L’Indipendente torna questo mese con il secondo numero del nuovo mensile: 80 pagine di contenuti esclusivi in una rivista rilegata da leggere e conservare. Inchieste che svelano i lati oscuri del potere e dell’industria, guide per un consumo critico, reportage e approfondimenti per comprendere il mondo che ci circonda. Il mensile de L’Indipendente ha come sottotitolo i tre pilastri che ne definiscono la cifra giornalistica: inchieste, consumo critico, beni comuni. Ogni parola è stata scelta con cura, racchiudendo ciò che vogliamo fare e che, a differenza di altri media, possiamo fare, perché non abbiamo padroni, padrini o sponsor da compiacere.
Questi tre punti cardinali rappresentano il nostro impegno per il giornalismo che crediamo necessario: inchieste (per svelare i lati nascosti della politica e dell’economia), consumo critico (per vivere meglio, certo, ma anche per promuovere scelte consapevoli capaci di colpire gli interessi privilegiati) e beni comuni (perché la nostra missione è quella di leggere la realtà nell’interesse dei cittadini e non delle élite oligarchiche che controllano i media dominanti). Al suo interno ci saranno poi, naturalmente, approfondimenti sull’attualità e sui temi che caratterizzano da sempre la nostra agenda: esteri, geopolitica, ambiente, diritti sociali.
Questi sono solamente alcuni degli argomenti che potrete ritrovare nel nuovo numero:
Le banche (anche italiane) che finanziano riarmo e guerre: la nostra inchiesta di copertina svela come l’appoggio degli istituti di credito sia fondamentale per mantenere in piedi l’industria bellica e in quali banche mettere i propri risparmi se non si vuole essere complici della guerra.
La battaglia per il controllo dell’Artico: si tratta di una regione cruciale per gli interessi commerciali e securitari delle principali potenze al mondo, ora sfruttabile più facilmente grazie al cambiamento climatico.
La verità sul caffè in capsule: si tratta di un prodotto il cui consumo è in rapida crescita tra gli italiani, ma contenente sostanze potenzialmente dannose per la salute e con un impatto ecologico non indifferente.
XLaw, la polizia predittiva all’italiana: dopo essere stato in passato scartato dallo Stato italiano, XLaw torna con un nuovo nome e nuove funzioni per operare un controllo più ampio sulla società, nel nome della “sicurezza”.
Cina, la rivoluzione silenziosa degli Sdraiati: in Cina, il movimento degli Sdraiati rifiuta competizione estrema e lavoro eccessivo, costituendo una forma di resistenza contro il modello economico cinese e la pressione generazionale.
Le catastrofi nucleari sfiorate nei mari italiani: il traffico di navi atomiche nei porti italiani è sempre esistito, senza fermarsi mai veramente, nonostante i numerosi incidenti sfiorati nel corso degli anni che avrebbero potuto portare a stragi e disastri ambientali incommensurabili.
La nuova rivista de L’Indipendente è acquistabile (in formato cartaceo o digitale) sul nostro shop online, ed è disponibile anche tramite il nuovo abbonamento esclusivo alla rivista, con il quale potreste ricevere la versione cartacea a casa ogni mese per un anno al prezzo in offerta lancio di 70 euro, spese di spedizione incluse. Per riceverlo basta consultare la pagina: lindipendente.online/abbonamenti.
Un rapporto della Fondazione GIMBE denuncia una carenza di 5.575 medici di famiglia in 17 Regioni italiane, con le situazioni più critiche in Lombardia (-1.525), Veneto (-785) e Campania (-652). La riduzione del personale è aggravata dall’invecchiamento della popolazione e dal sovraccarico dei medici: oltre il 50% supera il limite di 1.500 assistiti, compromettendo la qualità delle cure. Il numero di borse di studio per la formazione è diminuito negli ultimi anni, mentre molti medici vanno in pensione prima dei 70 anni. Tra il 2019 e il 2023, il numero di medici di famiglia è calato del 12,8%, passando da 42.009 a 37.260 unità, con l’unica eccezione della Provincia autonoma di Bolzano.
