giovedì 13 Novembre 2025
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I bambini di Arna: lo sguardo della letteratura per capire la questione palestinese

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Mentre Israele sta occupando militarmente la Striscia di Gaza, realizzando una deportazione de facto della popolazione palestinese, un attentato terrorista a Gerusalemme, rivendicato da Hamas, ha provocato sei vittime. Se dovessimo stilare una lista delle parole che suscitano un brivido di terrore in noi occidentali, la parola terrorista sarebbe in cima alla lista. Perché questa follia? Da dove nasce, perché nasce e come cresce questo male? Ma per capire davvero questo fenomeno, è necessario fare un passo indietro. Per capire non soltanto la genesi del terrorismo, ma perché il conflitto tra Israele e Palestina è durato per decenni fino a raggiungere il culmine con il genocidio in corso a Gaza.

Nel 1987 una donna israeliana di nome Arna Mer-Khamis fonda nel campo profughi di Jenin il Freedom Theatre, un teatro nato con lo scopo di dare ai bambini palestinesi un luogo dove poter immaginare qualcosa di diverso dalla guerra. I filmati registrati in quegli anni sono stati poi raccolti in un film-documentario I bambini di Arna. La prima volta che lo vidi rimasi scioccata. Fu anche la prima volta che vidi Jenin. Non ricordo di aver mai visto un posto simile prima, né la favelas, né le baraccopoli indiane, né i più sperduti e miseri villaggi africani hanno la bruttezza di Jenin. Una «città», distrutta e ricostruita più volte, che quando vennero effettuate le riprese era un cumulo di macerie. Letteralmente. E fu su un cumulo di macerie che venne trovato uno dei «bambini di Arna», il piccolo Ala che sedeva sullo scheletro della propria casa distrutta dai bombardamenti.

A poco a poco le riprese vanno avanti e facciamo la conoscenza degli altri bambini che Arna prende sotto la sua ala. Ashraf, Yuossef, Zakaria, Nidal, i loro nomi… Ma a restarti impressi sono soprattutto gli occhi tristi e rassegnati di Ala, la determinazione di Ashraf che diceva di voler diventare il «Romeo Palestinese», e il sorriso contagioso di Youssef. 

Nel frattempo passano gli anni, il teatro viene chiuso e i bambini crescono. Quindici anni dopo il figlio di Arna, Juliano, nel bel mezzo della seconda intifada, torna a Jenin per scoprire che fine abbiano fatto. 

L’insegna del Freedom Theatre, il teatro fondato dall’attivista pro palestinese israeliana Arna Mer-Khamis. Un luogo nato con lo scopo di dare ai bambini palestinesi un luogo dove poter immaginare qualcosa di diverso dalla guerra

Ashraf, che recitava la parte del principe che voleva catturare il sole, è stato ucciso durante la battaglia di Jenin. Ala invece è a capo della resistenza armata. Durante questa «battaglia» si vede gente in pantaloncini e maglietta che spara contro i carri armati. Chi non ha un fucile, lancia pietre. Un gesto che ad alcuni potrebbe sembrare un simbolo di resistenza, ma che visto in quei filmati che sono cronache in diretta di una guerra senza via d’uscita, trasmette un senso di disperazione. 

Juliano intervista Ala, e quando gli domanda: ti arrenderesti? Ala gli risponde: «arrendermi mai». Libertà o morte, dice con un sorriso triste, ma in realtà sembra dire: la libertà è la morte. Da questo inferno. Muore poco dopo, poco prima della resa di Jenin. Infine ci viene mostrato Youssef, il bambino dal sorriso irresistibile. 

Indossa una divisa mimetica, ha la barba e una bandana nera sulla testa, gli occhi vuoti come quelli di un morto che cammina. Del bambino sorridente che era prima non è rimasta traccia. Alle sue spalle c’è la foto di Reham Wared, la bambina di Jenin morta dissanguata dopo che una bomba aveva colpito la sua scuola. A restarti impressa è la sua voce mentre dice addio alla sua famiglia. Non c’è odio, né rabbia, né rimpianto, né disperazione, né tristezza o paura nella sua voce. Nulla. 

