venerdì 19 Aprile 2024

I grandi marchi della moda e la corsa al “resell”: tra sostenibilità e affari

Con Zara che sbarca con la sua piattaforma nel mondo del resell abbiamo una certezza: la rivendita dell’usato è diventata l’ennesimo business sul quale i grandi brand stanno cercando di mettere le zampe. Resell, letteralmente rivendere qualcosa che si era acquistato in precedenza, è una parola che si sente e legge sempre più spesso. Un modo per tenere in circolo oggetti e capi usati (ma non solo), che da sempre è stato appannaggio degli utenti finali – grazie a strumenti come scambi, mercatini, App e piattaforme di rivendita online -, adesso sembra essere diventato una fetta di mercato sulla quale tutti i grandi marchi stanno puntando. In un’ottica di sostenibilità e a supporto di un’economia circolare, certo, ma anche per non rimanere fuori dai giochi del settore in forte crescita del seconda mano, caro soprattutto all’inafferrabile Generazione Z.

L’improvviso interesse nella rivendita di capi usati, infatti, serve a intercettare un cliente consapevole sempre più orientato all’etica, che cerca prezzi bassi e che domina il mondo digitale: investire in un servizio di resell è come aprire una porta sul retro del marchio, un accesso a costi contenuti con il quale attirare e fidelizzare nuovi consumatori, rendendoli in qualche modo partecipi del patinato mondo del lusso. Un affare per tutti.

Anche perché, diciamo la verità: l’idea della vendita dell’usato ha sempre fatto venire i brividi a tutte le case di moda; una grande paura per una concorrenza pericolosa sia in termini economici (perdita di profitti) sia in termini di immagine (svalutazione del proprio prestigio e status), ha trasformato la rivendita in uno dei peggiori nemici. Un nemico furbo e attraente, che sta scalando rapidamente il mercato e che dovrebbe raggiungere un volume d’affari, secondo una ricerca riportata da Business of Fashion, di 51 miliardi di dollari entro il prossimo anno; un nemico con il quale, forse, converrebbe fare pace.

Ci ha fatto pace l’anno scorso Alexander McQueen, con la sua partnership con il colosso dell’usato Vestiare Collective (piattaforma nata nel 2009 e con un valore di circa 40 miliardi destinati a raddoppiare nel giro di qualche anno) nel programma “Brand Approved” che mette in vendita pezzi certificati dal marchio a prezzi concorrenziali. Si sono intrufolati anche Gucci, Burberry e Stella McCartney su TheRealReal, altro spazio virtuale dedicato alla rivendita, in una sezione pensata per i marchi del lusso; mentre Levi’s, Patagonia e persino H&M stanno investendo sui propri spazi digitali di resell, come Nike, Adidas, Cos e Mara Hoffman.

Digitali, ma anche fisici: grandi department store come Selfridges e La Rinascente hanno cominciato a destinare corner all’interno dei loro negozi per la rivendita dell’“usato di design”.

Insomma, ci stanno arrivando tutti, chi prima chi dopo, chi scommettendo sul proprio market virtuale chi collaborando o investendo con i pionieri visionari di questo settore (a marzo del 2021 il gruppo Kering ha investito su Vestiaire Collective acquisendone il 5%).

L’ultima a cavalcare quest’onda è stata Zara, che ha lanciato in questi giorni un progetto pilota attivo solo nel Regno Unito, per rivendere, riparare e donare i capi usati. Una proposta che fa parte della strategia sostenibile del marchio pensata per spronare i clienti a recuperare indumenti usati in un’ottica circolare e con meno sprechi (forse come inizio poteva bastare ridurre il numero di collezioni annue sfornate a getto continuo?). Il piano si divide in due azioni principali: la prima permetterà ai clienti di portare in negozio o spedire i propri capi per farli riparare e riceverli indietro entro dieci giorni, pagando (ma per questo non erano sufficienti le care vecchie sarte?); la seconda implica l’attivazione di una rivendita sulla piattaforma, dove il cliente potrà mettere in vendita i capi in suo possesso semplicemente scansionando il codice a barre. Le informazioni e le foto saranno fornite dalla casa madre, ma il cliente potrà comunque aggiungere eventuali dettagli. Anche in questo caso il servizio sarà gratuito per chi vende, mentre per chi acquista è prevista una commissione di una sterlina più un costo del 5% (lecito interrogarsi sulla convenienza reale di quest’operazione, dove un capo usato potrebbe costare più di uno nuovo).

Quest’invasione nel mondo della rivendita strizza inevitabilmente l’occhio alla circolarità: dare una seconda vita, rimettere in circolo risorse, educare il cliente al non spreco, sono tutte mosse che aumentano il punteggio della sostenibilità aziendale e manifestano un chiaro interesse verso l’ambiente. Acquistare di seconda mano, di fatto, aiuta a ridurre le emissioni di Co2 e limitare lo spreco di energia, acqua e materie prima derivanti dalle grandi produzioni. Produzioni a rotazione continua con una obsolescenza programmata evidente che comunque, per il momento, nessuno ha manifestato interesse nel ridurre.

In quest’ottica aderire al nuovo modello, invece che svalutare il marchio, contribuisce a elevarne l’immagine, a farsi bello davanti agli occhi del pubblico e raccogliere consensi (oltre che profitti). È naturale che i grandi marchi, dal lusso alla moda veloce, abbiano deciso di salire a bordo di questo treno piuttosto che vederselo sfrecciare davanti rimanendo a bocca asciutta.

Si tratta comunque di un’invasione di un territorio principalmente gestito dalle persone, grazie a siti e App come Depop e Vinted, dove l’esperienza della compra-vendita è sempre stata anche un’esperienza sociale a dimensione umana. Democratica e senza grandi player intorno, solo persone a “caccia dell’affare”, che trovano nell’armadio dell’altro cose di cui hanno più o meno bisogno senza dover acquistare niente di nuovo. Chissà se questi ultimi saranno disposti a restituire lo scettro ai brand, oppure resteranno saldi nel mantenere democratico e a gestione popolare almeno questo settore.

[di Marina Savarese]

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