giovedì 13 Novembre 2025
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Scioperi, proteste e disobbedienza: dal 10 settembre i francesi promettono di “bloccare tutto”

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Mentre il governo Bayrou si avvicina a quella che sembra una inesorabile caduta, il popolo francese ha lanciato una manifestazione per bloccare il Paese. La campagna, dal nome “bloquons tout”, è stata promossa mesi fa, e confluirà in una mobilitazione il prossimo mercoledì 10 settembre. Essa intende mostrare «l’indignazione» del popolo francese, e «riprendere il controllo dei luoghi pubblici». Coi mesi, il movimento si è esteso sempre di più, ed è arrivato a contestare la legge finanziaria per il 2026, che prevede di congelare le spese sociali. Il piano per mercoledì è suggerito dallo stesso nome dell’iniziativa: bloccare tutto. I cittadini invaderanno strade, ferrovie, aeroporti e incroci, sciopereranno da lavoro, e colpiranno i supermercati e le fabbriche della grande industria. Il movimento, però, non sembra volersi limitare alla prossima manifestazione, bensì proporre un modello di Francia alternativo, lontano dalle tradizionali correnti della politica, che ponga al centro le esigenze dei cittadini.

Le manifestazioni in programma per il prossimo mercoledì si muovono all’insegna del motto “Boicottaggio, Disobbedienza e Solidarietà” (in quello che sembra un richiamo al movimento Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni contro lo Stato di Israele), e vogliono, come suggerisce il nome della campagna, bloccare tutto. Per la giornata sono previsti uno sciopero generale e picchetti sul luogo di lavoro, l’invasione di strade, periferie, e piazze in tutte le regioni del Paese, assalti a centri della grande distribuzione e stabilimenti per raffinare il petrolio. Il movimento vuole boicottare i pedaggi autostradali, l’uso di carte prepagate, di credito e di debito, e intasare gli sportelli di prelievo bancari.

Il movimento del 10 settembre ha trovato l’appoggio della sinistra de La France Insoumise, di Sud Rail (il sindacato dei ferrovieri) e dei sindacati SUD e CGT. Esso è riuscito a raggiungere i canali tradizionali durante il mese di agosto, dopo la creazione di pagine sulle diverse piattaforme social; in queste, il movimento concentra le proprie critiche sulla manovra finanziaria del premier Bayrou. La misura prevede tagli generalizzati e manovre specifiche, che vanno dalla cancellazione di giorni festivi al congelamento delle spese sociali, fino all’aumento delle franchigie mediche. Nel corso dell’ultima settimana il movimento è cresciuto esponenzialmente e sono state organizzate centinaia di assemblee popolari in oltre 100 province francesi a cui hanno partecipato decine di migliaia di persone. In totale, a oggi, sono stati organizzati 528 punti di raccolta dove i cittadini si raduneranno il prossimo mercoledì.

Nonostante tutto suggerisca che la campagna si muova per contestare il premier Bayrou e la sua manovra finanziaria, sembra che la campagna bloquons tout sia nata prima della proposta di bilancio dell’esecutivo (arrivata a luglio), precisamente il 21 maggio. A lanciarla sarebbe stato il collettivo Les Essentiels, rappresentato da un uomo di nome Julien Marissiaux. Marissiaux è comparso davanti a una emittente francese senza mostrare il suo volto, sostenendo di non volere «personalizzare» la protesta, che intende piuttosto come qualcosa di condiviso; precisamente, sostiene Marissiaux, «dai 68 milioni di francesi che sono tuttiessenziali” [ndr. da qui il nome del collettivo] al Paese». In questi mesi, i giornalisti francesi hanno provato a intervistarlo in quanto portavoce del gruppo, ma lui ha proposto di rispondere alle domande attraverso dirette sui social, o comunque condividendole con l’intero collettivo per fornire una risposta univoca e condivisa.

