mercoledì 12 Novembre 2025
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Gaza: dall’inizio dell’aggressione militare Israele ha ucciso almeno 200 giornalisti

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In seguito al deliberato attacco del 25 agosto all’ospedale Nasser, nel sud della Striscia di Gaza, in cui sono stati uccisi 5 giornalisti, il bilancio degli operatori dell’informazione uccisi dall’inizio del massacro in Palestina è di 197, secondo i dati del CPJ (Committee to Protect Journalist). Eppure, sulla base di quanto ricostruito dall’ufficio medico di Gaza, citato dall’emittente Al Jazeera, tale quota sarebbe addirittura livellata al ribasso: in tutto, i giornalisti uccisi sarebbero infatti almeno 273. Già un anno e mezzo fa quella israelo-palestinese era stata considerata la guerra più mortale di sempre per i cronisti, avendo superato ampiamente il bilancio delle uccisioni dei reporter negli altri conflitti del nostro secolo e di quello passato. Ma il dato, di giorno in giorno, non fa che peggiorare.

L’ultimo raid israeliano che, in ordine di tempo, ha preso di mira operatori dell’informazione, è quello che si è verificato ieri all’ospedale Nasser di Khan Younis, dove sono morte in tutto 20 persone. Tra queste, cinque erano giornalisti: sul colpo sono morti il fotografo Mohammad Salama, i cameraman Moaz Abu Taha e Hossam al-Masri e la fotoreporter Mariam Abu Daqqa; successivamente, a causa delle ferite riportate, è deceduto anche il giornalista freelance palestinese Ahmed Abu Aziz. Il ministero ha dichiarato che le vittime sono state uccise al quarto piano dell’ospedale in un attacco “a doppio colpo”: un missile ha colpito prima, poi un altro pochi istanti dopo, mentre arrivavano le squadre di soccorso. Ieri sera, in un altro attacco a Khan Younis, le forze israeliane hanno inoltre ucciso il corrispondente palestinese Hassan Douhan, giornalista e accademico.

Lo scorso 10 agosto, altri cinque giornalisti palestinesi di Al Jazeera erano stati uccisi presso l’ospedale Al-Shifa di Gaza City. Tra le vittime, la più nota era la corrispondente Anas al-Sharif, di 28 anni, insieme a Mohammed Qreiqeh, e ai cameramen Ibrahim Zaher, Mohammed Noufal e Moamen Aliwa. Quando sono stati colpiti, i reporter si trovavano in una tenda dedicata alla stampa accanto all’entrata principale dell’ospedale. I giornalisti impegnati a Gaza stanno infatti utilizzando gli ospedali come basi per seguire le storie delle persone ferite, di quelle che soffrono di malnutrizione e, ovviamente, di coloro che muoiono nei viaggi in ambulanza o all’interno dei nosocomi. Eppure, la mattanza dei civili perpetrata dalle forze israeliane non risparmia nemmeno loro.

Secondo il progetto Costs of War della Brown University, dal 7 ottobre 2023, data di inizio degli attacchi, a Gaza sono stati uccisi più giornalisti che nella guerra civile americana, nella prima e nella seconda guerra mondiale, nella guerra di Corea, nella guerra del Vietnam, nelle guerre nell’ex Jugoslavia e nella guerra in Afghanistan messe insieme. Secondo fonti diversificate, il 2024 è stato l’anno più mortale in assoluto per i giornalisti. In totale, stando alle statistiche della CPJ, l’anno scorso sono deceduti 78 operatori dell’informazione, mentre nel 2025 le morti (almeno quelle confermate) sarebbero 34. Reporter Senza Frontiere (RSF), che accusa l’esercito israeliano di crimini di guerra contro i giornalisti nella Striscia di Gaza, si è unita all’appello di oltre 180 organizzazioni internazionali per la sospensione dell’accordo commerciale tra l’Unione Europea (UE) e Tel Aviv. L’istanza cita la flagrante violazione da parte di Israele dei suoi impegni in materia di diritti umani nella Striscia di Gaza.

