sabato 27 Luglio 2024

Non solo Cucchi: gli altri morti nelle mani dello Stato in cerca di giustizia

La giornata del 4 aprile 2022 segna una data storica nella lotta per i diritti in Italia. I due carabinieri autori del brutale pestaggio di Stefano Cucchi, che ne causò la morte in appena una settimana, sono stati condannati in via definitiva a 12 anni di carcere. Un traguardo che segna un punto finale nella vicenda della famiglia Cucchi, da più di un decennio in lotta perché la verità sotto gli occhi di tutti divenisse anche verità giudiziaria. Una vittoria parziale, tuttavia, che aspetta ancora un giudizio definitivo per gli altri carabinieri coinvolti nella vicenda, tra omertà e insabbiamenti. Parziale, poi, perché Cucchi costituisce ad oggi un caso isolato, una vittoria da celebrare proprio perché si è fatta a fatica strada tra le maglie di un sistema omertoso, mentre troppi altri ancora attendono che sia fatta giustizia.

Aldo Bianzino: morire per un po’ di marijuana

Aldo Bianzino nel 2007 ha 44 anni e vive con la compagna Roberta, l’anziana madre di lei e il figlio adolescente Rudra in un casolare nei pressi di Pietralunga, un piccolo paese sulle colline umbre. In casa hanno una decina di piantine di marijuana, utilizzata a scopo personale e terapeutico: Roberta è infatti malata di un cancro che ne causerà la morte appena due anni dopo, nel 2009. Aldo è un pacifista ed è incensurato, svolge il mestiere di ebanista e conduce una vita tranquilla. Nelle prime ore del 12 ottobre, tuttavia, quattro poliziotti e un finanziere piombano in casa sua: le motivazioni della perquisizione, ad oggi, sono ignote. Una volta trovate le piantine, Aldo e Roberta vengono portati in carcere e separati: 48 ore dopo, Aldo sarà dichiarato morto.

Nonostante l’autopsia abbia rilevato traumi estesi su tutto il corpo, diverse fratture e lesioni agli organi interni, che sembrano ricostruire il quadro di un violento pestaggio, il pm ha scelto di non prendere nemmeno in considerazione quest’ipotesi. A uccidere Bianzino, verrà stabilito, è stato un aneurisma: i traumi sul corpo sono i segni lasciati dagli agenti che hanno cercato di rianimarlo. Il pm che arriva a questa conclusione è il medesimo che ha ordinato la perquisizione in casa Bianzino. A oltre 14 anni dai fatti non è ancora stata fatta chiarezza sulla morte dell’uomo. Nel 2018 il figlio Rudra, in casa con genitori al momento dell’arresto, ha chiesto la riapertura del caso in seguito all’emersione di nuovi elementi che proverebbero che le lesioni sul corpo del padre sarebbero state causate due ore prima della sua morte, smentendo così l’ipotesi della rianimazione.

Federico Aldrovandi: gli assassini sono “vittime del dovere”

È l’alba del 25 settembre del 2005 a Ferrara: Federico, un ragazzino di appena 18 anni, sta tornando a casa da un concerto con gli amici. Sulla strada incontra una volante: con i due agenti all’interno nasce una discussione, così pochi minuti dopo sopraggiunge una seconda volante con altri due agenti sopra. In quattro si accaniscono su di lui, sotto lo sguardo di un’unica testimone, una donna che dalla finestra della propria abitazione assiste alla scena e riferirà che Federico è stato picchiato con dei “bastoni”. In effetti, successive rilevazioni constateranno che sul corpo del ragazzo sono stati rotti due manganelli. La causa della morte, constatata dal personale sanitario alle 6.45 del mattino, è una ipossia-asfissia posturale: il corpo è stato compresso in modo talmente violento che il cuore si è fermato. La morte di Federico sarà comunicata alla famiglia solo alle 11 del mattino. L’autopsia, in seguito, rileverà ben 54 lesioni su tutto il corpo.

Il processo ha inizio solamente nel 2007 e bisognerà aspettare il 2012 perché arrivi una sentenza che non può che lasciare basiti per la sua misera entità: 3 anni e 6 mesi ciascuno. Agli agenti verrà anche imposto un risarcimento economico nei confronti dello Stato, ma la cifra verrà enormemente ridimensionata grazie al ricorso all’indulto amministrativo, che sostanzialmente equipara gli assassini di Federico alle “vittime del dovere”. La beffa definitiva sopraggiunge quando, dopo appena 6 mesi di carcere e un breve periodo di sospensione, gli agenti vengono rimessi in libertà con la possibilità di tornare alla propria mansione. Patrizia Moretti, la madre di Federico, ha definito i quattro agenti “il simbolo dell’impunità” e sostiene che l’amaro esito della vicenda sia stato reso possibile anche grazie agli “insabbiamenti dei colleghi”.