Già dalle parole e dalle pratiche utilizzate da Marissiaux, risulta chiara l’intenzione del movimento di proporre una alternativa alla politica e alle forme di comunicazione tradizionali. A maggio, Les Essentiels contestava in generale la politica francese, chiedendo le dimissioni di Macron. Con i mesi, le rivendicazioni si sono fatte più ampie, e nelle discussioni tra membri è stata stilata una bozza di una ipotetica nuova Costituzione francese, in cui tra le varie cose, viene sancito che «l’accesso all’acqua, all’energia, al cibo e all’elettricità è un diritto garantito», e viene data maggiore centralità ai cittadini, specialmente mediante la promozione dello strumento referendario. Il collettivo ha discusso anche di misure economiche e finanziarie. In generale, il movimento del 10 settembre sembra non limitarsi alla data della protesta, ma pare volersi spingere ben oltre fino a proporre un modello di Francia diverso.

Anthropic paga 1,5 miliardi agli scrittori, ma il suo modello resta intoccabile

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La class action contro Anthropic, società specializzata in intelligenza artificiale generativa, sembra avviarsi alla conclusione: le parti hanno trovato un accordo che prevede un risarcimento medio di 3.000 dollari per ciascuno dei circa 500.000 libri utilizzati senza autorizzazione per addestrare i suoi modelli. La cifra complessiva ammonta ad almeno 1,5 miliardi di dollari, ma è destinata a crescere in base al numero di richieste presentate. Un apparente successo per il copyright che, tuttavia, a ben vedere, tratteggia Anthropic come reale vincitrice.

La battaglia legale, una delle tante mosse negli ultimi anni contro aziende di IA accusate di sfruttare senza permesso opere protette da diritto d’autore, è stata avviata nell’agosto 2024 dagli scrittori Andrea Bartz, Charles Graeber e Kirk Wallace Johnson, i quali accusano Anthropic di aver “costruito un business multimiliardario rubando centinaia di migliaia di libri sotto copyright”. Il riferimento è a molteplici archivi di libri digitalizzati che Anthropic avrebbe piratato per ottimizzare la raccolta massiva dei dati di addestramento per la sua intelligenza artificiale, Claude.

Oggi, lunedì 8 settembre, il giudice distrettuale di San Francisco William Alsup esaminerà i termini dell’accordo per renderlo effettivo. Nel frattempo, lo studio legale dei ricorrenti si è mobilitato per coinvolgere altri autori e detentori di diritti, così che possano accodarsi al risarcimento. Durante il processo, il giudice ha infatti ritenuto che Anthropic abbia scaricato oltre sette milioni di libri digitalizzati da fonti illecite – circa cinque milioni da LibGen e due milioni da PiLiMi – il che amplia enormemente il bacino di potenziali vittime. L’intesa prevede inoltre che entro 30 giorni l’azienda elimini i file ottenuti illegalmente. “Questo accordo invia un messaggio forte sia alle aziende di intelligenza artificiale che ai creatori, ribadendo che attingere a siti pirata è sbagliato”, hanno dichiarato gli avvocati degli autori, celebrando l’intesa come il più grande risarcimento nella storia del diritto d’autore.

Eppure, l’impatto reale della vittoria appare ridimensionato se visto nel suo complesso. Già lo scorso giugno, in relazione a questa stessa causa, il giudice Alsup aveva stabilito un principio cruciale per l’intero settore: le aziende possono utilizzare libri per addestrare i propri modelli, fa parte del fair use purché questi siano stati acquistati legalmente. In sostanza, basta acquistarli legalmente, al che possono essere integrati all’interno dei processi di addestramento. Di fronte al rischio di vedersi condannata per aver scaricato file illeciti, Anthropic ha scelto di chiudere la partita con un risarcimento consistente.

Se si considera la cifra minima pattuita rispetto al numero stimato di libri piratati, l’azienda finirà con il pagare circa 214 dollari a volume, ben oltre il prezzo di copertina della maggior parte dei titoli in commercio. Oltre a non riconoscere legalmente alcuna malefatta, l’oneroso accordo prevede però un ulteriore vantaggio: l’azienda dovrà eliminare dai propri server gli archivi dei libri recuperati illegalmente, tuttavia non sarà obbligata a rimuovere i dati corrispondenti che sono già stati integrati in Claude, operazione che richiederebbe interventi radicali, se non addirittura l’eliminazione del modello stesso. 