Dal 7 ottobre 2023 le autorità israeliane impediscono l’accesso indipendente della maggior parte dei giornalisti stranieri nella Striscia di Gaza: la regola pratica è che i pochi corrispondenti cui viene permesso di entrare devono farlo sotto scorta militare israeliana o con permessi eccezionali, mentre l’ingresso indipendente e non accompagnato è stato negato per mesi. Numerosi organismi per la libertà di stampa e grandi agenzie hanno lanciato appelli e denunce: il Committee to Protect Journalists e un’ampia coalizione di testate hanno chiesto «accesso immediato, indipendente e illimitato» a Gaza. Eppure, ciò non ha impedito a Tel Aviv di invitare dieci influencer internazionali nella Striscia al fine di promuovere la propaganda a proprio favore. Tutti gli influencer arrivati a Gaza stanno diffondendo sulle proprie (seguitissime) pagine social vere e proprie fake news, affermando che gli aiuti per i palestinesi ci sono, ma che Hamas li ruberebbe per mangiare a volontà sotto i tunnel e vendere il cibo a prezzi elevatissimi in modo da finanziare l’acquisto di armi, mentre l’ONU non sarebbe intenzionato a distribuirli.

La Finlandia ha inaugurato la più grande batteria di sabbia al mondo

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In Finlandia è stata installata la più grande batteria di sabbia la mondo. Il modello, inaugurato a Pornainen, è alto 13 metri e largo 15 e contiene 2.000 tonnellate di steatite (pietra ollare) frantumata in sabbia. Complessivamente, questo sistema può immagazzinare fino a 100 MWh di energia per settimane, una capacità sufficiente a riscaldare l’intero centro di una città anche nel pieno dell’inverno nordico. L’accumulo di energia, specialmente quello a lungo termine, sta diventando sempre più essenziale man mano che le reti energetiche globali dipendono maggiormente da fonti variabili come il vento e il sole. I sistemi di accumulo possono catturare l’energia in eccesso per poi reimmetterla nella rete quando la domanda supera l’offerta. Nuovi tipi di batterie, come quella a sabbia, vengono sperimentate e prodotte per ovviare a problemi di efficienza ma anche per questioni di carattere ambientale e sociale.

L’impianto, gestito dalla società finlandese Polar Night Energy, è entrato in funzione nel giugno di quest’anno: ha una potenza termica di 1 MW e una capacità di accumulo di energia di 100 MWh. Questo sistema innovativo utilizza circa 2.000 tonnellate di un materiale sabbioso, in questo caso steatite frantumata, un sottoprodotto della lavorazione del produttore finlandese di caminetti Tulikivi. Così, la batteria immagazzina l’energia in forma di calore con temperature che arrivano fino a 600°C. L’energia termica accumulata viene utilizzata per alimentare il sistema di riscaldamento di Pornainen, contribuendo – nell’ipotesi più grave che non vi sia accumulo – a coprire quasi un mese di fabbisogno in estate e circa una settimana in inverno. Si prevede che questa soluzione ridurrà le emissioni annuali di CO2 di circa 160 tonnellate, ovvero quasi il 70%, eliminando completamente l’uso di petrolio e riducendo il consumo di cippato di legno del 60%.

Una batteria di sabbia è un sistema di accumulo di energia termica. A differenza delle batterie al litio che immagazzinano energia chimica, la batteria di sabbia immagazzina energia termica viene conservata in un grande serbatoio isolato riempito di sabbia. Il principio è semplice: l’elettricità in eccesso proveniente da fonti rinnovabili (come pannelli solari o turbine eoliche) viene usata per riscaldare il materiale sabbioso attraverso un sistema di resistenze. Il materiale, grazie alla sua elevata capacità termica, è in grado di immagazzinare il calore per lunghi periodi con perdite minime. Quando necessario, l’aria calda viene estratta e utilizzata per riscaldare l’acqua del sistema riscaldamento.