Riccardo Magherini: la CEDU chiede spiegazioni all’Italia

Più volte si è paragonato la morte di Riccardo Magherini a quella di George Floyd, in America. Ex calciatore di 39 anni, Magherini è morto nella notte tra il 3 e il 4 marzo 2014, dopo essere stato fermato da tre carabinieri. Vagava per le strade di Borgo San Frediano, quartiere di Firenze, in uno stato psichico alterato per l’uso di sostanze stupefacenti: gli agenti per immobilizzarlo praticano su di lui la stessa manovra che è stata impiegata su Floyd, causandone la morte. I medici del reparto di rianimazione dell’ospedale Santa Maria Nuova ne constateranno il decesso alle 2.45 del mattino.

La magistratura ha deciso di assolvere gli agenti responsabili della sua morte in quanto “non avevano le competenze specifiche in materia” di arresto di soggetti in “delirio eccitatorio” per “intossicazione da cocaina”. Unico atto violento non giustificato riscontrato: due calci sferrati contro l’uomo quando già si trovava immobilizzato e inerte in terra. La condanna in primo grado è lieve: 7 mesi di reclusione per ciascuno degli agenti coinvolti. Antonio Marchesi, presidente di Amnesty Italia, ha sottolineato come nell’arresto di Magherini “siano state utilizzate procedure che non abbiano avuto come priorità la salvaguardia della vita umana”.

Nel gennaio di quest’anno la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) ha chiesto al Governo italiano di rispondere ad alcuni interrogativi circa la legittimità della tecnica di fermo utilizzata, che combina la compressione del torso a quella del collo e può facilmente mettere a repentaglio la vita dei soggetti. L’uso della forza era “assolutamente necessario e strettamente proporzionato” a fermare Magherini? Gli agenti sono stati formati adeguatamente? Il soggetto in questione, evidentemente vulnerabile, è stato tutelato? Tutti interrogativi la cui responsabilità diretta, secondo la Cedu, ricade sulle istituzioni, più che sui singoli esecutori dell’arresto. Ciò che è da chiarire in primo luogo, infatti, è se lo Stato italiano disponga delle “misure legislative, amministrative e regolamentari che definiscono le limitate circostanze in cui le forze di polizia possono far uso della forza”.

Giuseppe Uva: morire per un TSO

La Cedu è intervenuta anche nell’accogliere il ricorso in un altro caso, quello di Giuseppe Uva, 43 anni, morto il 15 giugno 2008 dopo essere stato arrestato perché ubriaco e sottoposto a Trattamento Sanitario Obbligatorio nel comune di Circolo di Varese. Uva, portato in caserma insieme all’amico Alberto Biggiogero, morirà poco dopo aver ricevuto il trattamento, alle 10 del mattino, per un arresto cardiaco. Dopo una prima assoluzione giunta in primo grado dalla Corte, che aveva stabilito la non sussistenza del reato di omicidio in seguito all’analisi delle perizie, la sentenza venne impugnata e il sostituto procuratore generale di Milano, Massimo Gaballo, formulò l’accusa di omicidio preterintenzionale e sequestro di persona aggravato da qualifica di pubblico ufficiale, con condanne dai 10 ai 13 anni. La contenzione fisica sarebbe infatti stata “violenta e di ingiusta durata” e sarebbe stata la causa che, insieme alla preesistente patologia di Uva, ha causato lo scompenso cardiaco e il decesso. La Corte d’assise, tuttavia, assolse nuovamente tutti gli imputati.

Secondo l’associazione A buon diritto, tra le principali ragioni per le quali la Cedu avrebbe deciso di esaminare il caso vi sono il fatto che Uva “è stato sottoposto a trattamenti inumani e degradanti e comunque a maltrattamenti, sia dal punto di vista fisico che psicologico, in violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani” e perché lo Stato italiano ha dimostrato scarso interesse e impegno nell’indagare la realtà dei fatti. La “lunghezza del processo”, inoltre, “non avrebbe consentito il raggiungimento della verità, neanche se questa fosse stata a portata di mano”.

Paolo Scaroni: rientrare dallo stadio invalidi al 100%

Non è morto, Paolo Scaroni, ma ha dovuto ricostruire la sua vita da zero quasi per intero. Il 24 settembre 2005, Scaroni si trova alla stazione di Porta Nuova di Verona, dopo aver assistito a una partita allo stadio Bentegodi. Ci sono alcuni scontri tra la polizia e i tifosi, in seguito ai quali parte una violenta carica della polizia che travolge Scaroni in pieno. L’uomo finisce in terra e viene picchiato selvaggiamente: gli agenti utilizzano anche l’impugnatura dei manganelli, che è molto più dura e non si flette, al contrario della parte che si dovrebbe normalmente usare. In seguito a quel pestaggio Scaroni rimarrà in coma due mesi e, una volta risvegliato, sarà dichiarato invalido al 100%.