In definitiva, questa class action segna un punto importante per gli autori, ma non ostacola la traiettoria del settore tecnologico, il quale viene anzi legittimato a usare testi acquistati salvandosi dalle accuse di potenziale plagio. Non sorprende quindi che, la settimana scorsa, nonostante i guai legali, la valutazione di Anthropic sia cresciuta, raggiungendo i 183 miliardi di dollari.

Spagna: Sanchez annuncia “azioni immediate” contro Israele per il genocidio a Gaza

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Il governo spagnolo, guidato da Pedro Sánchez, ha varato oggi, 8 settembre 2025, un pacchetto di nove misure immediate volte a contrastare il “genocidio a Gaza”. Le azioni, che vanno dal consolidamento dell’embargo sulla vendita di armi a Israele alla sospensione di programmi di cooperazione, fino alla pressione su vari organi internazionali perchè siano realizzate sanzioni contro Tel Aviv, giungono in un clima di forte pressione politica per Sanchez – che ha cominciato il proprio discorso ricordando la persecuzione storica degli ebrei e sottolineando il diritto di Israele a difendersi. I collettivi spagnoli a sostegno della Palestina hanno attribuito la mossa del governo alla «forte pressione sociale organizzata», sottolineando l’importanza di continuare a esercitare tale pressione anche in futuro.

Le misure annunciate da Sanchez includono il consolidamento giuridico dell’embargo sulle vendite di armi a Israele; il divieto di accesso nei porti e nello spazio aereo spagnoli a navi e aerei che trasportino equipaggiamenti destinati al sostegno militare di Tel Aviv; il divieto d’ingresso in Spagna per funzionari e militari israeliani coinvolti direttamente nelle operazioni a Gaza; un incremento sostanziale degli aiuti umanitari alla popolazione palestinese; la sospensione di programmi di cooperazione e ricerca con aziende e istituzioni israeliane legate al settore bellico; la revoca di contratti di fornitura militare con imprese israeliane; la promozione, in sede ONU ed europea, di un embargo internazionale sulle armi destinate a Israele; il sostegno attivo alle cause legali aperte presso la Corte Internazionale di Giustizia contro lo Stato ebraico; e, infine, una campagna diplomatica volta a isolare Israele nei principali consessi internazionali, inclusi eventi culturali e sportivi.

La scelta segna di certo un passo politico fino a oggi inedito per un Paese occidentale nel contesto dell’attuale conflitto israelo-palestinese. Si affianca ad altri interventi in chiave legale e diplomatica, con l’obiettivo dichiarato di esercitare pressione sul governo di Tel Aviv e mitigare la crisi umanitaria nella Striscia di Gaza. Già negli scorsi mesi, la Spagna aveva assunto iniziative ambiziose e coerenti con questa direzione. A luglio 2024, Madrid si era unita alla causa intentata dal Sudafrica presso la Corte Internazionale di Giustizia contro Israele, considerandola colpevole di genocidio nei confronti dei palestinesi di Gaza. In dicembre 2024, gli Stati Uniti – attraverso la Commissione Federale Marittima –avevano avviato un’indagine preliminare contro la Spagna per la decisione di negare l’uso dei porti iberici a navi sospettate di trasportare armamenti a Israele. Gli USA minacciavano misure quali multe salate o interdizione dalle rotte marittime americane. Nel corso del 2025, Madrid ha continuato a mantenere una politica di dissenso. Ad aprile, ha annullato unilateralmente un contratto di fornitura di proiettili per la Guardia Civil da parte di un’azienda israeliana, Imi Systems, per un valore di 6,6 milioni di euro. La rescissione è stata motivata da pressioni interne e da una netta contraddizione con le posizioni del governo. Pochi giorni dopo, Spagna, Slovenia e Islanda – attraverso riflessi su emittenti pubbliche come RTVE – si erano schierate formalmente contro la partecipazione di Israele all’Eurovision Song Contest. L’iniziativa è stata motivata dall’obbligo di denunciare violazioni della legge internazionale e segna un esempio evidente di boicottaggio culturale. Nel giugno 2025, Sánchez aveva inoltre convocato l’incaricato d’affari israeliano a Madrid per protestare contro un comunicato dell’ambasciata israeliana ritenuto “inaccettabile”. In sede di Consiglio europeo, aveva chiesto la sospensione dell’accordo di associazione UE-Israele, invocando le palesi violazioni dei diritti umani da parte di Israele.

