sabato 27 Luglio 2024

Gli interessi occulti dietro alle migrazioni di massa

Con il governo di centrodestra è tornata sotto i riflettori l’annosa e complessa questione dell’immigrazione clandestina che ormai da anni è oggetto di una martellante campagna mediatica e politica e di un’eccessiva semplificazione. Retorica dell’invasione da un lato, umanitarismo acritico per incentivare ad ogni costo la cosiddetta “accoglienza”, bollando di “razzismo” chiunque non accetti la politica dei “porti aperti”, dall’altro. Una divisione in tifoserie riassumibile nella formula porti aperti/porti chiusi che non fa altro che rafforzare la strategia del divide et impera messa in atto dalle oligarchie liberali. Per inquadrare il tema in tutta la sua complessità e capirne le origini e gli obiettivi – e di conseguenza la migliore soluzione di gestione possibile – è necessaria, invece, un’analisi più approfondita che prenda in considerazione il contesto economico, finanziario e geopolitico che pervade il mondo occidentale e che ha influenzato radicalmente la vita dei cosiddetti Paesi in via di sviluppo, a partire dall’Africa. Quest’ultima,
infatti, è stata uno dei primi laboratori del modello liberista ed è proprio in questo tipo di paradigma economico – applicato ormai da tempo anche nei Paesi “avanzati” – che è possibile individuare una parte consistente delle cause dell’immigrazione, i cui principali promotori e fautori sono, a un tempo, anche coloro che traggono più beneficio dal fenomeno migratorio.

Il grande capitale liberal-liberista europeo, infatti, ha convenienza nell’importare potenziale manodopera a basso costo – per creare una concorrenza al ribasso tra le fasce meno abbienti della popolazione ed erodere definitivamente retribuzioni e tutele – sfruttando quello che Karl Marx, nel primo libro del Capitale, chiamava “esercito industriale di riserva”. Il che è reso ancora più necessario nell’epoca contemporanea dal fatto che, col sistema dell’euro, non essendo più possibile svalutare la moneta, diventa necessario svalutare i salari per essere competitivi sul mercato: anche l’euro, del resto, è uno dei principali strumenti dell’oligarchia finanziaria transazionale atta al controllo e alla subordinazione dei governi nazionali alla sfera economico-finanziaria.

Oltre alla componente economico-salariale, l’immigrazione, all’interno dell’organizzazione economica liberista, persegue altri due obiettivi strutturali: la “sostituzione” progressiva delle popolazioni europee – avvezze ai diritti del lavoro e in rapido declino demografico – con le popolazioni del cosiddetto terzo mondo – come ebbe a spiegare Elsa Fornero sulle colonne de La Stampa – e la creazione di un nuovo tipo antropologico costituito dall’uomo-atomo sradicato e consumatore, plasmato dal globalismo anti-identitario che trova il suo modello teorico di riferimento nella “società aperta” di matrice sorosiana. Una triade – quella economica, etnoculturale e antropologica – volta a plasmare il nuovo tessuto economico e socio-antropologico sulla base degli interessi della plutocrazia internazionale determinata a livellare le differenze etniche, culturali, religiose e linguistiche delle popolazioni in nome del “totalitarismo globalista” dove a dominare è il dio mercato.

L’Africa: terra di saccheggio e di sfruttamento del neoliberismo finanziario occidentale

