La Corte Costituzionale thailandese ha destituito la premier Paetongtarn Shinawatra, già sospesa a luglio, per una telefonata considerata inappropriata con l’ex primo ministro cambogiano Hun Sen. Durante la conversazione, incentrata su una disputa territoriale tra i due Paesi, Paetongtarn avrebbe usato toni eccessivamente deferenti, configurando secondo i giudici una violazione etica. La decisione, immediatamente esecutiva, segna la quinta rimozione di un primo ministro thailandese dal 2008 a oggi da parte della Corte Costituzionale, confermando l’instabilità politica che caratterizza il Paese da oltre quindici anni.
Yemen, primo ministro Houthi ucciso in un raid israeliano
Ahmed al-Rahawi, primo ministro del governo ribelle Houthi nello Yemen, è stato ucciso in un attacco aereo israeliano a Sana’a. Secondo quanto riferito anche dai media yemeniti, i raid dell’IDF ha colpito l’appartamento in cui si trovava, uccidendo anche alcuni suoi compagni. L’esercito israeliano ha confermato di aver colpito un «obiettivo militare» Houthi nella capitale, prendendo di mira alti funzionari del gruppo. In un raid separato, sarebbero stati attaccati anche altri 10 ministri, incluso quello della Difesa. Il ministro israeliano Katz ha dichiarato: «Chiunque alzi una mano contro Israele la perderà».
Stellantis allunga la cassa integrazione in Italia e investe in Marocco e Algeria
In casa Stellantis, la luce in fondo al tunnel non si riesce proprio a vedere. A Pomigliano d’Arco, storico sito produttivo campano, è stato infatti firmato un pre-accordo tra l’azienda e le sigle sindacali che estende di un ulteriore anno, fino all’8 settembre 2026, la cassa integrazione in regime di solidarietà in deroga per 3.750 lavoratori. La misura, che prevede una riduzione media dell’orario di lavoro fino al 75%, arriva dopo il biennio concesso dalla cassa integrazione ordinaria, ormai esaurito. Inoltre, Stellantis ha comunicato ai sindacati la necessità di prolungare la durata della solidarietà per 2.297 lavoratori dello stabilimento di Mirafiori (Torino) fino al 31 gennaio. La produttività dell’azienda è in calo in tutti gli stabilimenti italiani, con flessioni fino al 72% rispetto all’anno scorso. Nel mentre, l’azienda sta delocalizzando la produzione in Paesi africani come in Marocco e Algeria, dove conta di aumentare gli investimenti e assumere più personale.
La situazione a Pomigliano, nonostante trainasse fino a poco fa il 64% della produzione nazionale di Stellantis in Italia, è critica. Nel primo semestre del 2025 ha prodotto 78.975 vetture, il 24% in meno rispetto allo stesso periodo del 2024. La Panda, suo fiore all’occhiello, con 67.500 unità rappresenta ancora oltre la metà dei volumi italiani, ma mostra segnali di affaticamento. A pesare sono la contrazione del mercato, il debutto della nuova Grande Panda (prodotta in Serbia) che “pesta i piedi” alla versione italiana, e persino i dazi di Trump che hanno fermato la produzione della Dodge Hornet. Per i lavoratori, gli effetti sono tangibili: ogni giorno di cassa integrazione significa circa 35 euro lordi in meno in busta paga. Con sette-otto giorni di CIG al mese, il taglio si aggira tra i 240 e i 280 euro lordi, un colpo durissimo per stipendi che si attestano sui 1.500-1.600 euro netti.
La firma del pre-accordo con Fim, Uilm, Fismic, Ugl e Aqcf prevede anche un verbale congiunto per chiedere alla Regione Campania un sostegno al reddito destinato a permettere la partecipazione ai percorsi formativi collegati ai contratti di solidarietà. Per i sindacati la solidarietà «non può e non deve diventare una soluzione strutturale. È uno strumento di difesa, non di gestione ordinaria». I rappresentanti sindacali hanno chiesto al Governo di convocare i vertici dell’azienda. Dal canto suo, Stellantis giustifica la richiesta di ulteriori ammortizzatori con la fase di incertezza del mercato auto e con la necessità di gestire volumi ridotti; segnala però anche intenti di riorganizzazione industriale e investimenti esteri che non convincono i sindacati, preoccupati per la delocalizzazione di volumi strategici.