Il fondo CK Hutchison Holdings, con sede a Hong Kong, che controlla alcuni porti del Canale di Panama, ha annunciato la cessione del controllo di tali infrastrutture a un consorzio che include il fondo statunitense BlackRock. La vendita prevede due distinte transazioni, dal valore complessivo di 22,8 miliardi di dollari, e include anche la cessione di decine di porti in diverse parti del mondo. La cessione dei porti di Panama avverrà previa approvazione del governo panamense, e la documentazione definitiva sarà firmata entro il 2 aprile. Il controllo strategico del Canale di Panama era uno degli obiettivi principali annunciati dal neoinsediato presidente Trump. CK Hutchison Holdings ha smentito ogni pressione politica sulla vendita, definendola «puramente commerciale». Tuttavia, è un dato di fatto che l’operazione pone indirettamente il controllo del Canale nelle mani degli Stati Uniti, sottraendolo «all’influenza cinese», come richiesto dal presidente.
L’annuncio dei due fondi finanziari è arrivato ieri, martedì 4 marzo. Di preciso, il Consorzio BlackRock-TiL acquisirà da CK Hutchison «la partecipazione del 90% di HPH in Panama Ports Company (la “Transazione PPC”), che possiede e gestisce i porti di Balboa e Cristobal a Panama», e «la partecipazione effettiva e di controllo dell’80% di CK Hutchison in società controllate e collegate (la “Transazione HPH”) che possiedono, gestiscono e sviluppano un totale di 43 porti comprendenti 199 posti barca in 23 Paesi, insieme a tutte le risorse di gestione, operazioni, sistemi operativi dei terminali, sistemi informatici e di altro tipo». Questa seconda transazione non includerà nessuno dei porti in Cina. Le due transazioni avverranno separatamente: la Transazione HPH verrà effettuata «in modo accelerato», mentre la Transazione PPC dovrà attendere l’approvazione del governo di Panama, che dovrà confermare «i termini proposti di acquisto e vendita». Non è chiaro se i pagamenti avverranno separatamente, ma i due fondi hanno annunciato di avere già definito «in linea di principio» la ripartizione dei proventi delle due transazioni, esplicitandone il valore aggregato di 22,8 miliardi.
L’acquisizione dei porti di Panama da parte di BlackRock realizza uno degli obiettivi chiave del piano per “rendere l’America di nuovo grande” del presidente Trump, ponendo sotto l’indiretto controllo degli Stati Uniti l’infrastruttura strategica «sotto influenza cinese». A confermare il valore strategico della transazione per gli Stati Uniti è stato lo stesso presidente ieri, in occasione del suo primo discorso al Congresso: «Per rafforzare la nostra sicurezza nazionale, la mia amministrazione prenderà il controllo del Canale di Panama. E abbiamo già iniziato a farlo. Proprio oggi una grande compagnia americana ha annunciato l’acquisto di entrambi i porti attorno al Canale di Panama e di molti altri servizi legati a esso».
BlackRock è uno dei maggiori fondi di investimento statunitensi che, negli ultimi anni, si è avvicinato sempre di più a settori strategici sul piano geopolitico. A giugno 2024, risultava il maggiore detentore di Bitcoin al mondo e, sin dallo scoppio della guerra in Ucraina, ricopre un ruolo di primo piano nella pianificazione della ricostruzione post-bellica del Paese. BlackRock gestisce un patrimonio di circa 10.000 miliardi di dollari, che, se fosse uno Stato, lo renderebbe la terza nazione al mondo per PIL. Di questi, circa un terzo sono in Europa, e una buona fetta nella stessa Italia. Nel Belpaese, il fondo di investimento è attivo in molteplici settori, dal bancario all’energetico, dal tecnologico ai trasporti, fino ad arrivare all’aerospaziale, alla difesa e alla sicurezza.