Il continente africano fu uno dei primi – assieme all’America Latina – in cui furono applicati i dettami della dottrina economica liberista, attraverso i cosiddetti piani di aggiustamento strutturale (PAS): una volta ottenuta formalmente l’indipendenza dagli ex Paesi colonizzatori, gli Stati africani non smisero di essere subordinati a questi ultimi che sostituirono ad una forma diretta e istituzionalizzata di dominazione, gli strumenti economici del libero mercato. Si è trattato dunque di una falsa decolonizzazione, in seguito alla quale il “debito pubblicoe il ricatto finanziario sono diventati gli strumenti con cui le potenze occidentali continuano a controllare e soggiogare l’Africa e, a tal fine, i prestiti del Fondo Monetario Internazionale (FMI) hanno svolto un ruolo di primo piano, grazie alla complicità di molti capi di governo locali desiderosi di prestigio e potere. Il FMI – che è in parte controllato dal Tesoro degli Stati Uniti – concedeva prestiti ai Paesi africani in cambio dei famigerati PAS, noti anche come “condizionalità”: si trattava di obiettivi e requisiti stringenti da realizzare nel minor tempo possibile per ottenere i fondi e che spesso non si limitavano all’ambito economico, ma sconfinavano nella sfera politica. Tra le condizioni più note rientravano l’austerità fiscale – quindi il contenimento del deficit – la svalutazione della moneta con conseguente inflazione, il licenziamento dei dipendenti pubblici, la deindicizzazione dei salari e, soprattutto, i pilastri del Washington Consensus: privatizzazione e liberalizzazione dei mercati. Secondo l’economista Premio Nobel, Joseph Stiglitz, che ha lavorato presso la Banca Mondiale, «tutte quelle condizioni rischiavano di andare a discapito della capacità del Paese di affrontare i problemi più urgenti e più importanti» e il più delle volte riducevano drasticamente le possibilità di restituzione del prestito, in seguito all’aumento della povertà e della stagnazione economica. Sempre Stiglitz evidenzia come queste condizioni fossero in realtà delle vere e proprie imposizioni politiche oltreché estorsioni economiche: «In certi casi, gli accordi stabilivano addirittura quali leggi il governo nazionale dovesse approvare, e in quanto tempo, per soddisfare i requisiti o obiettivi dell’FMI». La crisi africana del debito degli anni Ottanta è dovuta proprio all’applicazione dei dogmi neoliberali imposti dalle Istituzioni finanziarie occidentali, combattute e denunciate da alcuni capi di governo africani, tra cui spicca Thomas Sankara. Quest’ultimo ha esposto davanti ai potenti della terra la “truffa” del debito e in occasione della riunione dell’OUA (Organizzazione per l’Unità Africana), nel 1987, disse esplicitamente che «non possiamo rimborsare il debito perché non siamo responsabili del debito. Le origini del debito risalgono alle origini del colonialismo. Coloro che ci hanno prestato il denaro sono i colonizzatori che indebitavano l’Africa con i finanziatori internazionali che erano i loro fratelli e cugini. […] Il debito è il neocolonialismo con i colonizzatori trasformati in assistenti tecnici, anzi dovremmo dire in assassini tecnici», con riferimento implicito ai burocrati del FMI. Pochi mesi dopo questo discorso, Sankara fu brutalmente assassinato in un colpo di Stato organizzato dall’ex-compagno d’armi e collaboratore Blaise Compaoré con l’appoggio – successivamente provato – di Francia, Stati Uniti d’America e militari liberiani. Le attuali migrazioni non sono altro che gli effetti a lungo termine della devastazione socioeconomica causata dall’usura, esercitata ai danni del continente africano, da parte del capitalismo occidentale e inasprita dalle operazioni belliche intraprese da nazioni quali Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna in Paesi come la Libia e – indirettamente, per procura – in Siria: tali interventi militari hanno sovvertito gli equilibri politici ed economici di queste zone, aumentando povertà, sottosviluppo e instabilità di governo. In questo modo, si sono poste le condizioni per creare gli attuali “esodi” di massa, fornendo al capitale europeo potenziale manodopera a basso costo: non stupisce quindi che sia proprio l’élite industriale-finanziaria – che spesso trova una sponda comunicativa inconsapevole nella cosiddetta sinistra “fucsia” – a sostenere il fenomeno migratorio nelle sue condizioni attuali. Per Confindustria, ad esempio, gli immigrati sono un’«opportunità». Dopo averli sperimentati in Africa, infatti, la stessa oligarchia industriale-finanziaria ha cominciato ad applicare gli stessi sistemi nei cosiddetti Paesi “avanzati”, imponendo le medesime misure di austerità che sacrificano lo stato sociale e il benessere dei cittadini sull’altare del “dio mercato” e dei “conti pubblici in ordine”, attraverso il taglio della spesa pubblica. Questo, da un lato, ha comportato una bassa natalità – in quanto l’incertezza economica e la riduzione dell’assistenza sociale disincentiva le nascite – mentre dall’altro ha permesso una concorrenza salariale al ribasso tra europei e lavoratori immigrati e, di conseguenza, lo sgretolamento dei diritti del lavoro, dietro al pretesto della concorrenza e del libero mercato.