Mentre Termoli ha già concordato misure analoghe per 1.823 lavoratori dal 1° settembre 2025 al 31 agosto 2026, A Torino, la solidarietà riguarderà 903 operai del comparto che produce la 500 elettrica, 674 addetti alla produzione di Maserati, 300 dell’ex Pcma, 294 addetti al reparto Presse, 85 della costruzione stampi e i 41 operai dell’ex Tea. In un comunicato congiunto, i sindacati (Fim, Fiom, Uilm, Fismic, Uglm e Associazione Quadri Fiat) hanno espresso profonda preoccupazione per la situazione produttiva di Stellantis a Torino. Pur riconoscendo la positiva imminente produzione della Fiat 500 ibrida, hanno evidenziato come ai lavoratori, dopo circa 18 anni di utilizzo della cassa integrazione, vengano nuovamente richiesti sacrifici economici a causa della carenza di produzione. Per far fronte a questa fase complessa, è stato concordato l’utilizzo di prestiti e trasferimenti temporanei dei dipendenti verso altre sedi europee del gruppo. L’azienda si è impegnata ad anticipare l’integrazione salariale. Tuttavia, i sindacati ritengono che la 500 ibrida da sola non sia sufficiente e chiedono con urgenza l’assegnazione di un nuovo modello da affiancarle allo stabilimento di Mirafiori.
La situazione è però diversa dall’altra parte del Mediterraneo. Come evidenziano i sindacati, l’azienda ha infatti annunciato ingenti investimenti in Marocco e Algeria, dove i costi produttivi sono notevolmente più bassi. Una strategia che le sigle sindacali accusano di essere una delle cause della crisi italiana. Nel frattempo, stando a quanto raccontano fonti interne allo stabilimento serbo di Stellantis a Kragujevac, l’azienda sta assumendo manodopera a basso costo dal Nord Africa per far fronte alla carenza di operai locali. Questi ultimi, infatti, rifiutano di lavorare per gli stipendi offerti (circa 600 euro). I nuovi dipendenti marocchini percepiscono uno stipendio base di 300 euro, integrato da un’indennità di trasferta di 700 euro. «Il nostro modello più importante, la Nuova Panda, è stato assegnato e viene prodotto in Serbia e solo pochi giorni fa è stato annunciato un investimento in Marocco», denuncia la Fiom Cgil, dipingendo uno scenario in cui l’Italia viene «superata da Paesi dell’Est Europa e doppiata dal Marocco».
A livello generale, i dati di produzione dei primi sei mesi del 2025 di Stellantis confermano il peggioramento rispetto al già critico 2024. Lo attesta, in particolare, il rapporto recentemente pubblicato da Fim-Cisl, in cui si prevede una chiusura d’anno intorno alle 440.000 unità totali, con circa 250.000 autovetture prodotte. «Nel primo semestre 2025 sono state prodotte complessivamente 221.885 unità tra autovetture e veicoli commerciali, in calo del -26,9% rispetto allo stesso periodo del 2024 – si legge nel report -. Le autovetture registrano una flessione del -33,6% (123.905 unità), mentre i veicoli commerciali sono scesi del -16,3% (97.980 unità)».
Sono entrati in vigore i nuovi dazi USA sui pacchi postali
Da oggi negli Stati Uniti entrano in vigore nuovi dazi sulle importazioni, che colpiscono anche i pacchi di valore inferiore a 800 dollari, finora esenti. Restano esclusi solo i regali sotto i 100 dollari e i beni personali portati dai viaggiatori fino a 200 dollari. Per sei mesi i dazi potranno essere calcolati anche con importi fissi tra 80 e 200 dollari. La misura, voluta da Donald Trump, mira a contrastare l’uso dell’esenzione per aggirare i dazi e facilitare traffici illegali. L’impatto sarà forte sull’e-commerce, in particolare su piattaforme come Shein e Temu.
Pakistan, oltre un milione gli evacuati per le alluvioni
Nel nord-est del Pakistan, oltre un milione di persone è stato evacuato negli ultimi giorni a causa delle devastanti alluvioni che hanno colpito la provincia del Punjab, tra le peggiori degli ultimi anni. Le piogge monsoniche, unite al rilascio controllato di acqua da alcune dighe indiane, hanno provocato lo straripamento dei fiumi Sutlej, Ravi e Chenab, allagando più di 1.400 villaggi. La regione, cuore agricolo del Paese, con coltivazioni di grano, riso e cotone, è ora in ginocchio: oltre 1,4 milioni di abitanti sono coinvolti. Le vittime sono almeno 14 nelle ultime ore e oltre 800 dall’inizio delle piogge a giugno.
