sabato 9 Novembre 2024

In Messico si è scatenata la guerriglia dopo l’arresto del figlio di El Chapo

Fino ad ora hanno perso la vita 29 persone, di cui 10 militari e 19 presunti criminali, nella guerriglia urbana scoppiata in Messico negli ultimi due giorni. La violenza è esplosa dopo l’arresto da parte della polizia di Ovidio Guzmán López, figlio di Joaquín Guzmán Loera, più comunemente conosciuto come “El Chapo”, signore della droga catturato e condannato all’ergastolo nel 2014. López è accusato di essere a capo di una parte del cartello di Sinaloa, fondato dal padre e considerato una delle più grandi organizzazioni di traffico di droga in tutto il mondo. In tutto lo stato di Sanaloa è in atto una vera e propria insurrezione armata: oltre alle vittime, le notizie che giungono dal Messico riportano l’invasione armata dell’aeroporto internazionale di Culiacan, con il governo che cerca di reagire mobilitando i blindati nelle strade prese d’assalto dagli uomini in armi del cartello narcos.

 

L’arresto, avvenuto a Culiacán, la più grande città nello Stato di Sinaloa (da cui prende il nome il cartello) protagonista dei primi violenti scontri tra la polizia messicana e i membri del gruppo, è arrivato dopo sei mesi di sorveglianza speciale, portati avanti dalle forze dell’ordine nazionali con la collaborazione degli Stati Uniti. Questi ultimi infatti, qualche settimana fa, avevano “messo in palio” una ricompensa di 5 milioni di dollari per chiunque avesse fornito informazioni utili sul conto di Guzmán López – (e anche dei suoi fratelli, anch’essi coinvolti nelle indagini). Tuttavia ad oggi, nonostante il coinvolgimento degli USA, non sarebbe ancora stata autorizzato alcun processo di estradizione a suo carico verso l’America.

 

La situazione rimane comunque piuttosto tesa. Juan de Dios Gamez, sindaco di Culiacán, ha sollecitato i cittadini a non uscire di casa, almeno fino a quando la situazione potrà essere considerata sotto controllo. Motivo per cui la città ha sospeso tutte le attività amministrative e chiuso le scuole. Nelle 48 ore seguite all’arresto, infatti, sono state date alle fiamme numerose automobili e 18 persone sono rimaste ferite. Persino la compagnia aerea di bandiera Aeromexico ha avuto qualche difficoltà: il personale a bordo ha raccontato che un aereo, diretto a Città del Messico, è stato colpito da un proiettile poco prima di decollare, allarmando i passeggeri.

 

Difficile capire come si evolverà la situazione, anche se i precedenti non sono rassicuranti: le forze di sicurezza messicane avevano già arrestato Guzmán-López nel 2019, ma lo avevano rilasciato per sedare le violenze da parte dei suoi sostenitori. Il mercato della droga è ancora troppo forte da poter essere fronteggiato. In generale quella di accostare l’America del Sud al narcotraffico è un’operazione, spesso inconscia, che ormai facciamo da molti anni. È vero, in questa parte di mondo il traffico di droga ha una lunga tradizione alle spalle, ma è soltanto in epoca relativamente moderna (attorno agli anni 2000) che la questione si è allargata a tal punto da coinvolgere buona parte del continente, lasciandosi dietro una scia di sangue e morti. I motivi di tale espansione e risonanza sono diversi, tutti interconnessi tra loro. Solo per citarne alcuni potremmo fare riferimento alla frammentazione dei grossi cartelli della droga in “cellule” più piccole, l’impoverimento generale della popolazione e l’intensificarsi della corruzione, che si è insinuata senza troppe difficoltà nel Governo e nelle Istituzioni. Tutti elementi che hanno spianato la strada all’avanzata del narcotraffico, che più che essere considerato in una dimensione locale, ormai va visto in chiave globale. È proprio questa sua “esportazione” che ha cambiato e trasformato radicalmente il Sud America, diventata la “sede” delle principali mafie del mondo, che da qui riescono agilmente a gestire i loro traffici transoceanici.

E il Messico può esserne considerato il fulcro. Gli esperti lo definiscono uno Stato-ponte dilaniato dalla piaga del narcotraffico, che negli ultimi 20 anni ha ucciso quasi mezzo milione di persone, e ne ha costrette 400mila ad emigrare altrove. Se la “guerra alla droga” ha caratterizzato la storia messicana degli (almeno) ultimi quindici anni, la ragione è prima di tutto geografica. La nazione, situata tra gli Stati Uniti e il resto del Sud America, è inevitabilmente una zona di passaggio per persone e merci, in viaggio tra le due Americhe. È così che il Messico si è “conquistato” il ruolo che attualmente ricopre. E in tutto questo il cartello di Sinaloa è protagonista indiscusso. Ritenuta una delle organizzazioni dominanti nel traffico di droga in Messico, è stata proprio fondata da El Chapo Guzman e guidata dallo stesso almeno fino al suo arresto, avvenuto nel 2014. Dopo il quale, secondo le autorità locali, il comando sarebbe passato nelle mani del figlio. La piaga però è ben più profonda. Secondo i dati riportati da Crisis Group – un’organizzazione non governativa, no-profit, transnazionale, che dal 1995 svolge attività di ricerca sul campo in materia di conflitti violenti, il numero di gruppi criminali in Messico è più che raddoppiato, passando dai 76 del 2010 ai 205 del 2020.

È chiaro che la strategia di repressione armata adottata dal Governo fino ad oggi non funziona. Non è chiaro, invece, che più che i proiettili servirebbero invece dei piani che tutelino i più fragili nelle zone maggiormente colpite dalle violenze e che ci sia piuttosto bisogno di una lotta interna, di contrasto alla corruzione. Il rischio è che, altrimenti, i cittadini stessi si armino fino ai denti (come sta iniziando ad accadere) e che la giustizia privata alimenti una scia di morte senza fine.

[di Gloria Ferrari]

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