Oggi, in quella rinomata cittadella della libertà di espressione e della libertà di stampa che è stato il Regno Unito, se professi il tuo sostegno per la resistenza palestinese puoi essere arrestato, perquisito e incarcerato, il tuo cellulare e pc possono essere confiscati e la tua casa devastata dalla polizia in tenuta d’assalto; puoi anche perdere il tuo posto di lavoro ed essere espulso dal Paese.
Non era così in passato. Persino Karl Marx, per quanto tenuto sott’occhio dalla polizia, godeva pienamente della libertà di espressione e di stampa mentre risiedeva a Londra, dal 1849 fino alla morte, nel 1883. Lì poteva non solo far stampare il Manifesto del Partito Comunista, ma anche distribuire tranquillamente il suo saggio Sulla questione ebraica, testo che, pur rispettando l’ebraismo etnico, fustiga ferocemente quello economico – o “sionista”, diremmo oggi. Bei tempi passati. Oggi in UK c’è la repressione.
La lunga mano della lobby sionista e l’intimidazione dei giornalisti pro-palestinesi
In foto: il giornalista britannico Craig Murray
Il 16 ottobre 2023, il giornalista britannico Craig Murray, attivista per i diritti umani ed ex diplomatico di Sua Maestà (è stato ambasciatore del Regno Unito in Uzbekistan dal 2002 al 2004) è stato fermato dalla polizia antiterrorismo all’aeroporto di Glasgowdi ritorno da un incontro con lo staff di WikiLeaks in Islanda. Ha subìto non solo il sequestro del suo pc e del suo cellulare, ma anche un interrogatorio durato un’ora che non riguardava solo l’organizzazione fondata da Julian Assange. Infatti, gli agenti – probabilmente dietro segnalazione della lobby sionista in UK, la quale tiene attivisti come Murray sotto stretto controllo – sapeva che il giornalista aveva assistito a una manifestazione pro-Palestina mentre era in Islanda e il brigadiere all’aeroporto voleva ragguagli su cosa si era detto a quell’evento. «Non ho idea, non parlo islandese, ci sono andato solo per solidarietà» ha risposto Murray. Gli agenti lo hanno lasciato andare, ma gli hanno sequestrato i dispositivi elettronici.
Il 15 agosto 2024, la polizia ha arrestato il giornalista pro-palestinese Richard Medhurst al suo arrivo all’aeroporto londinese di Heathrow. Motivo: i suoi post favorevoli alla resistenza palestinese, che qualcuno avrebbe segnalato alla polizia come apologia del terrorismo. Sbattuto in una cella per 15 ore, Medhurst ha dovuto dormire – mezzo svestito – su un freddo blocco di cemento. Alla fine, il giornalista è stato rilasciato con l’obbligo di presentarsi a un commissariato di polizia tre mesi dopo e con la raccomandazione di stare attento al contenuto dei suoi post in futuro.
Due settimane dopo, all’alba del 29 agosto 2024, la polizia in tenuta antisommossa ha fatto irruzione nella casa della giornalista Sarah Wilkinson, mettendo a soqquadro tutte le stanze e confiscando il suo passaporto e i suoi dispositivi elettronici. Con irriverente crudeltà, stando alle dichiarazioni della stessa giornalista, gli agenti avrebbero sparso per terra e calpestato le ceneri della sua defunta madre, che Sarah teneva in un’urna sigillata su una mensola. Messa agli arresti domiciliari per sospettato sostegno al terrorismo, la 61enne non poteva nemmeno andare in farmacia per comprare i medicinali di cui aveva bisogno e, senza cellulare e col divieto di uscire da casa, non poteva chiedere ai vicini di farlo per lei. Ora rischia 14 anni di galera. Per che cosa? Per i suoi articoli a favore della lotta palestinese, ha dichiarato. «Vogliono inculcare la paura, farmi cessare di denunciare il genocidio a Gaza; ma non ci riusciranno».
