venerdì 8 Novembre 2024

Hafez Huraini: il caso giudiziario che smaschera l’apartheid israeliana

Nelle settimane scorse presso il tribunale militare di Ofer, in Cisgiordania, si è svolto un processo esemplare del sistema giudiziario vigente nel Paese e, soprattutto, di quello mediatico. I giornali israeliani hanno parlato di “linciaggio” di un colono israeliano da parte di decine di palestinesi. Sempre secondo le testate israeliane la presunta vittima, l’israeliano Itamar Cohen, si trovava nei pressi dell’insediamento di Ma’on, nell’area di Masafer Yatta, quando circa 30 palestinesi gli avrebbero teso un “agguato” e lo avrebbero ferito. Ma i documenti arrivati in tribunale raccontano un’altra storia. Lunedì 12 settembre Hafez Huraini, un uomo palestinese di 52 anni, stava innaffiando insieme a suo figlio di 18 anni i territori circostanti alla loro casa, svolgendo il lavoro quotidiano di coltivazione della terra ad at-Tuwani, il villaggio in cui vivono. A un certo punto cinque coloni israeliani, alcuni con tubi di metallo in mano e altri armati di pistole e di un fucile M16, hanno attaccato l’uomo e suo figlio, arrivando a rompere entrambe le braccia di Hafez. Nel frattempo altri abitanti del villaggio hanno chiamato i soccorsi e la polizia. Mentre dei soldati israeliani arrestavano Hafez, che aveva cercato di difendersi dall’attacco con la pala con cui stava lavorando il terreno, i coloni hanno forato le ruote dell’ambulanza in modo che l’uomo non venisse soccorso e sradicato gli ulivi sulla proprietà privata palestinese.

Quest’ultima ricostruzione non è semplicemente una narrazione di parte, ma è quello che si può vedere in 23 minuti di video in cui è stata ripresa tutta la vicenda. Il registrato è stato portato in tribunale come prova a favore dei due uomini palestinesi dall’avvocatessa Riham Nassra ma non è stato ritenuto sufficiente per condannare i coloni israeliani, anzi ha portato il giudice ad iniziare un processo contro Hafez Huraini per tentato omicidio. Un crimine per cui Hafez ha rischiato l’ergastolo.

Nonostante fosse cominciato a circolare il video dell’assalto e la stampa israeliana avesse iniziato a ritrattare le proprie affermazioni, Hafez Huraini è rimasto per dieci giorni in arresto per sospetto tentato omicidio mentre i coloni che lo hanno aggredito non sono stati fermati né sono andati incontro a nessun tipo di procedimento giudiziario.  I media israeliani avevano dato per scontato che circa 30 palestinesi avessero “linciato” Cohen – dettagli forniti ai giornalisti da un anonimo funzionario della sicurezza – mentre il video restituisce il caso in maniera precisa: Cohen ha iniziato a brandire il tubo di metallo, lo scontro è avvenuto tra cinque coloni e Hafez, seguito poi da alcuni contadini palestinesi accorsi a difenderlo. Inoltre, l’intero incidente è avvenuto su un terreno palestinese di proprietà privata, come hanno ammesso sia l’esercito israeliano che l’Amministrazione civile.

[Hafez Huraini scortato da due poliziotti israeliani durante il processo del 19/09]
Il caso è solo uno dei tanti che si verificano tutti i giorni nella zona di Masafer Yatta, nella Cisgiordania meridionale non lontano dalla città di Hebron. L’area, infatti, è stata scelta come territorio per nuovi insediamenti israeliani; recentemente la Corte suprema israeliana ha dichiarato che la zona deve essere espropriata per diventare un’area di addestramento militare. Il fatto che nel territorio di Masafer Yatta vi risiedano 13 villaggi palestinesi non ha fermato le prime demolizioni, anzi ha alimentato gli arresti indiscriminati e l’aggressività dei coloni. 

“Mio padre e io siamo usciti, come ogni giorno, per lavorare la terra”, ha raccontato il figlio di Huraini, che era presente all’evento e ha chiesto di rimanere anonimo per paura di subire punizioni da parte dei coloni e dell’esercito. “Ho visto due uomini mascherati nella valle che stavano portando via le pecore che venivano pascolate dai bambini del villaggio vicino al nostro”. Il video conferma la sua testimonianza. “Mio padre mi ha chiesto di portare a casa le nostre pecore per evitare che venissero danneggiate. Così sono andato”, ha continuato il figlio di Huraini. “Quando sono tornato, ho visto che [i coloni] ci avevano raggiunto. Si sono radunati intorno a mio padre con dei pali in mano e hanno iniziato a picchiarlo. Un colono dai capelli rossi ha anche sparato con un’arma. Mio padre aveva un bastone e si stava difendendo. È la cosa naturale da fare quando qualcuno arriva con un’arma e spara in aria, e qualcuno cerca di colpirti in testa con un tubo di metallo. Ci stava proteggendo”.

