisa a 20 anni, ma la musica era la sua grande passione. Suonava con un gruppo di amici, Los niños descuidados, in spagnolo qualcosa tipo i ragazzi trascurati. Aveva un nome d’arte che era un programma, Francisco de my corazon, e la mattina del 16 marzo di 45 anni fa, quella del massacro di via Fani, era al suo primo giorno di lavoro al seguito di Aldo Moro. Era lì in sostituzione del brigadiere Rocco Gentiluomo: nessuna esperienza nel servizio scorte, ma aveva accettato di buon grado l’incarico. Prima di morire, sotto ai ferri all’ospedale Gemelli, nel disperato tentativo dei medici di tenerlo in vita, il vicebrigadiere Zizzi era anche l’unico degli uomini in servizio sopravvissuto all’agguato portato dalle Brigate Rosse al presidente della Democrazia Cristiana. Un’azione in stile militare che nel cuore di Roma lasciò lui e i suoi colleghi crivellati di colpi, riversi sui sedili e sull’asfalto, tra rivoli di sangue, bossoli e pezzi di vetro. E sull’asfalto rimase anche la verità per un fatto che ancora oggi, quasi mezzo secolo dopo, racchiude dentro di sé un sunto delle più oscure trame che interessarono l’Italia degli anni “di piombo”.

Il padre del “compromesso storico” tra Dc e Pci

Un fuoco di “geometrica precisione”, come fu definito dai giornali all’epoca, che spazzò via cinque uomini in divisa e mise fine alla parabola umana e politica del padre del compromesso storico, cambiando forse per sempre la storia e l’architettura politica di questo Paese. La tregua di programma tra i due più grandi partiti italiani, la Democrazia Cristiana e il Partito comunista arrivato due anni prima al 34%, quando Indro Montanelli invitò a turarsi il naso e a votare DC, l’avvicinamento voluto e manovrato da Moro verso Berlinguer che in quelle drammatiche ore produsse il primo governo della storia repubblicana con appoggio esterno del Partito Comunista, per la prima volta non all’opposizione dal Dopoguerra. Una svolta politica che andava a rompere i patti post guerra mondiale, con i comunisti ad un passo dal governo in un Paese occidentale, una soluzione duramente avversata dagli Stati Uniti.

Era il 16 marzo 1978, l’Italia era immersa nell’austerity e accerchiata dalla crisi internazionale (corsi e ricorsi): l’inflazione correva al 12,1%, la disoccupazione al 6,6%. Un litro di latte costava 400 lire, un chilo di pane 523, la pasta 600. Il pentapartito (c’erano anche Partito socialista, Partito repubblicano, Liberali e Socialdemocratici) era l’anima della Prima repubblica, gli italiani alleggerivano un’epoca storica di forti tensioni sociali e lavorative, c’erano circa 200 sigle terroristiche e quotidiani episodi di violenza, con le trasmissioni di Raffaella Carrà e con l’appuntamento quotidiano con Happy Days, prima dell’ora di cena. Al Quirinale c’era il presidente Giovanni Leone che tre mesi più tardi si sarebbe dimesso, travolto da accuse e scandali condensati nel libro di Camilla Cederna che spalancò le porte ad una specie di Watergate nostrano: Leone, docente di procedura penale come Aldo Moro, è passato alla storia anche come il presidente delle corna, per quel suo gesto così poco diplomatico sfoderato in alcune occasioni.

Una mattina come tante altre

[In foto Giulio Andreotti e Aldo Moro.]
Quella mattina, Aldo Moro è atteso in Parlamento per la fiducia al quarto governo di Giulio Andreotti, il primo con i comunisti che non avrebbero votato contro il governo a guida democristiana, in una specie di non belligeranza a lungo trattata. Moro esce dalla sua casa romana, in Via del Forte Trionfale, e sale a bordo di una Fiat 130 di colore nero. Sul sedile posteriore cinque borse e una mazzetta di giornali che poi serviranno, a qualche mano pietosa, per coprire alla meglio i cadaveri dei servitori dello Stato colpiti dal fuoco dei brigatisti. Al volante l’appuntato Domenico Ricci, lato passeggero Oreste Leonardi, maresciallo maggiore dal 1973 e al fianco di Moro dal ’63: una fedele ombra legato da forte amicizia col cinque volte presidente del Consiglio. Leonardi è stato il primo ad essere colpito dai proiettili del commando, prima di morire è riuscito ad allungarsi verso il sedile posteriore per far abbassare Moro e toglierlo dalla linea di tiro, l’estremo gesto di protezione verso il presidente Dc che quella mattina era diretto in Parlamento, per il voto di fiducia al quarto governo Andreotti, e poi atteso all’università per la discussione di una decina di tesi di laurea dei suoi studenti.