Scandalo o retorica proibizionista? La verità sulle pipe per il crack a Bologna
A Bologna una semplice proposta del Comune, che va nella direzione della riduzione del danno del consumo di stupefacenti, è stata trasformata da esponenti del governo nazionale in uno scandalo mediatico dove, come al solito, tutto si è trasformato in una crociata moralista. Riavvolgiamo il nastro: il Comune di Bologna, guidato dal sindaco Matteo Lepore (PD), ha deciso di avviare una sperimentazione per distribuire circa 300 pipe in alluminio gratuite destinate ai consumatori abituali di crack, nell’ambito di politiche di riduzione del danno. L’iniziativa, tra l’altro, era già partita in forma sperimentale nel 2024. Il costo dell’operazione è di 3.500 euro e le pipe saranno distribuite con l’obiettivo di ridurre lesioni come sanguinamenti, tracheiti e infezioni causate dall’uso di materiali improvvisati e condivisi. Durante la sperimentazione del 2024, 40 persone hanno partecipato volontariamente. I risultati dopo 30 e 60 giorni, pubblicati sulla rivista scientifica Substance use & misuse, indicano miglioramenti nella riduzione del consumo della sostanza, evidenziando la scomparsa o diminuzione di problemi respiratori e orali (es. dolori alla gola, respirazione difficoltosa) e la diminuzione delle patologie secondarie come sanguinamenti, bruciature o irritazioni labiali.
Le reazioni? Stefano Cavedagna (europarlamentare FdI) ha annunciato una denuncia per «istigazione al consumo e allo spaccio di droghe». Marco Lisei (senatore FdI) ha definito l’iniziativa una scelta ideologica che «tiene i tossicodipendenti nella gabbia della droga». L’immancabile vicepremier Matteo Salvini ha definito l’operazione una «follia» e una «spesa dei contribuenti per incentivare l’uso di droga». Matilde Madrid – assessora bolognese al welfare responsabile della proposta – difende l’iniziativa, sostenendo che si fonda su basi scientifiche, come analoghe strategie di riduzione del danno, e che mira concretamente alla salute delle persone più marginali. Ma nessun commento è arrivato sul merito, solo frasi fatte buttate lì per solleticare gli istinti dell’elettorato facendo leva su pregiudizi reazionari. Dall’altro lato l’Associazione Luca Coscioni, da sempre molto attenta a queste tematiche, ha lodato Bologna per aver messo in pratica una politica di riduzione del danno riconosciuta tra i Livelli essenziali di assistenza (LEA), auspicando che l’esperimento venga replicato in altre città.
D’altra parte la misura bolognese si appoggia su una teoria che è portata avanti in molti Paesi europei da decenni perché ritenuta più efficace del proibizionismo: la riduzione del danno.
L’approccio della riduzione del danno è una strategia di sanità pubblica che parte da un presupposto realistico: alcune persone useranno sostanze comunque, anche se sono illegali, e l’obiettivo non può essere solo quello di “eliminare” il consumo, ma di ridurre i rischi immediati e a lungo termine per la salute individuale e collettiva. È stato adottato in vari paesi dagli anni ’80 e ’90 (soprattutto in risposta all’epidemia di HIV) e il fatto che in Italia faccia parte dei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), significa che è un approccio riconosciuto come un diritto alla salute. Non solo, perché il tema della riduzione del danno sia stato inserito per la prima volta l’anno scorso in una risoluzione Onu approvata durante la 67essima sessione dei lavori della Commission on Narcotics Drug.
Secondo chi difende la strategia della riduzione del danno contro quella del proibizionismo, la guerra alla droga (che è l’impostazione internazionale derivata dagli ultimi 70 anni di proibizionismo sfrenato) anche se viene presentata come una battaglia contro il narcotraffico è una battaglia indirizzata essenzialmente contro chi la droga la consuma: non tocca gli enormi monopoli che mafie e criminali hanno sulla gestione degli stupefacenti e non si occupa dei cittadini che li assumono, se non per mandarli in galera pensando così di risolvere un problema che in realtà si autoalimenta in un circolo vizioso. Miliardi di euro spesi per controlli e repressione in quello che si è trasformato in un corto circuito sociale: al consumo di stupefacenti la risposta è la prigione, mentre la droga circola come in ogni società umana dall’alba dei tempi, i criminali guadagnano miliardi, e spendiamo soldi pubblici per inasprire i controlli e mandare semplici consumatori in galere sempre più sovraffollate. A giugno 2025 i dati raccontano di oltre 62mila detenuti nelle carceri italiane, a fronte di 51mila posti: il tasso di sovraffollamento è del 134,3%.