Il pacchetto annunciato da Sánchez non rappresenta un episodio isolato, ma il punto di arrivo di una strategia politica perseguita da mesi. L’esecutivo iberico ha alternato atti concreti di disimpegno militare e sanzioni economiche a iniziative legali e proteste diplomatiche, costruendo un fronte coerente di contrapposizione a Israele. Questa linea ha però alimentato tensioni: sul piano interno, con pressioni e divisioni nella maggioranza di centrosinistra; sul piano esterno, con reazioni dure da parte di Tel Aviv e dei tradizionali alleati occidentali. Tuttavia, le misure non sono esenti da un certo numero di contraddizioni: come sottolinea il collettivo Acampadaxpalestina di Madrid, per esempio, il divieto di transito di carburante a Israele nei porti spagnoli non comprende quello di altri materiali strategici, come per esempio l’acciaio, diretti anch’essi verso Tel Aviv, mentre il divieto di importazione di prodotti realizzati in Israele non assicura sanzioni a tutte le aziende che collaborano con il Paese. Inoltre, nonostante il governo spagnolo abbia dichiarato di aver interrotto decine di contratti di compravendita di armi con lo Stato israeliano, le inchieste giornalistiche di Olga Rodriguez hanno dimostrato che il Paese ha stipulato più di 40 contratti di questo genere con Tel Aviv dopo il 7 ottobre 2023. Tuttavia, va detto, il Paese è uno dei pochissimi in Europa che si è speso in azioni concrete, mentre dall’UE non arrivano nulla più di dichiarazioni generiche.

Massacri a Gaza, dall’alba uccisi altri 32 palestinesi nella Striscia

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Proseguono senza sosta gli attacchi dell’esercito israeliano a Gaza. Dall’alba, le IDF hanno ucciso almeno 32 persone e distrutto un altro grattacielo a Gaza City, portando ad almeno 50 il numero di edifici rasi al suolo durante la campagna per conquistare il più grande centro urbano della Striscia. Il bilancio complessivo delle vittime dei massacri è così salito a 64.522, mentre i feriti sono 163.096. Nelle ultime 24 ore, gli ospedali della Striscia di Gaza hanno registrato sei nuovi decessi dovuti alla carestia e alla malnutrizione, mentre sono state uccise altre 14 persone mentre chiedevano aiuti. Il numero totale di richiedenti aiuti uccisi è ora salito a 2.430 unità.

American Bitcoin: cos’è la criptovaluta lanciata dalla famiglia Trump

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Alla sua prima giornata di quotazione sul Nasdaq, la società American Bitcoin (ticker ABTC), creata da Eric Trump e Donald Trump Jr., ha visto il trading sospeso per ben cinque volte a causa di brusche fluttuazioni di prezzo. Le azioni sono schizzate fino a un +85%, raggiungendo circa 14 dollari per azione, per poi ritirarsi intorno a 9,80 dollari al momento della ripresa delle contrattazioni. Questo debutto estremamente volatile ha spinto la Borsa a fermare il processo di compravendita diverse volte solo nella prima ora di scambi. Al momento della chiusura, il titolo ha comunque chiuso con un guadagno significativo di circa il 16-17%, segnalando tanto entusiasmo quanto fragilità strutturale. Questa successione di stop-trade è sintomatica: da un lato l’alto mostra l’interesse speculativo e l’attenzione di Wall Street verso il settore crypto in maturazione, dall’altro l’instabilità di un asset che è insieme simbolo politico e prodotto finanziario. Il debutto caotico ha acceso dubbi sulla solidità dell’iniziativa e sui rischi di speculazione, mentre la visibilità resta amplificata dal “marchio Trump”, che mantiene un fascino indiscutibile nei circuiti globali e tra certi investitori.