Karl Marx: l’esercito industriale di riserva e le migrazioni irlandesi

Si tratta dell’effetto di quello che Marx definiva “esercito industriale di riserva”: con questa espressione, il filosofo tedesco, fondatore teorico del movimento comunista, intendeva la massa di disoccupati funzionale all’esistenza stessa del capitalismo. La presenza di un gran numero di disoccupati, infatti, alimenta la concorrenza tra i lavoratori poiché coloro che sono impiegati non possono facilmente rivendicare aumenti salariali o migliori condizioni lavorative senza il rischio di vedersi rapidamente sostituiti da quell’“esercito” di inattivi pronto ad accettare qualunque condizione pur di avere un impiego. D’altronde, Marx spiega molto chiaramente, attraverso la celebre teoria della caduta tendenziale del saggio di profitto, che l’unico modo che i proprietari dei mezzi di produzione hanno per aumentare il plusvalore è comprimere i salari: spinti, infatti, dalla concorrenza ad aumentare la produttività, sono costretti a modificare la composizione del proprio capitale, aumentando la quota del capitale costante (macchinari e materie prime) a scapito di quella del capitale variabile (i salari). Il saggio di profitto è dato dal rapporto tra il plusvalore e la somma di capitale costante e capitale variabile: secondo Marx tenendo fissi plusvalore e capitale variabile e aumentando il capitale costante, il profitto diminuisce progressivamente all’ampliamento della forbice tra i due tipi di investimento. Per aumentare il saggio di profitto, occorre, dunque, diminuire i salari. Da qui, la necessità di innescare una competizione al ribasso per mezzo di una moltitudine di disoccupati che Marx definisce “esercito”, in quanto si tratta di un’arma in mano ai capitalisti nel contesto della lotta di classe. Il pensatore tedesco individuò nelle migrazioni – relativamente alla sua epoca riferendosi in particolare quelle irlandesi dell’Ottocento – un valido strumento volto a ridurre i salari: un aumento della domanda di lavoro, a fronte di un’offerta stabile, infatti, tende a far diminuire i salari. Di conseguenza, secondo Marx, l’aristocrazia inglese aveva tutto l’interesse a favorire l’emigrazione irlandese, causata in buona parte anche dalla grande carestia che colpì il Paese tra il 1845 e il 1849. Secondo l’autore del Capitale, l’aristocrazia e la borghesia inglese avevano avuto «un interesse comune a trasformare l’Irlanda in pura e semplice terra da pascolo che fornisce carne e lana ai prezzi più bassi possibili per il mercato inglese», ma soprattutto – scrive Marx ne Le Lettere – aveva interessi molto più importanti nell’economia d’Irlanda, vale a dire l’immigrazione forzata di lavoratori irlandesi in Inghilterra: «Attraverso la continua e crescente concentrazione dei contratti di affitto, l’Irlanda fornisce il suo sovrappiù al mercato del lavoro inglese e in tal modo comprime i salari nonché la posizione materiale e morale della classe operaia inglese». La riflessione proseguiva poi mettendo in luce come questa dinamica innescasse, allo stesso tempo, una competizione tra i lavoratori inglesi e quelli irlandesi, dando linfa a un efficace metodo di governo, quello del “divide et impera”. «L’operaio comune inglese odia l’operaio irlandese come un concorrente che comprime il livello di vita. In relazione al lavoratore irlandese egli si considera un membro della nazione dominante e di conseguenza diventa uno strumento degli aristocratici inglesi e capitalisti contro l’Irlanda, rafforzando così il loro dominio su sé stesso. Egli nutre pregiudizi religiosi, sociali e nazionali contro l’operaio irlandese. Il suo atteggiamento verso di lui è più o meno identico a quello dei “bianchi poveri” verso i negri negli ex Stati schiavisti degli USA. L’irlandese lo ripaga con gli interessi della stessa moneta. Egli vede nell’operaio inglese il corresponsabile e lo strumento idiota del dominio inglese sull’Irlanda». Tutto ciò però non fa che avvantaggiare la classe ricca: infatti, prosegue Marx, «Questo antagonismo è il segreto dell’impotenza della classe operaia inglese, a dispetto della sua organizzazione. Esso è il segreto della conservazione del potere da parte della classe capitalistica. E quest’ultima lo sa benissimo». Nel contesto attuale, si possono individuare in buona sostanza gli stessi meccanismi, accentuati ulteriormente dalle dinamiche della globalizzazione e dell’austerity. Non a caso, la Confindustria ha parlato dell’immigrazione come «opportunità»: infatti, tra le altre cose, secondo l’associazione di categoria degli industriali, grazie alla più giovane età e alla maggiore fecondità, «gli immigrati danno un notevole impulso soprattutto alla popolazione in età lavorativa». Confindustria, negando che l’immigrazione possa contribuire all’abbassamento dei salari, ha anche rilanciato il mantra secondo cui gli stranieri «fanno lavori che gli italiani non sarebbero disponibili a svolgere», svelando così involontariamente la funzione subalterna degli stessi e omettendo volutamente il fatto che tali lavori sono il più delle volte sottopagati.

