venerdì 13 Dicembre 2024

L’Amazzonia emette più C02 di quella che assorbe? Solo dove non ci sono gli indigeni

Le foreste gestite dalle popolazioni indigene e da altre comunità locali nella regione amazzonica sottraggono all’atmosfera una grande quantità di anidride carbonica, mentre il resto della foresta pluviale è diventato una fonte di gas serra. E il motivo della differenza è uno solo: la deforestazione. A dimostrarlo uno studio del World Resources Institute, un’organizzazione di ricerca globale per la tutela dell’ambiente, che ha provato a quantificare i benefici in termini di carbonio forestale dei territori indigeni e delle terre gestite dalle comunità locali nella regione amazzonica, che comprende Bolivia, Brasile, Colombia, Ecuador, Guyana francese, Guyana, Perù, Suriname e Venezuela. 

Dal 2001 al 2021, le aree forestali dell’Amazzonia gestite dalle comunità indigene hanno rimosso ogni anno dall’aria circa 340 milioni di tonnellate di carbonio in più rispetto a quelle emesse, una quantità equivalente alle emissioni annuali degli Stati della California e del Massachusetts messi insieme. Nello stesso periodo, invece, i terreni boschivi statali o privati nella regione amazzonica sono stati una vera e propria fonte di carbonio. Sebbene i principali responsabili del riscaldamento del pianeta siano i gas serra rilasciati dalla combustione di combustibili fossili, anche le foreste possono diventare una fonte di emissioni di anidride carbonica. Quando gli alberi vengono distrutti da incendi o tagli, il carbonio un tempo immagazzinato nelle foglie, nei rami, nei tronchi e nelle radici, viene rilasciato nell’atmosfera. A queste emissioni vanno aggiunte quelle provenienti dalle attività che causano la deforestazione e che vanno a sostituire i territori boschivi, come lo sviluppo dell’agricoltura industriale, gli allevamenti di bestiame, le attività minerarie, l’estrazione del petrolio e altre attività, sia legali che illegali.

Secondo Peter Veit, coautore del rapporto e direttore della Land and Resource Rights Initiative del WRI, circa il 17-18% dell’Amazzonia è stato deforestato negli ultimi 50 anni. Gli scienziati stimano che quando questi livelli raggiungeranno il 20-25%, la foresta pluviale raggiungerà un punto di svolta irreversibile a partire dal quale la regione si trasformerà in praterie e savane. Il cambiamento comporterebbe il rilascio di circa 123 miliardi di tonnellate di carbonio nell’atmosfera, l’estinzione di migliaia di specie vegetali e animali e la scomparsa di centinaia di culture umane legate alla foresta pluviale. “Siamo molto vicini a questo punto di svolta”, ha dichiarato Veit. Veit e Gibbs hanno anche rilevato come i territori indigeni che hanno emissioni di carbonio più elevate sono anche quelli più minacciati da deforestazione ed estrazione delle risorse. In Brasile le comunità indigene che vivono nelle foreste con le maggiori emissioni di carbonio si trovano nel sud-est del Paese, un’area nota come “arco di deforestazione”. In Perù le terre indigene che sono fonti nette di carbonio si trovavano in regioni dominate dall’estrazione dell’oro. 

Il report, pubblicato lo scorso 6 gennaio, si aggiunge a un crescente numero di prove che dimostrano che le terre detenute dai popoli nativi e da altre comunità locali in tutto il mondo hanno risultati ambientali migliori rispetto a quelle di proprietà statale e privata:  in Nepal, ad esempio, in soli ventiquattro anni la percentuale della superficie coperta da alberi è raddoppiata grazie alla cura delle comunità locali, e così anche in altre zone dei Caraibi. Una recente scoperta ha poi mostrato che i benefici apportati alla foresta pluviale sono incredibilmente antichi: le popolazioni autoctone dell’Amazzonia avrebbero deliberatamente creato un terreno incredibilmente fertile per migliaia di anni attraverso un’antica tecnica che, tra le altre cose, riesce a immagazzinare molto carbonio. “Stiamo mostrando una delle tante ragioni per cui le foreste controllate dalle popolazioni indigene dovrebbero essere valorizzate”, ha dichiarato David Gibbs, ricercatore di Global Forest Watch e coautore del rapporto di WRI. La ricerca, ha aggiunto, “si aggiunge all’elenco di ragioni che abbiamo già per aiutare a proteggere queste comunità”. 

Lo studio del WRI ha ripreso e ampliato un articolo del 2021 pubblicato sulla rivista Nature Climate Change che offriva una delle migliori stime della quantità di anidride carbonica emessa dalle foreste e di quella rimossa dall’atmosfera a livello globale negli ultimi 20 anni. Gli scienziati hanno scoperto che durante il periodo di studio compreso tra il 2001 e il 2019, le foreste dell’Amazzonia brasiliana sono state una fonte netta di 0,22 gigatoni di emissioni di anidride carbonica all’anno, ma che le foreste che coprono tutti i nove Paesi del bacino del Rio delle Amazzoni (526 milioni di ettari) sono state un pozzo di carbonio, assorbendo 0,10 gigatoni di anidride carbonica. Al contrario, l’assorbimento nelle foreste del bacino africano del fiume Congo (298 milioni di ettari) era circa sei volte più forte di quello del bacino amazzonico. La ragione principale? Ancora una volta il tasso di disturbo ed intervento umano molto più basso nelle foreste del fiume Congo rispetto che in quelle dell’Amazzonia.

[di Sara Tonini]



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1 commento

  1. C’è un grave errore (semantico?) Dire “L’Amazzonia emette più C02 di quella che assorbe?” è corretto in quanto Amazzonia à una regione.
    Dire ” mentre il resto della foresta pluviale è diventato una fonte di gas serra” è insensato in quanto la foresta assorbe CO2.

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