Pioggia di proiettili in via Fani

Come sia stato possibile che Moro, che dopo l’attentato sarà sequestrato per 55 giorni e infine ucciso dalle Brigate rosse, sia uscito illeso dall’agguato – tranne per una ferita alla natica di cui non c’è mai stato riscontro – è uno dei tanti enigmi di questa vicenda. Il gruppo di fuoco dei brigatisti, quattro uomini guidati da Valerio Morucci (con lui Franco Bonisoli, Raffaele Fiore e Prospero Gallinari, che fu poi il carceriere dello statista nei suoi quasi due mesi di prigionia) ha sparato 91 colpi, una pioggia di proiettili sparati con mitragliatori e armi lunghe: ne sono andati a segno 45. Gli uomini di scorta, che non portavano giubbotti antiproiettile e guidavano automobili non blindate, non avevano altro che pistole: furono questi argomenti ed esempi molto solidi per chi ha sempre pensato che lo Stato avesse sottovalutato, in modo colpevolmente grave, la minaccia terroristica ai corpi dello Stato.

La dinamica dell’agguato che portò al rapimento e al sequestro di Aldo Moro si è consumata in tre minuti e circa sessanta metri di asfalto, all’incrocio tra via Fani e via Stresa. Sono le 9:02 e c’è una graziosa ragazza dai capelli biondi e gli occhi celesti, all’incrocio tra via Trionfale e via Fani. Ha un mazzo di fiori in mano, si chiama Rita Algranati ma il suo nome di battaglia è Marzia. Una studentessa del liceo Virgilio che ha iniziato il suo percorso nella lotta armata con un esproprio proletario, alla Standa, e poi è entrata nelle Brigate Rosse aderendo alla colonna di Primavalle. Insieme a lei il compagno e poi marito Alessio Casimirri, nome di battaglia Camillo, un altro dei nove membri del commando di via Fani. Il compito di Marzia, che per il sequestro Moro è stata assolta per insufficienza di prove con sentenza passata in giudicato (ma condannata all’ergastolo per altri omicidi e poi latitante in Nicaragua col marito), è solo quello di alzare un mazzo di fiori che tiene in mano appena vede arrivare le due auto di servizio della scorta di Moro. Quando scorge la Fiat 130 e l’Alfetta bianca che la segue, al volante il vicebrigadiere Zizzi e a bordo gli agenti Giulio Rivera e Raffaele Iozzino, Rita Algranati esegue quel facile compito senza dare nell’occhio e sale sulla sua Vespa 50 per allontanarsi da via Fani e dall’inferno che di lì a poco l’avrebbe investita.

Trappola per la scorta

Al segnale convenuto, Mario Moretti (Maurizio, la mente del rapimento e della strage) alla guida di una Fiat 128 familiare bianca, con targa del corpo diplomatico, parcheggiata dalle prime ore della mattina in via Fani, si immette precedendo il corteo di auto con Moro. C’è una Fiat 500 che rallenta la marcia, la supera e dietro la superano anche la Fiat 130 e l’Alfetta: i due autisti della scorta sono ignari di quello che sta per succedere. All’incrocio con via Stresa, Moretti frena e la 128 blocca la 130 che la segue e la tampona. Dietro, anche l’Alfetta frena ma non riesce ad evitare l’impatto con l’altra auto di servizio: tampona la 130 che viene così incastrata tra due vetture, Moro è in trappola. Per chiudere la scena dell’agguato e non dare scampo alle vittime, i terroristi mettono un “piantone” alle spalle della scena di fuoco, Barbara Balzerani che blocca via Fani con un mitra in mano, e un altro su via Stresa, con Casimirri e Alvaro Loiacono a presidiare l’accesso con un fucile Winchester.

Dal marciapiede opposto a quello dove si sono fermate le tre auto, sbucano quattro uomini con divise dell’Alitalia, impugnano mitra e cominciano a sparare all’impazzata contro le due auto di servizio: divisi in due coppie, attaccano la 130 e l’Alfetta. Il commando di fuoco delle Br colpisce per primo Francesco Zizzi, l’agente Iozzino pur ferito ha la forza di trascinarsi fuori dall’auto e sparare in direzione dei terroristi, prima di essere crivellato e finito. Mentre Leonardi è già agonizzante, l’autista Ricci cerca con una disperata manovra di forzare il blocco della 128 e aggirarla sulla destra: viene colpito a morte prima di riuscire a far avanzare la macchina.