La nascita di American Bitcoin può essere fatta risalire alla primavera del 2025, come spin-off da attività nel settore delle infrastrutture digitali, ma le sue radici affondano in una serie di incontri informali e articolati. Tutto è cominciato intorno a fine 2024, quando Eric Trump e alcuni dirigenti di alto profilo del settore energia e mining di Hut 8 si ritrovarono a bordo campo del Trump Golf Club di Jupiter, in Florida, a discutere del potenziale di un’alleanza per il mining di bitcoin. Quel confronto informale divenne l’incubatore di una nuova realtà: una società creata per trasformare visione e know-how in un progetto minerario concreto, fondata formalmente il 1º aprile. La struttura del gruppo riflette un preciso quadro societario: l’80% è controllato da Hut 8, di cui il CEO Asher Genoot è il maggiore investitore, mentre il restante 20% è detenuto dalla famiglia Trump e dai precedenti soci di American Data Centers, la loro precedente impresa tecnologica. Eric Trump, oltre che cofondatore è il responsabile della strategia aziendale ed è diventato miliardario dopo che le azioni di American Bitcoin, sono schizzate alle stelle al debutto in Borsa. Il suo ruolo consiste, tra l’altro, nel trasformare capitali e notorietà in opportunità d’investimento, grazie sia a una rete di contatti globali, sia all’appeal narrativo legato al progetto e al cognome “Trump”.

La struttura operativa non riguarda solo il capitale: sin dal lancio, l’azienda ha puntato su tre linee di azione integrate. La prima sfrutta gli impianti di mining, situati in zone con energia a buon costo, per produrre bitcoin a costi inferiori rispetto all’acquisto sul mercato. L’impegno economico è, infatti, enorme: oltre alle infrastrutture, l’azienda deve sostenere costi operativi elevati per garantire efficienza e sicurezza. A maggio, il presidente ha firmato un ordine esecutivo per promuovere l’espansione dell’energia nucleare negli Stati Uniti, il che rappresenterebbe una agevolazione per i centri dati di ogni tipo. In parallelo, la società usa i profitti per accumulare una riserva di bitcoin considerata patrimonio strategico. In questo modo, non si limita a produrre criptovaluta, ma si propone anche come custode di un asset percepito come “oro digitale“, diversificando i ricavi tra estrazione e apprezzamento di mercato. Infine, pianifica un’espansione che tocchi settori legati all’ecosistema bitcoin, mirando a diventare una piattaforma solida e strutturata. Il modello di business poggia su solide fondamenta industriali: impianti aperti sul territorio americano e canadese, con capacità energetiche che superano il gigawatt, e un parco macchine all’avanguardia. American Bitcoin ha, infatti, ereditato una vasta flotta di dispositivi ASIC (Application Specific Integrated Circuit, macchine essenziali per estrarre bitcoin e criptovalute), oltre a diritti contrattuali per ulteriori decine di migliaia di macchine in arrivo. Questo conferisce al gruppo una posizione operativa imponente, con un potenziale di generazione significativamente superiore a molte aziende pure-play, che si concentrano su un unico settore, evitando la diversificazione. Se nel primo trimestre di attività, aveva già prodotto 215 bitcoin e raccolto capitali importanti, in un documento depositato presso la SEC nel settembre 2025, la società ha dichiarato di possedere 2.443 bitcoin, per un valore di circa 269 milioni di dollari.