All’alba del 17 ottobre 2024, la polizia ha messo a soqquadro la casa del noto giornalista Asa Winstanley, vice capo redattore del portale filo-palestinese Intifada Elettronica, confiscando il suo cellulare e il suo pc e intimidendolo durante la perquisizione. Anche in questo caso, il motivo sono stati i suoi scritti pro-resistenza palestinese, che qualcuno ha denunciato alla polizia come apologia del terrorismo. È facile immaginare quale potente lobby può aver incoraggiato quel qualcuno a passare al setaccio ogni parola degli articoli di Winstanley apparsi sul suo giornale, per poter poi sporgere una denuncia circostanziata e farlo arrestare.
La legge contro il terrorismo, manipolata ad arte
Questi soprusi della polizia britannica sono stati resi possibili per via di una draconiana legge contro il terrorismo risalente all’anno 2000, il Terrorism Act. In particolare, la Sezione 12 criminalizza qualsiasi sostegno dato a un’organizzazione proscritta, nonché qualsiasi espressione di simpatia nei confronti di quella organizzazione.
Il Terrorism Act fa un elenco delle organizzazioni proscritte che non si possono aiutare e di cui non è possibile parlare favorevolmente, pena commettere un reato. La maggior parte sono gruppi realmente terroristi, come al-Qaida e ISIS (nei Paesi musulmani), Boko Haram (in Nigeria) o al-Shabaab (in Somalia). Ma nel 2019 e poi nel 2021, dietro pressioni della potente lobby sionista in UK, sono stati aggiunti alla lista di organizzazioni proscritte due gruppi armati che si oppongono alle occupazioni israeliane. Da una parte, Hezbollah, la resistenza armata creata nel 1982 per respingere l’esercito israeliano che aveva invaso e stava occupando il Libano. Dall’altra, Hamas, la resistenza armata creata nel 1987 per cacciare l’esercito israeliano che stava occupando Gaza.
È bene notare che né l’uno né l’altro di questi due gruppi cercavano di occupare terre israeliane; costituivano forze di resistenza contro chi occupava le loro terre. In questo senso, esse si possono paragonare ai partigiani italiani durante il dominio nazista dell’Italia oppure ai partigiani cinesi, guidati da Mao Tse-Tung, che cacciarono gli occupanti giapponesi e fondarono la Repubblica Popolare Cinese.
Alla luce di tutto ciò, è manifestamente pretestuoso designare Hezbollah e Hamas come organizzazioni «terroriste» – anche perché la XX Assemblea Generale dell’ONU (1965) ha legittimato «la lotta [armata] da parte dei popoli…per l’autodeterminazione e l’indipendenza». Nonostante la pretestuosità, però, la lobby sionista in UK (e anche altrove nel mondo) è riuscita a far chiamare «terroristi» – da apposite leggi e perciò da molti esponenti politici e da gran parte dei mass media – sia Hezbollah, forza di resistenza armata libanese, sia Hamas, forza di resistenza armata palestinese. Ma succede spesso così. Durante la Resistenza in Italia, i nazisti fecero chiamare «banditi» i partigiani italiani come, durante la Resistenza in Cina, i giapponesi fecero chiamare «diavoli» i partigiani cinesi, per alienare loro le simpatie della gente.
Per via della Sezione 12 del Terrorism Act, nel Regno Unito è diventato proibito parlare favorevolmente di Hezbollah o di Hamas o anche semplicemente della «resistenza palestinese»: sono tutti atti che costituiscono apologia del terrorismo. Da qui, gli arresti e le perquisizioni dei malcapitati giornalisti britannici che hanno osato sostenere il diritto dei palestinesi a difendersi.