A quel punto entrano in scena altri uomini, uno dei quali (Bruno Seghetti) alla guida di una 132 blu percorre un tratto di Via Stresa in retromarcia e si ferma all’altezza dell’incrocio, i suoi compagni prelevano di forza Aldo Moro e lo caricano sulla Fiat che sgomma via. Prima di arrivare nel covo prigione di via Montalcini dalla parte opposta di Roma, i terroristi cambiano due auto e spostano Moro, messo dentro una cassa, fino a recluderlo in una specie di intercapedine dentro l’appartamento di proprietà di Anna Laura Braghetti, poi processata e condannata insieme al marito Germano Maccari.

Le disperate lettere al partito

[Pietro Ingrao con Giovanni Leone e Giulio Andreotti durante la messa funebre per la morte di Aldo Moro il 13 maggio 1978. ANSA/ ARCHIVIO]
Inizia così un periodo plumbeo e cupo, i 55 giorni che hanno caratterizzato la prigionia di Aldo Moro, la sua ricerca da parte degli investigatori e dello Stato e il processo del popolo a cui è stato sottoposto da parte dei brigatisti, prima di emettere ed eseguire la loro condanna a morte. Un periodo contraddistinto dalla tensione, nove i comunicati firmati dalle Br e 97 le lettere mandate dalla sua prigionia da parte di Moro che ha scritto ai familiari, e ai suoi colleghi della Democrazia Cristiana per chiedere loro di trattare la propria liberazione con i terroristi. Vanamente, però, perché dalla politica e dalle istituzioni è arrivato da subito il segnale opposto: nessuna trattativa con i brigatisti, hanno dichiarato i vertici dello Stato, mentre la politica decideva di non decidere, come ha poi sottolineato amaramente il figlio di Moro. Perfino Paolo VI, ad un certo punto, si è rivolto ai terroristi chiedendo in ginocchio la liberazione di Moro, mentre le Br chiedevano la liberazione di 13 terroristi in cambio di quella del presidente Dc.  

Epilogo tragico sulla Renault 4 rossa

[La foto di Rolando Fava del 9 maggio 1978 il giorno del ritrovamento del corpo di Aldo Moro in una Renault a via Caetani a Roma. © Copyright ANSA]
Moro ha capito che lo Stato e il suo partito non avrebbero fatto patti con le Brigate Rosse e in una delle sue lettere scrisse “il mio sangue ricadrà su di voi”. L’ultimo comunicato, quello numero 9, riportava l’avvenuta esecuzione della condanna di morte decretata per Moro dal tribunale del popolo. Nel mezzo della vicenda, prima dell’epilogo col ritrovamento del corpo di Aldo Moro nel baule di una Renault 4 rossa in Via Caetani, praticamente a metà strada tra la sede della Democrazia Cristiana e quella del Partito Comunista, tra Piazza del Gesù e Via delle Botteghe Oscure. Una collocazione scenografica ma quantomai rischiosa: portare nel bagagliaio dell’auto il corpo senza vita di Moro nella zona più militarizzata di Roma.

Falso comunicato e un covo fantasma

Le incongruenze e i punti oscuri in questa vicenda, d’altra parte, sono numerosissimi. Come, a proposito di comunicati, quello falso (numero 7) che parlava del suicidio di Moro e del suo corpo gettato nel lago della Duchessa, tra Lazio e Abruzzo: una fake news, si direbbe ora, attribuita ad un falsario poi ricollegato alla Banda della Magliana. Negli stessi giorni, la scoperta del covo Br di Via Gradoli da dove però Mario Moretti e Barbara Balzerani sono riusciti a scappare prima del blitz degli investigatori. Non è mai stato chiarito, nemmeno, il particolare riferito da qualcuno relativo alla presenza di un colonnello del Sismi (i servizi segreti italiani) sul luogo della strage, in quei momenti frenetici e terribili dell’agguato a Moro, così come il fatto che una moto Honda con due persone a bordo sia passata accanto alle auto appena dopo la sparatoria, come per controllare la scena e sincerarsi dell’esito. Il sospetto del coinvolgimento dei servizi deviati in questa vicenda ha sempre accompagnato le cronache e i resoconti, alcuni particolari come la presenza di autovetture sul luogo dell’agguato hanno accresciuto la sensazione che 4 processi e diversi gradi di giudizio non abbiano sviscerato tutte le responsabilità e tutto il quadro della scena.