Le batterie di sabbia hanno costi di produzione notevolmente inferiori, stimati tra i 10 e i 20 dollari per kWh di capacità termica, a fronte dei 135-200 dollari per kWh delle batterie al litio. Questo è dovuto all’utilizzo di materiali abbondanti ed economici come la sabbia, a differenza dei minerali rari e costosi come il litio e il cobalto richiesti dalle batterie tradizionali. Le batterie di sabbia non contengono sostanze chimiche tossiche, la sabbia non si degrada con l’uso e non richiedendo complessi processi di smaltimento. Le batterie al litio, invece, presentano un impatto significativo a causa dell’estrazione dei minerali e della difficoltà di smaltimento. L’efficienza termica di una batteria di sabbia si aggira tra l’85% e il 95% mentre l’efficienza di una batteria al litio è superiore per l’immagazzinamento di elettricità (90-95%) ma è più adatta a utilizzi a breve termine, perdendo l’energia accumulata in minor tempo rispetto alla batteria di sabbia, le quali invece hanno una maggiore capacità di tenere l’energia più a lungo. Il maggior tempo di immagazzinamento è importante per risorse energetiche che non sono tutti i giorni disponibili.

Israele, proteste per liberazione ostaggi: bruciati pneumatici e bloccate strade

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A Yakum, a circa 30 km da Tel Aviv, decine di manifestanti hanno bloccato il traffico e bruciato pneumatici per chiedere la restituzione degli ostaggi detenuti a Gaza. Con fumo nero e bandiere israeliane, i dimostranti hanno occupato strade e un ponte pedonale, mostrando immagini degli ostaggi e intonando slogan. La protesta, parte di una “Giornata di interruzione” nazionale, mira a sollecitare il governo israeliano a negoziare con Hamas per porre fine alla guerra e liberare i prigionieri. Questa protesta non è un caso isolato: nei giorni precedenti ci sono state altre manifestazioni simili, organizzate dai familiari degli ostaggi.

Trump licenzia un membro del consiglio della Banca Centrale

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Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha ordinato la rimozione «con effetto immediato» di Lisa Cook dal consiglio dei governatori della Federal Reserve, l’organo principale dell’istituzione finanziaria centrale del Paese. Il presidente ha accusato Cook di aver manomesso documenti per ottenere vantaggi su un mutuo; è la prima volta in 111 anni di storia della banca centrale che un membro del consiglio viene licenziato. Cook non è tuttavia incriminata di nulla in sede giudiziaria e, per tale motivo, ha annunciato che non si dimetterà, giudicando il licenziamento illegittimo.

Cremona, archiviate le indagini contro la raffineria Tamoil: per il gip non inquina più

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La giudice per le indagini preliminari di Cremona, Giulia Masci, ha archiviato l’inchiesta sull’ex raffineria Tamoil, giudicando le tracce di inquinamento presenti sul terreno dove sorgeva l’impianto «storiche». La barriera costruita per mitigare i danni, insomma, funzionerebbe correttamente e non ci sarebbero abbastanza prove per stabilire che l’area interessata sia soggetta a un nuovo inquinamento. La raffineria Tamoil ha cessato le proprie attività oltre dieci anni fa, quando l’azienda ha riconvertito l’area in un deposito e creato una barriera idraulica per proteggere l’ambiente circostante. Alcune analisi raccolte su campioni di suolo, tuttavia, avevano rilevato una massiccia presenza di surnatante, la componente dell’idrocarburo fossile che non si mescola con l’acqua, sollevando dubbi sulla reale tenuta della barriera. La decisione della gip ha suscitato critiche da Legambiente, dai Radicali, e dall’associazione Canottieri Bissolati, che denunciano la mancanza di indagini adeguate, contestando la validità delle misure di contenimento adottate.

La decisione di archiviare il caso dell’ex raffineria Tamoil arriva su richiesta del pubblico ministero Davide Rocco. Da quanto si legge nella sentenza, i consulenti tecnici non hanno riscontrato «alcuna criticità nella barriera idraulica che potesse far ipotizzare un suo cattivo funzionamento» e, non essendo stati segnalati episodi di nuovi sversamenti, hanno ricondotto le contaminazioni rilevate «a uno stato di contaminazione preesistente, ovvero agli effetti di sversamenti o perdite di idrocarburi avvenuti diversi anni fa sulle aree Tamoil e limitrofe». L’inquinamento, insomma, c’è, ma sarebbe lo stesso di sempre e non deriverebbe da un possibile malfunzionamento della barriera. Di diverso avviso i comitati per l’ambiente, i Radicali, e l’associazione sportiva Canottieri Leonida Bissolati, la cui sede risulta limitrofa alle aree dell’ex raffineria: «La prova di un nuovo inquinamento non è stata raggiunta perché i consulenti della Procura non hanno effettuato le indagini in ordine al tracciamento del prodotto», dalla sua evoluzione alla sua datazione, specificano i legali della Bissolati; questo genere di indagini, rimarcano, era stato in precedenza ritenuto necessario da una sentenza del TAR, rimasta inascoltata.