Ma una legge sul terrorismo così generica ha maglie troppo larghe e la polizia non riesce a controllare tutte le possibili violazioni negli scritti di tutti i giornalisti del Paese. La repressione del giornalismo pro-palestinese in UK è dunque senz’altro il frutto anche di una rete – questa a maglie strettissime – di sionisti di base che forniscono le segnalazioni usate poi dai loro vertici per far reprimere dalla polizia chiunque fustighi il sionismo oggi.
Gli attivisti britannici potrebbero avviare un’azione legale chiedendo all’Alta Corte di riconoscere che Hezbollah e Hamas sono sì gruppi di resistenza armata, ma non organizzazioni terroristiche; di conseguenza, sostenerli non costituirebbe un reato.
[di Patrick Boylan – autore del libro Free Assange e co-fondatore del gruppo Free Assange Italia]
Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky si è detto pronto a firmare un accordo sui minerali e sulla sicurezza con gli Stati Uniti e a lavorare sotto la «forte leadership» del presidente Donald Trump. Dopo aver ammesso che il suo colloquio con Trump «non è andato come avrebbe dovuto», Zelensky ha ribadito l’impegno dell’Ucraina per la pace e ha elogiato il presidente USA. Secondo alti funzionari dell’amministrazione Trump, gli Stati Uniti sarebbero pronti a sospendere gli aiuti militari verso l’Ucraina, in una mossa che costringerebbe Kiev a sedersi al tavolo con la Russia per porre fine alla guerra. In una dichiarazione rilasciata su X, il presidente ucraino ha detto: «Vorrei ribadire l’impegno dell’Ucraina per la pace. Nessuno di noi vuole una guerra senza fine. L’Ucraina è pronta a sedersi al tavolo dei negoziati per una pace duratura».
La posizione di Zelensky sarebbe stata ribadita in una lettera inviata al presidente statunitense Donald Trump, che ne ha riportato il contenuto (sostanzialmente identico a quello del post su X) durante il suo discorso al Congresso di ieri sera. Secondo quanto riferito da Trump, Zelensky avrebbe confermato che l’Ucraina è pronta a «sedersi al tavolo dei negoziati il prima possibile» e ad avvicinarsi a una pace duratura il prima possibile, in quanto «nessuno vuole la pace più degli ucraini». L’Ucraina si è anche detta a firmare un accordo sulle terre rare «in qualunque momento». Allo stesso tempo, Trump avrebbe ricevuto dalla Russia «forti segnali che anche loro sono pronti per la pace».
Le dichiarazioni di Zelensky sono arrivate subito dopo la notizia, circolata su numerosi quotidiani, secondo la quale Trump avrebbe interrotto gli aiuti militari all’Ucraina, a seguito della «condotta» del presidente ucraino dopo l’incontro alla Casa Bianca dello scorso 28 febbraio. Nel suo discorso alla popolazione ucraina di ieri sera, Zelensky ha riferito di aver chiesto informazioni ufficiali circa l’effettivo blocco degli aiuti militari statunitensi, incaricando il ministro della Difesa, i capi delle agenzie di intelligence e i diplomatici di contattare le loro controparti a Washington per ottenere informazioni ufficiali. «Le persone non dovrebbero dover tirare a indovinare, Ucraina e Stati Uniti meritano un dialogo rispettoso e una posizione chiara l’una da parte dell’altra, soprattutto quando si tratta di proteggere vite durante una guerra» ha dichiarato il presidente ucraino.
