venerdì 19 Aprile 2024

Il petrolio porta ricchezza? La Basilicata è ancora la regione più povera d’Italia

Prima le promesse, poi le trivelle. La Basilicata, comunque, si conferma la regione più povera d’Italia. A rivelarlo è il nuovo rapporto Istat sulla povertà nel nostro Paese per l’anno 2020. Con un’incidenza relativa familiare pari al 23,4%, la regione riconquista il triste primato, seguita da Campania e Calabria, entrambe al 20,8%. Ad ogni modo, la Basilicata è sempre stata tra le prime tre regioni più povere della Penisola. Ed eccetto nel 2011, anche la meno prospera economicamente rispetto alla media delle altre aree del mezzogiorno. Dati preoccupanti che confermano le difficoltà economiche del Sud Italia e che, nel caso specifico della Basilicata, smontano il mito della ricchezza da petrolio.

Dopo decenni di trivelle non è cambiato nulla

Un tempo Lucania, oggi ‘Texas d’Italia’: nella regione si estrae circa l’80% del petrolio nazionale. Nonostante le promesse di prosperità avanzate dalle compagnie petrolifere, però, ha ancora un Pil tra i più bassi e tassi di disoccupazione alle stelle. In Basilicata, nulla è infatti cambiato da quando, nei primi decenni del secolo scorso, ha avuto inizio la corsa all’oro nero. Tutto è partito con l’insediamento di alcuni pozzi nella Val d’Agri, dove poi fu scoperto quello che oggi è considerato il giacimento onshore più grande d’Europa, entrato a pieno regime negli ’90. In ordine di tempo e di abbondanza, c’è poi quello di Tempa Rossa, nella Valle del Sauro, la cui attività estrattiva è stata avviata da poco più di anno. Il primo è in mano ad Eni e Shell, il secondo alla francese Total. Che il territorio lucano fosse ricco di idrocarburi e, di conseguenza, facesse gola a queste ed altre compagnie petrolifere, è stato da subito evidente. Allo stato attuale, guarda caso, ricadono richieste di concessioni di ricerca su circa il 70% del territorio della Basilicata.

Royalties statali irrisorie e insufficienti

La regione, quindi, è da oltre vent’anni la più ‘fossile’ d’Italia, ma della ricchezza e dello sviluppo tanto decantati non se ne è vista traccia. In linea teorica, i vantaggi economici per i cittadini dovrebbero derivare dal versamento delle royalties. Quando una compagnia petrolifera estrae idrocarburi nel territorio di uno Stato è, infatti, tenuta a versare una percentuale sul profitto ricavato dalla risorsa fossile estratta: per l’appunto, la royalty. Le aziende versano questa quota allo stato, il quale poi ne dirotta una parte, in proporzione, alle regioni e quindi ai comuni direttamente interessati dalle attività estrattive. Dal 2000 al 2017, la Basilicata ha ricevuto 2,2 miliardi di euro di royalties petrolifere, mentre un accordo più recente tra la regione e la sola Eni – per il rinnovo delle concessioni in Val d’Agri – prevede l’ingresso nelle casse lucane di circa 2 miliardi in dieci anni. Se queste entrate siano tante o poche è difficile a dirsi, ma quel che è evidente è che non sono state affatto sufficienti a risollevare l’economia regionale. Le criticità sono almeno un paio. La prima è che le royalties potrebbero fruttare molto di più. Quelle richieste in Italia, infatti, sono una percentuale irrisoria rispetto a quella di ogni altro paese al mondo: si attestano al 7%, per quanto riguarda le estrazioni di petrolio in mare, e al 10% per quelle che hanno luogo sulla terraferma. Invece, la seconda e più problematica è che, fondamentalmente, non si capisce bene dove tali introiti vadano a finire. Eccetto qualche ‘bonus carburante’, ai cittadini, direttamente, finisce poco o nulla. Il più è – o meglio dovrebbe essere – investito in infrastrutture e, in generale, nel servizio pubblico. Ma se dopo più di due decenni, lo sviluppo della regione è fermo, mentre la disoccupazione è a livelli allarmanti così come – giustamente – l’emigrazione demografica, è lecito chiedersi dove finiscano questi soldi. C’è chi – forse un po’ ingenuamente – crede che in Basilicata si stia perlopiù seguendo il modello norvegese, ovvero, far pagare alle compagnie petrolifere i costi dell’imminente transizione energetica.