La maggioranza dei Paesi Onu, da anni, chiede di mettere fine a questa ideologia che venne imposta a partire dagli anni ’50 dagli Stati Uniti, optando per le depenalizzazioni per le droghe leggere e per approcci di riduzione del danno per quelle pesanti. Nel 2022 un lungo documento firmato dagli esperti dell’Onu nei diritti umani chiese la fine della guerra alla droga e di passare dalla repressione ai diritti. Nel settembre 2023 l’Alto Commissariato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite (OHCHR) è tornato sull’argomento pubblicando un report in cui mette in evidenza innanzitutto che la guerra alla droga – lanciata in Usa dal Nixon nel 1971 – è diventata innanzitutto una guerra contro le persone che la utilizzano. La raccomandazione degli esperti dell’Onu è dunque quella di «adottare alternative alla criminalizzazione, alla tolleranza zero e all’eliminazione delle droghe, prendendo in considerazione la depenalizzazione dell’uso e una regolamentazione responsabile, per eliminare i profitti del traffico illegale, della criminalità e della violenza».
La misura presa dal Comune di Bologna, piaccia o meno, si inserisce in questa cornice e quindi non centra nulla con «l’incentivare il consumo di droga», a meno che non si creda al fatto che le persone inizieranno o smetteranno di utilizzare il crack a seconda che i servizi comunali mettano a disposizione o meno delle pipe sterili per non infettarsi.
Israele ha bombardato la capitale dello Yemen
L’aviazione israeliana ha condotto un massiccio bombardamento aereo contro la capitale dello Yemen, Sana’a. In totale, sono stati scagliati dieci attacchi aerei; le navi da guerra israeliane avrebbero partecipato ai bombardamenti. L’attacco è avvenuto in contemporanea con un discorso del leader del movimento Ansar Allah, meglio noto con il nome di Houthi. Da quanto riporta l’esercito israeliano, gli attacchi avevano l’obiettivo di uccidere i vertici di politici e militari di Ansar Allah, radunati in uno dei luoghi colpiti con missili di precisione; per ora non sono state segnalate vittime. I media arabi riportano una affermazione del leader del movimento, che avrebbe affermato che l’operazione israeliana è stata «un fallimento».
No al “neocolonialismo scientifico”: Il Burkina Faso vieta le zanzare OGM di Bill Gates
Con una decisione che ha fatto rumore ben oltre i confini nazionali, il governo del Burkina Faso ha ordinato la sospensione definitiva del progetto Target Malaria, iniziativa di ricerca sostenuta dalla Fondazione Gates e da Open Philanthropy e guidata dall’Imperial College di Londra, che prevedeva il rilascio di zanzare geneticamente modificate per combattere la malaria. Il governo di Ouagadougou ha ordinato la chiusura dei laboratori e la distruzione dei campioni, trasformando un atto tecnico in un gesto dal forte valore simbolico e geopolitico: riaffermare la propria sovranità nazionale e opporsi a quello che viene definito nel Paese come una forma di «neocolonialismo scientifico», in cui le popolazioni vulnerabili diventano cavie di tecnologie ad alto rischio. Le preoccupazioni relative all’influenza coloniale sono un tema ricorrente del governo di Ibrahim Traore: il leader panafricano, che ha preso il potere con il colpo di Stato del 30 settembre 2022, si è allontanato dall’Occidente, cercando di limitare sempre più il coinvolgimento straniero nella politica interna.
Attivo in Burkina Faso dal 2012, Target Malaria si proponeva di ridurre la trasmissione della malaria intervenendo direttamente sui vettori della malattia: le zanzare Anopheles. La strategia più controversa è quella del gene drive, una tecnica di ingegneria genetica basata su CRISPR che forza la trasmissione di un tratto genetico in tutta la popolazione naturale, fino a renderlo dominante. In questo caso, il tratto serve a produrre solo maschi o a sterilizzare le femmine, con l’intento di ridurre drasticamente la popolazione delle zanzare.
Secondo la sociologa e accademica canadese Linsey McGoey, Target Malaria «è un esempio emblematico del tecnoscientismo filantropico che traveste da bene comune l’interesse privato. Dietro la retorica della lotta alla malaria, si nasconde la volontà di imporre tecnologie radicali come il gene drive, con effetti potenzialmente irreversibili sugli ecosistemi e sulle comunità locali. Le popolazioni africane, spesso escluse dal dibattito, subiscono così le scelte di attori globali che dettano l’agenda della salute pubblica». Si tratta, infatti, di soluzione radicale, che promette di colpire alla radice la malattia, ma che suscita preoccupazioni per i suoi effetti ecologici imprevedibili e difficilmente controllabili sugli ecosistemi e solleva dilemmi etici su chi abbia la legittimità di decidere sul suo impiego, soprattutto quando gli esperimenti si svolgono in comunità vulnerabili del Sud globale.