Il caso dell’ex raffineria Tamoil risale al 2007, quando venne appurato che durante la sua attività l’impianto aveva prodotto un ingente inquinamento da idrocarburi nei terreni e nella falda sottostante l’area interessata. Quello stesso anno, Tamoil mise in funzione i primi sbarramenti idraulici per il contenimento dei danni ambientali. L’impianto venne chiuso nel 2011, con la firma di un accordo con il governo che prevedeva la sua riconversione in deposito e l’avvio delle opere di bonifica nelle aree interne. La bonifica, sostengono i comitati, non sarebbe mai iniziata. Per eluderla, denunciavano gli stessi lo scorso novembre, Tamoil ha presentato un progetto per la costruzione di un parco fotovoltaico di 5-6 megawatt: una normativa permette infatti di rimandare tali operazioni finché l’area ospita attività produttive, e Tamoil ha mantenuto operativo sul sito il suo stesso deposito.

L’Australia ritira i diplomatici dall’Iran

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L’Australia ha sospeso le operazioni della propria ambasciata a Teheran e ha ritirato i propri diplomatici in Iran, che si trovano ora in un Paese terzo. L’annuncio è stato dato dal primo ministro del Paese Anthony Albanese, che ha accusato l’Iran di avere «orchestrato attacchi antisemiti» nel Paese. Albanese ha citato un episodio a Sydney risalente al 20 ottobre dello scorso anno e un altro a Melbourne del 6 dicembre, sostenendo che i servizi segreti del Paese avrebbero scoperto il coinvolgimento di Teheran. Il premier ha annunciato che l’ambasciatore iraniano verrà espulso. «È la prima espulsione» di un ambasciatore dal Paese «dalla seconda guerra mondiale», ha aggiunto la ministra degli Esteri.

Il Kenya ha definitivamente debellato la malattia del sonno

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Il Kenya è ufficialmente libero dalla malattia del sonno. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha confermato che il Paese ha eliminato la tripanosomiasi africana umana (HAT) come problema di salute pubblica. Un risultato che lo rende il decimo Stato africano a riuscirci, dopo anni di sorveglianza, investimenti sanitari e lavoro sul territorio.
La malattia del sonno è una patologia infettiva causata da un parassita trasmesso dalla puntura di una mosca tse-tse infetta. Nelle prime fasi può manifestarsi con febbre e mal di testa, ma se non trattata, il parassita raggiunge il sistema nervoso cen...

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Analfabetismo funzionale: in Italia un adulto su tre ha difficoltà con lettura e calcolo

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In Italia persiste il fenomeno dell’analfabetismo funzionale, che non riesce a essere scalfito nemmeno dal progresso tecnologico ed educativo della società. È quanto emerge dal Rapporto 2025 sugli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile pubblicato dall’ISTAT, in cui è stato dato ampio spazio al programma PIAAC (Programme for the International Assessment of Adult Competencies) dell’OCSE, che fornisce preziose informazioni relative alle competenze cognitive della popolazione adulta dei Paesi membri. «Il nostro Paese si colloca agli ultimi posti delle graduatorie internazionali, con rilevanti disparità territoriali che vedono le regioni del Nord Italia in netto vantaggio rispetto al Mezzogiorno», scrive l’ISTAT in riferimento all’esito dell’ultima rilevazione avvenuta nel 2023. Circa un italiano su tre presenta infatti significative difficoltà nella lettura e scrittura, così come nel calcolo e nella capacità di risoluzione dei problemi. Un trend che non registra segnali di ripresa rispetto alle rilevazioni effettuate nello scorso decennio, nonostante le grandi mutazioni dello spaccato sociale e tecnologico.