Questa impostazione differenzia American Bitcoin da meme coin e stablecoin “politici” (come quelli legati al nome Trump o al governo argentino di Javier Milei), che si reggono sull’hype, ossia sull’eccitazione e sull’interesse speculativo rapido intorno all’attività di mining: queste esperienze hanno mostrato come i cosiddetti meme coin siano spesso assimilabili a oggetti digitali da collezione, scarsamente regolamentati, più utili a operazioni di immagine e a dinamiche speculative che a costruire ecosistemi economici solidi. In American Bitcoin, invece, c’è un approccio industriale fatto di impianti tecnologici, consumo energetico, personale qualificato, logistica e un’infrastruttura che punta a consolidarsi tra i grandi operatori globali, seppur esposta alla volatilità tipica del settore. Sebbene Eric Trump abbia respinto come “folli” le accuse sul conflitto di interessi, la dimensione politica resta centrale. Insieme alle precedenti azioni crypto dei Trump, che includono un meme coin, una stablecoin e un investimento di tesoreria in bitcoin di 2,5 miliardi di dollari per Trump Media & Technology Group, American Bitcoin sta contribuendo a consolidare ulteriormente l’influenza della famiglia su questo ecosistema finanziario in crescita e sempre più legato a istituzioni e governi. La società si inserisce in questa strategia multilivello, dove solidità operativa e visibilità politica si intrecciano. Se il mining rappresenta la parte “marginale” e meno glamour delle criptovalute, il legame con la presidenza lo trasforma in un progetto simbolico. La differenza con i token effimeri è evidente, ma il confine tra impresa e propaganda resta labile. È in questa zona grigia che si gioca il futuro di American Bitcoin: un progetto che si presenta come industriale e operativo, ma che porta con sé le stesse dinamiche di volatilità, speculazione politica e spettacolarizzazione che hanno contraddistinto – suppure su basi diverse – l’epoca delle monete meme.

Regno Unito: 900 arresti tra i manifestanti in supporto di Palestine Action

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La polizia britannica ha annunciato di aver arrestato 890 persone durante una manifestazione a sostegno di Palestine Action, gruppo di attivisti che si batte per i diritti del popolo palestinese portando avanti azioni di sabotaggio messo al bando dal governo britannico. I manifestanti sono stati arrestati in seguito a una protesta tenutasi sabato nei pressi del parlamento del Paese, nel centro di Londra. Si tratta del numero più alto di arresti in una singola protesta nel Regno Unito. La Gran Bretagna ha messo al bando Palestine Action lo scorso luglio, dichiarandola una organizzazione terrorista. La decisione dell’esecutivo britannico è arrivata dopo che alcuni attivisti hanno fatto irruzione in una base della Royal Air Force danneggiando aerei militari.

L’evento, organizzato dal gruppo Defend Our Jury, ha visto circa 1.500 persone radunarsi in Parliament Square, a Westminster, nella cornice di una protesta pacifica ma deliberatamente sfidante verso il divieto imposto lo scorso luglio. I manifestanti si sono seduti tenendo in mano cartelli con la scritta «Mi oppongo al genocidio, sostengo Palestine Action». Alle 13:00, ora locale, hanno alzato i loro cartelli in un gesto simbolico e coordinato. La risposta della polizia è stata immediata: gli agenti hanno iniziato gli arresti poco dopo, con passanti che gridavano «Vergognatevi» e «Met Police, scegliete da che parte stare, giustizia o genocidio». Nello specifico, secondo la Metropolitan Police, 857 arresti sono stati effettuati per aver espresso sostegno a un’organizzazione proibita, reato punibile fino a 14 anni di carcere. Altri 33 riguardano differenti violazioni, tra cui 17 per aggressioni a pubblici ufficiali. Gli organizzatori hanno respinto le accuse definendole «francamente ridicole», ribadendo a gran voce che la protesta è stata pacifica e che a intraprendere condotte aggressive siano stati invece i membri della polizia. Molti degli arrestati, hanno sottolineato, sono pensionati e attivisti non violenti. Defend Our Juries ha denunciato una repressione sproporzionata e l’impossibilità pratica di applicare il divieto, parlando di «spreco di energie e risorse pubbliche».