Già nel 2016 la National Academies of Sciences degli Stati Uniti aveva avvertito che gli organismi gene-drive non erano pronti per rilasci ambientali. L’OMS nel 2021 aveva raccomandato prudenza e un coinvolgimento reale delle comunità. Nel 2024 la Convenzione sulla Diversità Biologica aveva auspicato valutazioni più ampie su impatto socio-economico, culturale ed etico, soprattutto sulle comunità locali – in linea con il principio di precauzione e decisioni precedenti della COP e del Protocollo di Cartagena. Da segnalare anche i timori che la tecnologia possa essere sfruttata in futuro a fini commerciali (ad esempio, se sviluppata per controllare i parassiti agricoli) o persino come arma biologica.
La scelta del Burkina Faso non è solo scientifica ma geopolitica. Da un lato, c’è l’urgenza sanitaria: la malaria uccide ancora quasi 600.000 persone l’anno, perlopiù bambini africani. Dall’altro, c’è la volontà di non trasformarsi in “cavie” per la ricerca occidentale. Gli oppositori del Target Malaria sottolineano che i ceppi di zanzare modificate provengono da laboratori europei e che dietro il progetto ci sono fondazioni miliardarie occidentali che impongono la propria visione tecnologica senza un reale processo democratico locale. Ali Tapsoba, attivista della coalizione CVAB (Coalition pour le Suivi des Activités Biotechnologiques), ha parlato di tecnologia «altamente controversa, imprevedibile e potenzialmente irreversibile». Un capitolo spesso ignorato, ma essenziale per interpretare le ragioni dello stop a Target Malaria, è quello della finanziarizzazione della malaria, un fenomeno esposto con lucidità dall’African Centre for Biodiversity. In sintesi, il documento denuncia come la malaria – da emergenza sanitaria – si sia trasformata in opportunità finanziaria, sovvertendo il senso stesso della lotta alla malattia. Il Burkina Faso funge da “laboratorio vivente” in cui fondazioni cosiddette filantropiche, come quella di Gates, insieme a partenariati pubblico-privati, investono in tecnologie brevettate (vaccini, insetticidi, zanzare GM/gene-drive) attraverso modelli di sviluppo che privilegiano i profitti da royalties piuttosto che il rafforzamento dei sistemi sanitari nazionali. L’1% soltanto degli investimenti globali arriva alle istituzioni di ricerca locali, mentre il resto resta nelle sedi dei donatori. In questo schema, lo scenario è chiaro: i “risultati” più rischiosi di tecnologie sperimentali vengono testati sul continente africano e i danni – se ci saranno – peseranno sulle sue popolazioni, non su chi le ha finanziate o proposte.
Il rifiuto del Burkina Faso a Target Malaria non rappresenta solo la chiusura di un progetto scientifico, ma la dichiarazione di una volontà politica: sottrarsi al ruolo di laboratorio del mondo e rivendicare il diritto a decidere sul proprio destino. È un segnale di rottura verso il modello in cui l’Africa viene trattata come terreno di sperimentazione per i governi e le aziende occidentali. La salute pubblica del continente, secondo la nuova rotta intrapresa da Ouagadougou, non può essere subordinata agli interessi di fondazioni miliardarie, ma deve nascere da scelte condivise con le comunità locali, in nome della sovranità e dell’autodeterminazione. Il messaggio è chiaro: il futuro africano non sarà costruito da tecnologie imposte dall’alto, ma da soluzioni radicate nella conoscenza, nella cultura e nelle priorità delle popolazioni stesse.
L’Afghanistan convoca l’ambasciatore pakistano
Il governo afghano ha convocato l’ambasciatore pakistano, accusando Islamabad di aver violato il proprio spazio aereo per condurre un attacco con droni. L’attacco avrebbe colpito le province di Nangarhar e di Khowst, distruggendo alcune abitazioni, uccidendo tre persone e ferendone altre sette. Le autorità pakistane non hanno risposto alle richieste di commenti. Gli attacchi arrivano in un momento teso per i due Paesi, con il Pakistan che accusa i talebani di fornire rifugio a milizie armate che operano nel proprio territorio. L’Afghanistan nega le accuse. Recentemente, i rappresentanti dei due Paesi si sono incontrati con la mediazione della Cina per rilanciare la lotta al terrorismo.