La progressiva sostituzione degli europei e la nuova antropologia capitalista

A causa delle politiche di austerità che la finanza internazionale, dopo aver sperimentato in Africa e Sudamerica, ha applicato e continua ad applicare in Europa – sebbene in forme meno radicali – si è notevolmente indebolito lo Stato sociale delle nazioni sviluppate e in questo processo l’Italia può essere considerato un Paese pilota, poiché è stato uno degli Stati in cui più massicciamente sono state messe in atto le politiche di contenimento della spesa pubblica: da qui deriva lo smantellamento del sistema pensionistico, della sanità nazionale e dei sussidi per incentivare le nascite. Questi elementi nel loro complesso hanno contribuito – insieme ad altri fattori – alla diminuzione della natalità conducendo ad un allarmante inverno demografico. Volendolo interpretare come un disegno, si tratta dell’applicazione riuscita della dottrina neomalthusiana secondo cui occorre contenere il numero della popolazione eliminando il sostegno alle fasce sociali meno abbienti. In questo caso, l’assistenza pubblica è stata in buona parte sgretolata nella sua totalità. In tale contesto – creato attraverso precise scelte politiche – non stupisce che l’immigrazione diventi un’«opportunità» in quanto va a rimpiazzare una parte della manodopera con popolazioni che spesso non conoscono il “diritto del lavoro” e in ogni caso non hanno gli strumenti e le possibilità per esigere diritti. Per questo sono, dunque, più facilmente sfruttabili e inseribili in quel mercato del lavoro “flessibile” e “fluido” desiderato dal grande capitale: particolarmente significativo in tal senso è il cosiddetto Jobs Act. Inoltre, nel lungo periodo, questo si traduce nella sostituzione sempre più ampia di vaste fette della popolazione autoctona con immigrati di origine africana e asiatica, con la conseguente scomparsa della popolazione italiana ed europea. Tutto ciò non è il frutto di qualche fantasiosa deduzione o teoria cospirativa, ma è quanto sostengono apertamente e pubblicamente i principali esponenti della plutocrazia liberale, ossia l’oligarchia fautrice dell’austerity. Elsa Fornero – appartenente alle fila di un governo che ha effettuato tagli draconiani alla spesa pubblica – circa un anno fa scriveva su La Stampa che «Se la popolazione italiana continuasse a diminuire ai ritmi di questi anni non ci vorrebbero tre secoli perché scomparisse». Tuttavia, Fornero spiega anche che «Potremmo non preoccuparci, perché ci sarà verosimilmente qualcuno pronto a prenderne il posto. Basta guardare all’altra sponda del Mediterraneo, dove si affacciano Paesi con popolazioni fortemente dinamiche e una struttura per età molto diversa dalla nostra, con molti neonati, bambini e giovani e relativamente pochi anziani. Perché negare allora ai giovani africani le opportunità di spostamento?». Così, dopo aver creato il problema attraverso modelli economici disfunzionali, la stessa élite liberale fornisce la soluzione ad essa maggiormente congeniale. Lo sradicamento dei popoli dalle loro terre di origine comporta anche un indebolimento – già avviato dal colonialismo prima e dalla globalizzazione dopo – della loro identità storico-culturale: in questo modo – eliminando ogni confine e uniformando ogni differenza – i popoli vengono dissolti in una massa indistinta di individui-atomi che li trasforma in meri consumatori. Privati, infatti, di ogni dimensione comunitaria – rappresentata dall’appartenenza etnica, linguistica e spirituale – e uniformati al paradigma materialista occidentale, non gli resta che appartenere alla dimensione individualista del mercato e, in quanto tali, essere funzionali allo stesso. È il modello antropologico del capitalismo liberale che pretende di liberare l’umano da ogni limite e da ogni legame, vincolandolo però ai dogmi dell’economicismo e del consumo. Va da sé, dunque, che il “problema” non sono gli immigrati, ma coloro che hanno individuato nel fenomeno migratorio un elemento da sfruttare sia sotto l’aspetto economico sia come mezzo di controllo dei popoli, innescando e usando la competizione tra loro per verticalizzate ulteriormente ricchezza e potere e danneggiando, al contempo immigrati e autoctoni. Come aveva lucidamente capito Sankara anzitempo, infatti, «le masse popolari in Europa non sono contro le masse popolari in Africa. Ma quelli che vogliono sfruttare l’Africa sono gli stessi che sfruttano l’Europa. Abbiamo un nemico comune».

[di Giorgia Audiello]

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