Devastazione ambientale e maggiore mortalità

In un modo o nell’altro, comunque, le multinazionali si arricchiscono, mentre a pagare le conseguenze peggiori dell’egemonia fossile sono esclusivamente la salute dei cittadini lucani e l’ambiente naturale. Ad esempio, in termini di eco-reati, nel 2013, comparvero i primi sospetti che Eni avesse gestito in maniera illecita il ciclo dei rifiuti, tra l’altro, con il tacito consenso di funzionari pubblici e dell’ARPA Basilicata. Sospetti cui, nel 2017, fece seguito un’indagine, culminata, nel marzo di quest’anno, con la condanna del cane a sei zampe per traffico illecito di rifiuti. Giustizia fatta. Ma la devastazione ambientale c’è stata, c’è e continuerà ad esserci indipendentemente da eventuali reati. L’inquinamento ha interessato l’aria, a causa delle emissioni provenienti dagli impianti di desolfurizzazione petrolifera, stoccaggio e estrazione, così come da inceneritori e ferriere; il suolo, per colpa dei fanghi derivanti dalle lavorazioni petrolifere, da incidenti nel corso delle estrazioni, dall’interramento dei rifiuti, nonché dalla consueta pratica di acidificazione; e l’acqua, la risorsa realmente preziosa della regione, essenziale per i suoi abitanti e per diversi milioni di cittadini pugliesi, campani e calabri che dipendono dai suoi abbondanti e – un tempo salubri – bacini idrici. «Nel 2017, nel Centro olio Val d’Agri (Cova), il più grande d’Italia – ha spiegato ad Altreconomia Luca Manes, manager esecutivo di ReCommon – è avvenuto uno sversamento di oltre 400 tonnellate di petrolio che ha inquinato la falda acquifera del Pertusillo, fonte di acqua potabile per buona parte del Sud Italia». A tutti gli effetti quindi, una minaccia alla salute pubblica, insita tanto nella risorsa idrica quanto nell’aria che i lucani respirano. Sempre «in prossimità del Cova, i composti organici volatili – sostanze classificate come cancerogene dall’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc) – presenti in atmosfera raggiungono livelli critici: superano i 250 microgrammi per metro cubo come media giornaliera. I valori registrati nella stazione posta a 500 metri sottovento rispetto all’impianto – si legge in un’indagine condotta dalla stessa organizzazione – sono paragonabili a quelli di Pechino e Nuova Delhi, tra le città più inquinate del Pianeta». Non a caso la mortalità nei pressi degli impianti – come ha evidenziato uno studio del 2018 – è risultata significativamente maggiore.

Conflitti d’interessi fin troppo evidenti

Attenzione però. Cercando studi simili ne emerge anche uno di parere opposto, fieramente rilanciato da Eni nella pagina intitolata ‘La salute delle nostre persone’. Secondo lo studio non si registra un aumento di mortalità in relazione all’esposizione alle emissioni inquinanti del Cova. Sarebbe bello. La ricerca però, oltre ad essere in netta controtendenza con l’intera letteratura scientifica sul tema ha tra i suoi autori figure di dubbia imparzialità. Stiamo parlando dell’epidemiologo Paolo Boffetta che nello stesso articolo, nella sezione ‘Dichiarazioni etiche’, afferma di essersi consultato con Eni S.p.A., sebbene, al di fuori di suddetto lavoro. Ma non è la prima volta che Boffetta pubblica studi contrari alle evidenze dopo esser stato consulente per l’una o l’altra industria. Ha negato il legame tra amianto e mesotelioma pleurico un anno e mezzo dopo aver lavorato per la Montefibre, con le grazie della famiglia Riva ha difeso i metalli pesanti dell’Ilva usando come capo espiatorio il fumo di sigaretta e ha ‘dimostrato’, per conto dell’American Beverage Association, che i distributori automatici di bevande zuccherine non contribuiscono all’obesità.

Che l’industria fossile sia agli antipodi del concetto di benessere e salute è indubbio. Così non è, ma anche fosse che il petrolio effettivamente porti ricchezza, quanto varrebbe la vita di una persona?

[di Simone Valeri]

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