Gli agenti responsabili del pestaggio erano tutti in divisa e con il volto coperto da foulard, motivo per il quale non è stato possibile individuare i responsabili del pestaggio. La vicenda ha alimentato ulteriormente il dibattito circa la necessità di dotare gli agenti di codici identificativi, che ne permettano il riconoscimento e impediscano che episodi di questo tipo rimangano impuniti. Tuttavia, l’Italia si è mostrata alquanto restia ad adottare tale misura. La recente decisione di dotare i Reparti Mobili di bodycam sembra anzi pensata per fornire ulteriori tutele agli agenti, più che per garantire la protezione dei cittadini dalle prevaricazioni e dagli atti repressivi delle forze dell’ordine.

La lista è ancora lunga

Quelli sopra citati sono solamente alcuni casi tra i più famosi emersi nella cronaca di questi anni, ma la lista delle vittime della violenza dello Stato è assai lunga. I nomi di Riccardo Rasman, Andrea Soldi, Bohli Kayes, Vincenzo Sapia (anche questo al vaglio della Cedu), sono ancora tra quelli che, insieme alle vittime della violenza del sistema carcerario, gridano a gran voce che sia fatta giustizia.

[di Valeria Casolaro]

 

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4 Commenti

  1. grazie Valeria C. Anche giusto Fabbri in merito alla formazione dei poliziotti, ma andrei oltre. Il sistema poliziesco da ispettore Callaghan (da anni ampliamente pubblicizzato in tutto il mondo occidentale) è solo la parte emersa dell’iceberg dell’enorme violenza di stato. Non siamo in uno stato fascista, nazista o comunista, ma forse il nostro sistema è anche peggiore. L’uso della violenza subdola, ipocrita e omertosa a cui siamo abituati ha raggiunto l’apice. Ci rendiamo conto che una specie di presidente del consiglio (Draghi) ha praticamente tacciato da assassino chi non si vaccina? Ci rendiamo conto che è stato legiferato un obbligo vaccinale? Ci rendiamo conto che sono stati esclusi dal lavoro seri e stimati professionisti? E che dire della pratica assurda del DAD che ha messo a marcire migliaia di ragazzi davanti ad un p.c., pratica definita patologica quando viene praticata volontariamente? (Hikikomori). Ed i morti da vaccino non sono stati picchiati, ma come si sentono i loro familiari?
    Quando si parla di violenza, forse dobbiamo stare attenti ai lupi, ma anche ai lupi travestiti da agnelli… o da draghi.

  2. Bell’Articolo, giusto ricordare sempre queste persone innocenti che sono state uccise o gravemente ferite in modo gratuito dallo Stato, che dovrebbe tutelarci tutti.. Lo Stato dimostra di essere Criminale, Omertoso, Ipocrita e Autoreferenziale, assolutamente disinteressato ai suoi cittadini, uno Stato assolutamente privo di Valori. Oggi più che mai. I Poliziotti non possono dare libero sfogo alla loro rabbia e violenza repressa: devono essere formati, oltre che sulle manovre per non ferire o uccidere nel bloccare le persone, anche a livello psicologico, per avere chiarissimi alcuni concetti di base, in modo che anche in situazioni pericolose o di stress agiscano sempre correttamente e senza infliggere violenze inutili: per poter esercitare la loro professione devono riconoscere immediatamente la Violenza e sapere cosa è giusto fare in qualunque situazione pericolosa. I colleghi che assistono ad un pestaggio sono complici e criminali anche se poi si dissociano: dovrebbero intervenire prontamente per evitare una violenza gratuita, perchè è il loro mestiere. Purtroppo in questo Sistema di Merda solo la Famiglia, forse gli Amici possono tutelarci da uno Stato sempre più Criminale, come dimostrano le vicende dei familiari che tenacemente hanno chiesto Verità e Giustizia, qualche volta ottenendola, come finalmente per Stefano Cucchi.

  3. Pazzesco, veramente spaventoso. E come dice il commento sopra purtroppo è solo uno degli innumerevoli aspetti di uno stato da cui è impossibile sentirsi tutelati, dal quale è più urgente mettersi al sicuro, purtroppo.

  4. Siamo un paese che sta andando alla deriva, ci accorgiamo ogni giorno che passa che il rispetto e la tutela del cittadino non è una priorità di questo stato. Ora come ora ne è solo un ostaggio

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