Allo stesso tempo, Zelensky ha riferito di aver avuto ieri colloqui con il presidente della Finlandia Alexander Stubb, con il primo ministro inglese Keir Starmer, il primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis, quello croato Andrej Plenković, con il segretario generale della NATO Mark Rutte e con Friedrich Merz, leader del partito tedesco Unione Cristiano-Democratica di Germania (CDU) che lo scorso 23 febbraio ha vinto le elezioni parlamentari tedesche. Secondo quanto riferito dal presidente ucraino, ci sarebbero infatti «aggiornamenti molto importanti dalla Commissione Europea in merito a finanziamenti sostanziali per la difesa europea». Questo si tradurrebbe in «una difesa aerea aggiuntiva: più sistemi, più missili, capacità aggiuntive per proteggere le nostre città e i nostri villaggi, le nostre posizioni», con la possibilità di creare «una solida base aggiuntiva per i nostri sforzi per porre fine alla guerra». «Gli ucraini meritano la pace. L’Ucraina merita rispetto» ha riferito il presidente, che sembra così tenere un atteggiamento ambivalente per quanto riguarda il rapporti con i Paesi dell’UE e con gli Stati Uniti.
Nella notte tra ieri e oggi, mercoledì 5 marzo, in Pakistan, c’è stato un attacco contro un’infrastruttura militare nella provincia nordorientale di Khyber Pakhtunkhwa, vicino al confine con il Pakistan, in seguito al quale sono state uccise 12 persone. Ancora ignote le dinamiche dell’attacco. Secondo una fonte militare ripresa dall’Associated Press, due individui avrebbero guidato dei veicoli pieni di esplosivi contro l’edificio, schiantandovisi contro, mentre altri attentatori vi facevano irruzione armati. L’attacco è stato rivendicato da Jaish al-Fursan, gruppo legato ai talebani pakistani; si tratta del terzo scontro tra talebani e forze pakistane negli ultimi giorni.
La Corte Suprema dell’Uganda ha ordinato la rimozione dei monumenti coloniali britannici da Kampala, la capitale, e la ridenominazione delle strade che ancora portano il nome di personaggi legati al dominio europeo. La decisione, emessa dal giudice Musa Ssekaana, arriva al culmine di una battaglia portata avanti da attivisti e cittadini del Paese dell'Africa centro-orientale che, da cinque anni, chiedono attraverso petizioni e cause legali di liberare la capitale dall’eredità coloniale che continua a farsi sentire nei luoghi pubblici e nei simboli della città. Nel 2020 più di 5.800 persone fir...
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Il governo canadese ha annunciato un accordo da 270 milioni di dollari per sostenere la conservazione ambientale guidata dagli Inuit nella regione di Qikiqtani, nel Nunavut. L'accordo prevede un investimento di 200 milioni di dollari da parte del governo federale, a cui si aggiungono 70 milioni provenienti da donatori privati canadesi e internazionali. Si tratta di una importante vittoria per le popolazioni indigene, che da tempo reclamavano il controllo delle terre ancestrali, denunciandone la devastazione ambientale con conseguenze pesanti sulle possibilità di vita dei nativi.
Secondo le sti...
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Migliaia di persone sono state evacuate oggi nella capitale indonesiana Giacarta dopo che le inondazioni hanno travolto la regione. Lo ha reso noto l’agenzia nazionale per le calamità naturali dell’Indonesia in una nota. Le piogge torrenziali cadute ieri hanno infatti provocato inondazioni fino a 3 metri di altezza a Giacarta e nei dintorni, bloccando molte strade e sommergendo oltre mille abitazioni. Le inondazioni hanno sommerso anche un ospedale nella città orientale di Bekasi: l’acqua è penetrata in alcuni reparti e si sono verificate interruzioni di corrente. Il governatore di Giacarta, Pramono Anung, ha innalzato l’allerta al secondo livello più alto tra quelli critici.