Si è fatto saltare in aria una settimana dopo aver girato quel filmato, uccidendo quattro persone in un attacco suicida. E allora non puoi fare a meno di domandarti: cos’è successo a quel bambino che rideva sempre? Forse la risposta è lì, in quello sguardo vuoto, in quello sguardo piatto. 

Il 29 novembre 2001 quattro israeliani sono stati uccisi da un attacco suicida a nord di Tel Aviv. Il primo dicembre, stavolta a Gerusalemme, due kamikaze hanno ucciso dodici persone e ne hanno ferite centottanta. Il giorno dopo un attentatore ha fatto saltare in aria un autobus a Haifa. Il 5 dicembre un altro terrorista si è fatto esplodere proprio nel centro di Gerusalemme.

Vi ho parlato di Jenin per farvi sentire cosa significhi essere un palestinese. Perché sentire è il primo passo per capire. Ma se volete davvero capire il conflitto tra Israele e Palestina, provate adesso a mettervi nei panni di un israeliano e a immaginare cosa si prova a vivere a Tel Aviv, a Gerusalemme o in qualche altre distretto d’Israele.

Impari innanzitutto a non frequentare certe strade. Ad evitare i luoghi affollati. Quando porti i tuoi figli a scuola, ti domandi: li rivedrò ancora? 

«Il dito compone freneticamente i numeri degli ospedali dove sono ricoverati i feriti. È arrivata da voi la signorina…? Il centralinista scorre gli elenchi in suo possesso. Secondi lunghi come l’eternità. Pensiamo a lei. Pensiamo a come sarà senza di lei. Alla radio trasmettono le urla di giubilo registrate da radio Hamas a Nablus: «Vendicheremo la tua morte, Abu Hanud».

Allora dove sta il bene e dove sta il male? Chi dobbiamo condannare? Per chi dobbiamo parteggiare? 

Il figlio di Arna Mer-Khamis, Juliano. Egli era noto per il suo attivismo politico nel conflitto israelo-palestinese, con dure prese di posizione nei confronti della occupazione dei territori in Palestina e della politica dello stato di Israele in materia di insediamenti nelle zone occupate. È stato assassinato a Jenin il 4 aprile 2011, colpito alla testa da colpi di arma da fuoco sparatigli da un uomo mascherato.

La politica giudica, il tribunale condanna, la Storia spiega, sviscera ed esamina le ragioni, i perché e i percome, e con il senno di poi assegna meriti e colpe. L’arte invece no, fa qualcosa di più: ti fa sentire. Ogni cosa. Ma torniamo a Youssef, il bambino che recitava in un teatro di Jenin e che da grande è diventato un terrorista. La domanda che non puoi fare a meno di porti è: perché? Da cosa nasce e perché nasce questo male?

La cattiveria che tu mi insegni io la metterò in pratica, dice Shylock nel Mercante di Venezia mentre pretende una libbra di carne di Antonio, suo rivale in affari e suo debitore, e in pratica chiede e pretende il diritto di ucciderlo. E una delle pagine più belle e drammatiche di tutta la letteratura è il momento in cui Shylock pronuncia queste parole: «Ha deriso delle mie perdite, ha schernito i miei guadagni, ha denigrato la mia nazione, ha intralciato i miei affari, mi ha gelato gli amici, mi ha acceso contro i  nemici; e tutto questo perché? Perché sono un ebreo». 

Nel XVI secolo, l’epoca di Shakespeare, quando compariva in scena l’ebreo era sempre descritto come un essere meschino, avido e inferiore, ma invece Shakespeare, essendo Shakespeare, rivoluziona questo stereotipo e ci costringe a sentire tutto il dolore di Shylock. E poi Shylock incalza: «Se ci pungete non sanguiniamo? Se ci fate il solletico, non ridiamo? Se ci avvelenate, non moriamo? E se ci fate un torto, non ci dobbiamo vendicare? »

Ecco il «manifesto» della vendetta. La vittima diventa Carnefice. E alle volte lo supera perfino in crudeltà, astuzia e perfidia, come ci mostra Shylock nel Mercante di Venezia. Tu hai ucciso me, ed io uccido te. Io ho sofferto, e tu soffrirai. Io ho sanguinato e tu sanguinerai. Quando David Grossman riporta le grida di giubilo di radio Hamas, il cerchio si è chiuso.