A luglio, il governo laburista di Keir Starmer, su iniziativa dell’allora ministra degli Interni Yvette Cooper, ha vietato Palestine Action ai sensi del Terrorism Act. La decisione è seguita all’irruzione di alcuni attivisti in una base della Royal Air Force (RAF), dove hanno danneggiato due aerei cisterna imbrattandoli di vernice rossa, in segno di protesta contro il sostegno militare del Regno Unito a Israele. Palestine Action, nato nel 2020, ha spesso preso di mira aziende del settore difesa, tra cui Elbit Systems UK, accusata di legami diretti con l’esercito israeliano. Gli attivisti colpiscono anche aziende complici, come Leonardo, Thales, Teledyne e grandi gruppi finanziari come Barclays e JP Morgan, attraverso blocchi, occupazioni, sabotaggi e danneggiamenti. Le loro azioni hanno avuto un impatto concreto: diverse aziende hanno interrotto i rapporti con Elbit, fabbriche sono state chiuse o vendute, e importanti contratti – come il progetto Watchkeeper da 2,1 miliardi di sterline – sono stati cancellati. Palestine Action, movimento che si sta ora espandendo anche fuori dal Regno Unito, ha ottenuto risultati senza ricorrere a petizioni o appelli politici, ma puntando sull’interruzione diretta della produzione bellica.

Gli arresti degli attivisti si susseguono dal giorno della messa al bando del movimento. Lo scorso 9 agosto, erano state ben 466 le persone fermate dalla polizia nel quadro di un’ondata di proteste a Londra, segnando – almeno fino a sabato scorso, in cui la quota è stata sostanzialmente doppiata – un nuovo record per il numero più alto di arresti mai effettuati nella storia dalla polizia metropolitana in una singola protesta. Le autorità sostengono che le azioni del gruppo abbiano provocato danni milionari e compromesso la sicurezza nazionale. Anche il nuovo ministro dell’Interno, Shabana Mahmood, ha difeso la linea dura affermando che «sostenere la Palestina e sostenere un gruppo terroristico proscritto non sono la stessa cosa». Tuttavia, i leader del movimento hanno presentato ricorso contro la decisione del governo, ottenendo una prima sentenza favorevole dall’Alta Corte: il governo ha impugnato e un’udienza è prevista per il prossimo 25 settembre.

Attacco su un autobus a Gerusalemme: almeno 7 morti

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Questa mattina a Gerusalemme si è verificato un attacco su un bus nei pressi dell’incrocio Ramot, a nord della Città Santa. Da quanto riportano i media ebraici, gli autori dell’attacco, due persone armate, sarebbero arrivati in auto da Qatanah, nell’area di Ramallah. I due sarebbero saliti sul bus e avrebbero iniziato a chiedere i documenti ai passeggeri, identificandosi come controllori; uno di loro avrebbe poi aperto il fuoco, ferendo 11 persone e uccidendone almeno cinque. I due autori dell’attacco sono stati uccisi da un soldato e da un civile. In seguito all’attacco, le autorità hanno blindato Gerusalemme, mentre il ministro della Sicurezza Ben Gvir si è diretto sul posto.

Ucraina: imponente attacco aereo russo, in fiamme il palazzo del governo

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Ieri, domenica 7 settembre la Russia ha lanciato quello che sta venendo descritto come uno dei più imponenti attacchi sull’Ucraina dall’inizio della guerra, colpendo anche la capitale Kiev. L’attacco, sostengono le fonti ucraine, avrebbe impiegato 810 droni e 13 missili, e ha colpito il centro, il sud e l’est del Paese; secondo quanto riporta la stampa ucraina avrebbe provocato 4 vittime, e decine di feriti. A Kiev, il palazzo del governo ha preso fuoco, ma non è chiaro se l’edificio sia stato preso di mira direttamente dalle forze russe; il Cremlino sostiene di non avere attaccato il palazzo e i medi ufficiali russi si sono limitati a riportare la notizia dell’incendio. In seguito all’attacco, il presidente ucraino Zelensky ha criticato duramente la Russia, sostenuto dai propri alleati occidentali, compresa la premier italiana Giorgia Meloni; il presidente degli Stati Uniti Trump, invece, è tornato a parlare di sanzioni, minacciando ritorsioni verso Mosca.