Nello specifico, il PIAAC valuta le competenze degli adulti tra i 16 e i 65 anni in tre ambiti fondamentali: la literacy (capacità di comprendere e utilizzare testi scritti), la numeracy (abilità di usare concetti matematici) e il problem solving in ambienti digitali. Il rapporto mostra che, in Italia, i punteggi medi in tutte e tre le aree sono ben al di sotto della media OCSE. Si stima infatti che quasi il 35% della popolazione possieda bassi livelli di competenza alfabetica e oltre il 36% presenti livelli insufficienti di competenza numerica. Un divario che riflette non solo carenze formative strutturali, ma anche un ritardo nell’adeguamento alle richieste di un’economia sempre più basata sulla conoscenza e sulle competenze digitali. La literacy, o competenza nella lettura, è uno degli ambiti più critici, registrando punteggi medi preoccupanti che segnalano una carenza generalizzata su questo versante. Un dato particolarmente allarmante è la stabilità (se non, almeno in determinate regioni, il lieve peggioramento) delle competenze di base nell’arco di un decennio: il confronto con il primo ciclo PIAAC del 2012 mostra infatti che le competenze medie della popolazione italiana sono rimaste sostanzialmente invariate. Anzi, mentre nelle regioni del Nord-ovest emerge un miglioramento delle competenze medie per literacy e numeracy, in alcune regioni del Mezzogiorno si registra addirittura un decremento nella literacy.

Le cause di questo fenomeno sono molteplici. L’invecchiamento della popolazione e l’aumento dei flussi migratori – con una quota significativa di adulti con bassa scolarizzazione – hanno certamente influito. Tuttavia, anche controllando questi fattori demografici, emerge che il sistema educativo e formativo italiano fatica a colmare il gap culturale di partenza e a promuovere l’apprendimento permanente. Le disparità territoriali sono un altro tassello fondamentale del quadro. Le regioni del Nord-ovest mostrano segni di miglioramento, mentre il Sud conferma un grave ritardo. Una vera e propria frattura geografica che costituisce il riflesso di divari socioeconomici più ampi e di un accesso disuguale a servizi educativi di qualità, con ripercussioni dirette su numerosi ambiti. L’analfabetismo funzionale non è infatti un fenomeno che attiene solo alla sfera culturale, ma che ha ricadute tangibili sull’economia e sulla coesione sociale.

Il Rapporto ISTAT sottolinea come il mancato miglioramento delle competenze degli adulti rappresenti un serio ostacolo al raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030, in particolare il Goal 4 (“Istruzione di qualità”). Le conseguenze di questa carenza di competenze sono evidenti nel mercato del lavoro. Le persone con competenze basse sono meno competitive e hanno maggiori difficoltà a trovare impieghi stabili e ben retribuiti. Di conseguenza, il Paese perde parte del suo potenziale umano, riducendo la produttività e rendono più difficile l’adozione di innovazioni tecnologiche. Inoltre, minano la capacità dei cittadini di comprendere informazioni complesse, prendere decisioni consapevoli e partecipare attivamente alla vita democratica.

Birmania: il ponte più alto del Paese è stato distrutto negli scontri

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Il ponte birmano di Gokteik è stato distrutto negli scontri tra la giunta militare e i gruppi ribelli. Il ponte si trovava tra la città di Gokteik e Nawnghkio, ed era parte della linea ferroviaria tra Lashio e Mandalay, situata nel centro del Paese. Era alto 102 metri, ed era una delle infrastrutture simbolo della Birmania, inaugurata 125 anni fa. Entrambe le parti si sono accusate di avere bombardato l’infrastruttura. In Birmania è in corso una violenta guerra civile tra giunta militare, salita al potere nel 2021, e gruppi ribelli etnici: dall’inizio del conflitto, sono state uccise più di 5.000 persone e milioni di persone sono state costrette ad abbandonare le proprie case.