La vicenda non ha coinvolto solo Hafez e la sua famiglia. La sera dell’assalto, più tardi, tre jeep dell’esercito e della polizia di frontiera sono arrivate per fare irruzione ad A-Tuwani. Si sono fermate davanti alla prima casa del villaggio, verso la quale i soldati hanno lanciato gas lacrimogeni e granate senza apparente motivo. Hanno continuato a guidare e hanno fatto lo stesso con diverse case. Un portavoce delle forze di difesa israeliane (IDF) ha detto al magazine 972 che i soldati erano “entrati nel villaggio per cercare i sospetti dell’attacco ai coloni di Havat Ma’on” e che stavano usando misure antisommossa per disperdere i palestinesi che lanciavano pietre contro di loro. Più tardi nella notte, i soldati accompagnati da jeep hanno fatto di nuovo irruzione nel villaggio. Sono entrati in diverse case, una dopo l’altra, per portare gli uomini da interrogare vicino al villaggio. Un residente che è stato interrogato, e che ha chiesto di rimanere anonimo per paura di essere punito, ha raccontato alla testata JustVision che l’agente dello Shin Bet, l’agenzia di intelligence per gli affari interni dello stato di Israele, gli ha detto che avrebbe “controllato il tuo villaggio con il pugno di ferro, e non solo, dopo quello che hai fatto. Vedrai cose che non hai mai visto prima. Non lascerò un solo uomo ad A-Tuwani”. 

Dopo due rinvii sul verdetto e dopo dieci giorni di interrogatorio nel centro di detenzione militare di Ofer, Hafez Huraini è stato rilasciato nella sera del 22 settembre. L’uomo è potuto tornare a casa a due condizioni: la prima è che non gli è permesso di recarsi nella sua terra, quella dove è stato attaccato, per 30 giorni, mentre la seconda il pagamento di una multa di diecimila shekel (circa 3mila euro). Secondo gli attivisti del territorio e la sua avvocata, Hafez è stato trattenuto il più possibile per cercare prove a suo sfavore, che però non ci sono state: nemmeno il video modificato dai coloni che lo avevano assaltato, in cui dichiaravano che gli attaccati fossero israeliani, addirittura pixelando i volti del video originale per confondere i ruoli nella vicenda, è stato ritenuto sufficiente per dimostrare la “colpevolezza” di Hafez.

“Mio padre ora sta bene ed è felice di rivederci, ha le braccia rotte ma spero che nei prossimi giorni si riprenda” racconta M. Huraini, anche lui assalito quel giorno insieme al padre Hafez. “Avevo davvero paura di non rivederlo più quando lo hanno arrestato, grazie a Dio c’è un video che prova che non è l’aggressore, anche se questa occupazione non si preoccupa della verità. Infatti ci è già capitata una cosa altrettanto grave: ormai tre anni fa i coloni hanno colpito mio fratello alla gamba e gliel’hanno rotta. Questa volta è toccato a mio padre ma viviamo tutti nella paura che possa succedere un’altra cosa del genere”.

La vicenda non si è ancora completamente conclusa e ancora dopo giorni, giovedì 29 settembre, Hafez e suo figlio sono stati interrogati dalla polizia israeliana. Dopo varie ore di interrogatorio entrambi sono stati rilasciati ma non sanno se effettivamente questa sarà l’ultima volta in cui verranno interpellati. “Mio padre ora si sente arrabbiato per le cose che hanno fatto i coloni, per questi interrogatori continui e per il fatto gli è stato impedito di stare nella sua terra” commenta Mohammed. “Questa storia non è normale per i diritti umani ma noi come palestinesi stiamo affrontando tutto questo ogni giorno”.

[di Sara Tonini]

 

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3 Commenti

  1. E pensare che una volta, grazie alla continua e rinnovata narrazione sull’olocausto, questa gente mi faceva pena. Oggi mi dispiace solo che all’epoca non abbiano finito il lavoro.

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