Misteri e Servizi

Una Mini Morris parcheggiata a destra in prossimità dell’incrocio, per esempio, e che di fatto ha reso impossibile alla Fiat 130 di forzare il blocco e sottrarsi alla linea di fuoco, ha suscitato non pochi sospetti: secondo Moretti, che ha preparato questo e altri piani di attacco con attenzione maniacale ai dettagli, fu un particolare fortunoso che semplificò le operazioni di attacco e il sequestro di Moro. Secondo altri, la Mini era una vettura riconducibile ai servizi, che in questa vicenda avrebbero avuto un ruolo simile – e piuttosto inquietante –  a quello avuto in Via D’Amelio, in occasione della strage di mafia che fece saltare in aria il giudice Borsellino e la sua scorta, facendo anche sparire la sua famosa agenda rossa. Sono tre, per inciso, le borse di Aldo Moro che quella mattina, dal sedile della Fiat 130, sono sparite senza lasciare traccia: solo due saranno successivamente ritrovate, ma senza la garanzia che nessuno ne abbia trafugato il contenuto. Una invece è scomparsa per sempre. I brigatisti, comunque, la sera prima all’agguato misero fuori uso il furgone di un fioraio che aveva il negozio di fronte al Bar Olivetti e che, oltre ad essere un potenziale testimone dei fatti, avrebbe potuto involontariamente, spostando il proprio mezzo e parcheggiandolo in prossimità della scena dell’agguato, complicare la vita dei brigatisti intasando le linee di tiro contro i bersagli.

Le lunghe ombre atlantiche

[Jimmy Carter, Presidente USA dal 1977 al 1981]
La drammatica vicenda di Aldo Moro e della sua scorta ha accelerato in modo deciso l’azione dello Stato contro le Brigate Rosse che furono smantellate tra il 1979 e il 1981, anche grazie alle legge sui pentiti che diede un colpo mortale all’organizzazione e soprattutto grazie alla gestione del generale Dalla Chiesa. Nell’ambito del processo per il sequestro e l’omicidio Moro, furono emesse 32 condanne all’ergastolo e per complessivi 316 anni di reclusione, chiudendo anni di piombo e di sangue caratterizzati da 600 omicidi e 2000 ferimenti: le Brigate Rosse avevano un esercito di 200 tra militanti e membri, completamente smantellato da inchieste e processi. Ma il velo giudiziario calato sulla vicenda Moro lascia aperti molti interrogativi sulle sue connotazioni politiche: è risaputo che il compromesso storico che ha avvicinato la Democrazia Cristiana al Partito Comunista e il suo ingresso, seppur tramite l’appoggio esterno, nel governo per alcuni alleati dell’Italia è sempre stato uno scenario da scongiurare e combattere ad ogni costo. Alcuni di loro, i più potenti, sedevano e siedono al vertice dell’Alleanza atlantica e non hanno mai fatto mistero di non apprezzare per nulla lo sforzo politico di Moro per avvicinare quelle che lui chiamava “convergenze parallele”. L’establishment statunitense, anzi, non ha mai nascosto di non apprezzare per nulla questa linea politica dell’Italia, in un’epoca in cui il disgelo con i paesi dell’Est era ancora lontano da immaginare. Un po’ come è avvenuto per l’omicidio Mattei, con tutti i misteri e gli scenari ipotizzati, per qualcuno anche il destino di Aldo Moro si è compiuto nel segno di una traiettoria dietro alla quale la sagoma degli Stati Uniti è sempre stata molto vistosa e ingombrante.

[di Salvatore Maria Righi]

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7 Commenti

  1. Un commento personale: nel 1978 frequentavo il terzo anno del liceo classico e ricordo come fosse ora la mattina in cui venne data la notizia del rapimento di Moro dai nostri docenti: subito si stese su di noi una cappa plumbea, un ‘energia grigia e pesantemente densa…consiglio la lettura di “L’Italia e le sue storie “ in cui si parla anche del caso Moro, l’ autore è John Foot.

  2. Tutto è iniziato con lo sbarco degli americani in Sicilia, la CIA e la mafia, con Lucky Luciano.
    È sufficiente leggere il motto della NATO e comporre un parallelo su quanto è successo in molti paesi, uno dei quali El Salvador, dove non solo politici, ma anche un Arcivescovo fu eliminato per essersi opposto al potere militare costituito dalla CIA, ecc. ecc.
    Eviteremo di parlare dell’accordo di Cossiga a un agente americano infiltrato, sulla necessità di fare morire Aldo Moro. Ma non finisce tutto qui! Buona serata a tutti.

  3. Per chi volesse approfondire e comprendere come sono andate veramente le cose consiglio l’ottimo Docufilm recentemente uscito, osteggiato dal mainstream, NON E’ UN CASO, MORO” di Tommaso Minniti, tratto dalle inchieste e libri di Paolo Cucchiarelli. Le cose sono andate molto diversamente da come ci sono state raccontate…. Molto illuminante per comprendere anche la situazione attuale. http://www.noneuncasomoro.com.
    Tra i libri segnalo quelli di Carlo d’Adamo, Coup d’Etat in Via Fani.

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