Durante il secondo dialogo strategico per il futuro dell’industria automobilistica, la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha teso la mano alle cause automobilistiche per affrontare quello che ha definito come un periodo di forte incertezza e di grande competizione a livello mondiale. Von der Leyen ha così presentato una proposta per l’industria dell’automotive, basata su tre punti: innovazione tecnologica della guida autonoma; allentamento dei tempi di esame (ed eventuali sanzioni) per i produttori di auto rispetto alle emissioni di CO2 e accelerazione dei lavori di revisione per lo stop ai motori endotermici previsto per i 2035; competitività in materia di produzione di batterie per auto elettriche. In questo modo, la presidente della Commissione UE conferma il rimodernamento del Green Deal e delle stesse politiche europee in materia di transizione, sconfessando di fatto l’agenda “green” dai lei stessa promossa durante la precedente legislatura. Una retromarcia dettata sia dalla crisi che investe il settore automobilistico in Europa, sia dai nuovi equilibri politici europei che hanno visto il forte rafforzamento dei gruppi conservatori che difendono lo status quo industriale.
Accelerare il processo di revisione (inizialmente previsto per il 2026) sullo stop ai motori convenzionali dal 2035 e congelamento delle multe per tre anni per i produttori che non soddisfano i criteri di sostenibilità stabiliti dall’Unione Europea. Questo è uno dei tre punti su cui la Presidente della Commissione UE, Ursula von der Leyen, basa la nuova strategia europea per il futuro dell’industria automobilistica. I nuovi requisiti anti-emissione per le case automobilistiche, già in vigore quest’anno, prevedono una soglia di 95 grammi di CO2 per chilometro guidato. Le sanzioni per chi disattende questa soglia limite vengono però congelate per tre anni, nel tentativo di dare maggior respiro al settore. Quindi, secondo il principio del “banking and loan”, invece della conformità esaminata su base annuale, le aziende avranno tre anni di tempo per mettersi in regola. Nonostante questa decisione sconfessi in parte le stesse politiche, e gli stessi standard, di cui von der Leyen si è fatta promotrice, la presidente della Commissione Europea ha affermato che «la piena neutralità tecnologica rimane il principio fondamentale».
Von der Leyen ha poi affermato la necessità di una grande spinta nella produzione europea di software e hardware per le auto a guida autonoma. «Sappiamo che la concorrenza globale è feroce. Quindi dobbiamo agire in grande e dobbiamo essere grandi», ha detto. Per questo, sostiene, le aziende dovranno essere in grado di mettere in comune le risorse. L’Unione Europea, dal canto suo, dovrà essere di aiuto nel lanciare progetti pilota su larga scala per la guida autonoma. «Perché l’obiettivo è molto semplice: dobbiamo portare i veicoli autonomi sulle strade europee più velocemente», ha detto von der Leyen.
Infine, la produzione di batterie per veicoli elettrici e l’enorme competizione da parte di produttori stranieri. Senza essere citata direttamente, è chiaro che qui ci si riferisce alla Cina e alla sua capacità di produrre batterie a costi di molto inferiori rispetto ai produttori europei. Nel tentativo di mantenere i costi bassi, così da poter fornire veicoli che non costino troppo rispetto al resto del mercato mondiale, von der Leyen annuncia aiuti diretti da parte delle istituzioni europee. Tradotto, l’Europa darà soldi pubblici alle case automobilistiche per abbassare i costi delle batterie e quindi per mantenere competitivi sul mercato mondiale i veicoli elettrici europei. Insomma, i tanto odiati aiuti di Stato che i neoliberisti rifiutano e che denigrano quando si devono mettere in altri settori dell’economia o quando sono altri Paesi a farlo. Per arrivare a questo obiettivo, spiega von der Leyen, verrà continuato il processo di semplificazione normativa e di riduzione burocratica già annunciato dalla stessa presidente della Commissione quando, di fatto, ha rivisto e rimodellato pesantemente il Green Deal che lei stessa ha tanto voluto.
Insomma, nel tentativo di salvare il settore automobilistico in forte difficoltà, von der Leyen rivede i suoi stessi piani inerenti l’Agenda verde e la transizione Green, promettendo meno burocrazia e, soprattutto, enormi quantità di soldi pubblici alle case automobilistiche per mantenere la loro competitività sul mercato mondiale.
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