Google rivela per la prima volta quanto inquina la sua IA

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Per la prima volta, Google ha reso pubblica un’analisi dettagliata sull’impatto energetico e ambientale della sua intelligenza artificiale di punta, Gemini. L’iniziativa segna un momento storico nel settore, non tanto per le cifre in sé, quanto per l’inedita apertura di un colosso tecnologico su un tema che fino ad oggi era rimasto in gran parte avvolto dall’opacità. Le aziende che detengono il controllo dei modelli linguistici di grandi dimensioni si sono infatti mostrate sempre riluttanti a condividere dati concreti, costringendo i ricercatori indipendenti a lavorare su stime, proiezioni e calcoli teorici. Nel presentare i risultati, Google ha dipinto il quadro con toni marcatamente virtuosi, omettendo informazioni che permetterebbero di tratteggiare un ritratto definitivo del fenomeno, tuttavia rimane la possibilità che questo passo apra la strada a un futuro di maggiore dialogo tra mondo accademico e Big Tech, con metriche più condivise e confrontabili.

Secondo i dati diffusi, una singola richiesta testuale a Gemini comporterebbe un consumo di 0,24 wattora, che Google paragona a “meno di nove secondi passati davanti a un televisore”, uno sforzo che viene accompagnato da un utilizzo di acqua pari 0,26 millilitri, “l’equivalente di cinque gocce”, e circa 0,03 grammi di emissioni di anidride carbonica equivalente. Numeri che, nell’ottica dell’azienda, confermano l’efficienza raggiunta dal sistema: tra il maggio 2024 e il maggio 2025, l’impatto energetico medio di un prompt si sarebbe ridotto di 33 volte, mentre quello in termini di carbonio di ben 44 volte.

L’indagine non è stata sottoposta a revisione paritaria, quindi i suoi contenuti non sono ancora stati verificati da accademici terzi, tuttavia è plausibile che le cifre siano corrette nei termini in cui sono state raccolte, ma la loro estrema specificità si apre a diversi interrogativi. L’omissis più lampante e immediato si lega per esempio al fatto che i calcoli espressi fanno riferimento solo ed esclusivamente ai comandi di testo, mentre la generazione di immagini e di video non viene accennata neppure di sfuggita. Inoltre, il riferimento al “prompt medio” non fornisce un’indicazione dei consumi complessivi né rende conto delle variazioni legate a richieste più complesse, che potrebbero comportare picchi energetici ben superiori alla mediana presentata.

Un aspetto apprezzabile del rapporto è che i dati includono non solo il calcolo computazionale dei chip, ma anche i consumi delle CPU, della memoria, delle macchine inattive e dei sistemi di raffreddamento. Si tratta di un tentativo di offrire una visione complessiva delle infrastrutture coinvolte. Tuttavia, il metodo scelto da Google per la valutazione delle emissioni resta controverso: l’azienda ha utilizzato la cosiddetta “contabilità carbonica basata sul mercato”, la quale si fonda sugli investimenti e sugli acquisti di energia rinnovabile. In questo modo, un data center alimentato in gran parte da elettricità proveniente da combustibili fossili può comunque risultare più “verde” sulla carta, se l’azienda ha investito in progetti rinnovabili altrove. La discrepanza tra il dato di mercato e quello effettivo, cioè “location-based”, rischia così di presentare un impatto più edulcorato rispetto agli impatti reali.

Ammesso che l’ottimizzazione delle singole richieste sia stata esponenzialmente migliorata, resta però il fatto che l’ultimo report di sostenibilità di Google mostra infatti che le emissioni totali sono aumentate dell’11% nel 2024 e del 51% rispetto ai livelli del 2019. La Big Tech, insomma, inquina sempre di più, ed è facile ipotizzare che questa tendenza sia legata a una crescente attività sui frangenti di cloud computing e intelligenza artificiale. 

La pubblicazione dei dati da parte di Google arriva in un momento delicato per il settore dell’IA. Figure centrali come Sam Altman, amministratore delegato di OpenAI, hanno iniziato a parlare apertamente del rischio che il mercato sia una bolla finanziaria, destinata a scoppiare se non troverà modelli di business realmente sostenibili. Allo stesso tempo, diverse comunità locali denunciano le conseguenze dirette della costruzione di data center e gigafactory sui loro territori, dal consumo di acqua alle bollette energetiche più care. In questo contesto, le grandi aziende tecnologiche si trovano sotto pressione: non solo devono dimostrare di essere economicamente sostenibili, ma anche di poter ridurre concretamente il loro impatto ambientale.