L’attacco di ieri è stato lanciato nella notte ed è durato circa sette ore. Secondo quanto riporta il presidente ucraino Zelensky, la Russia avrebbe utilizzato 13 missili, di cui 9 missili da crociera e 4 balistici, e parte dei droni avrebbe attraversato il confine tra Ucraina e Bielorussia. Il ministero della Difesa sostiene di avere intercettato 747 droni e 4 missili da crociera. In totale sono state colpite 37 località ucraine, capitale compresa. A Kiev, riportano le fonti ucraine, sarebbero stati colpiti 12 edifici residenziali, e l’artiglieria russa sarebbe arrivata anche a Piazza Maidan e presso l’edificio del gabinetto dei ministri, che ha preso fuoco; limitandosi a guardare le stesse fonti, non risulta chiaro quali obiettivi siano stati colpiti intenzionalmente e quali siano stati danneggiati dai detriti causati dai sistemi di difesa ucraini. L’Ucraina riporta anche che a Zaporizhia sarebbero state colpite 20 case e un asilo; a Kryvyj Rih, invece, sarebbero stati presi di mira dei magazzini. Sarebbero infine stati attaccati un grattacielo residenziale a Odessa, la città di Safonivka (nella regione di Sumy), quella di Kremenchuk (a Poltava), e la regione di Černihiv. In totale, l’attacco avrebbe causato 4 morti, tra cui un bambino e la madre, e 44 feriti. La Russia ha smentito di avere preso di mira edifici residenziali e il palazzo governativo di Kiev, affermando che gli unici obiettivi dell’attacco fossero di natura militare.

Con l’attacco di ieri, la già precaria situazione diplomatica ha fatto passi indietro. I leader europei hanno fatto fronte comune con Zelensky, che sostiene di avere parlato con il presidente francese Emmanuel Macron. In generale, la linea è quella di una generale condanna, contornata da accuse nei confronti della Russia di volere continuare la guerra e da una generale chiamata alle sanzioni. Anche gli Stati Uniti hanno discusso del tema delle sanzioni, con il Segretario del Tesoro Scott Bessent che ha detto che il Paese è pronto a inasprire le contromisure nei confronti della Russia. «Faremo crollare l’economia russa», ha detto Bessent, «ma serve che gli alleati europei ci seguano». Bessent ha suggerito l’idea di varare “sanzioni secondarie” nei confronti degli idrocarburi russi, ossia di colpire chi compra gas e petrolio da Mosca.

Torino, operaio muore cadendo dal cestello di una gru

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Tragedia sul lavoro questa mattina in via Genova a Torino, dove un operaio di 69 anni, di origini egiziane, ha perso la vita cadendo dal cestello di una gru che operava a circa dodici metri d’altezza. L’incidente è avvenuto intorno alle 7.30, per cause ancora da chiarire. Un altro lavoratore è rimasto ferito. Sul posto sono intervenuti i sanitari del 118 Azienda Zero, i carabinieri della stazione Lingotto e gli ispettori dello Spresal. Nella medesima via, il 19 dicembre 2021, tre operai avevano perso la vita in un crollo analogo, precipitando da 40 metri mentre stavano assemblando una torre edile con una gru.

Bruxelles: decine di migliaia di persone in piazza per la Palestina

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Decine di migliaia di persone sono scese in piazza per manifestare a sostegno del popolo palestinese e chiedere all’UE di prendere misure contro Israele. Le forze dell’ordine parlano di 70mila manifestanti, ma secondo gli organizzatori la manifestazione avrebbe visto la partecipazione di 110mila persone. Tra i presenti, diverse ONG e organizzazioni umanitarie. Nel corso del corteo, i dimostranti hanno tracciato una linea rossa per simboleggiare che Israele ha superato il limite.