Violenza, condanna e rappresaglia e al termine della rappresaglia, una nuova spirale di violenza. Questa, volendo essere sintetici, è stata la storia degli israeliani e dei palestinesi negli ultimi settant’anni. Ma perché nessuno ha mai interrotto questo ciclo?

C’è un altro romanzo, I robot e l’Impero, di Isaac Asimov, che ci può aiutare a comprendere meglio quello che sta accadendo in Palestina. Una delle invenzioni più affascinanti di Asimov furono le sue tre famose leggi della robotica

La Prima Legge recita: «Un robot non può recare danno a un essere umano né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, un essere umano riceva danno». Un robot che permetta, anche in modo involontario, che a un essere umano venga fatto del male si auto-distrugge. A un certo punto però accade che alcuni esseri umani, atterrati su un pianeta di nome Solaria, s’imbattano in un robot-supervisore. Il robot all’inizio li osserva con attenzione, senza fare nulla, li ascolta e poi di colpo esclama: «Tu non sei un essere umano». E li attacca.

Come può un robot, programmato e vincolato dalla Prima Legge, tentare di uccidere un essere umano? È un comportamento che altera le fondamenta stessa del mondo di Asimov. Ma ecco quel guizzo di genialità che irrompe in quest’opera di fantascienza e che ci fa capire tanto non sul mondo creato da Asimov ma sul nostro. 

Un robot può uccidere tranquillamente un essere umano, senza violare la Prima Legge. «a patto di modificare la definizione di essere umano. Per il robot supervisore la proprietà basilare di un essere umano era il linguaggio. (…) qualsiasi cosa di sembianze umane era definibile come essere umano solo se parlava il Solariano. Mentre, a quanto pare, qualunque cosa di aspetto umano che non parlasse con accento solariano doveva essere distrutto senza esitare».

Geniale, no? Come può un soldato sparare a un uomo disarmato? Perché il fucile non esita? Perché la mano non gli trema? Come può un uomo farsi saltare in aria per uccidere, volontariamente e consapevolmente, altre persone? Perché la sua mano non esita? Perché i suoi occhi non tremano? Come possono delle persone che sono padri e madri, fratelli e sorelle, figli, mogli, compagni abituarsi a una carneficina di cui sono complici o artefici? Alterando la definizione di essere umano.

E c’è una parola perfetta per farlo: Nemico. Il Nemico non è umano, non quanto lo sono io. I suoi cari non valgono quanto i miei. Lui non soffre quello che soffro io, non ha amato come ho amato io, non sogna quello che sogno io e certamente non piange con l’intensità con cui piango io. 

«Caio è un uomo, gli uomini sono mortali, quindi Caio è mortale», così pensa Ivan Ilijc in quel libro straordinario che si chiama La morte di Ivan Ilijc. Quel semplice sillogismo: Caio è un uomo, tutti gli uomini sono mortali, dunque Caio è mortale, era parso a Ivan Ilijc, «giusto soltanto nei riguardi di Caio. (…) Forse che Caio era stato innamorato come lui? Forse che Caio poteva condurre a termine l’istruzione d’un processo? Caio, sì, è mortale, ed è giusto che muoia, ma non io». Il Nemico è come Caio. La sua vita non vale quanto la mia; se non ha sentimenti profondi come lo sono i miei, posso ucciderlo. O vederlo morire, senza sentirmi in colpa. «Quando il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant» scrive Omar El Akkad, «dice che Israele sta lottando contro degli “animali”, non si tratta soltanto di una dichiarazione convinta, ma di un via libera».

In ogni guerra, in ogni conflitto c’è sempre un «noi» e un «loro». Non solo per chi la guerra la vive, la soffre e la patisce da vicino, ma anche per chi la guerra la osserva e la commenta da molto lontano. 

Oggi Israele per molti ha il volto di Netanyahu. Ha il volto del Colono che con ardore fanatico vuole riportare Israele alla sua antica grandezza. Ha il volto del soldato che spara alla folla indifesa in attesa di ricevere aiuti. Per altri invece, per coloro che hanno preso le parti di Israele, la Palestina ha il volto di Hamas. Arabo, musulmano, terrorista: queste parole sono funzionali alla completa disumanizzazione del popolo palestinese che tiene in piedi la propaganda sionista. Ed è anche il motivo per cui in Occidente molti esitano, o più precisamente si sentono meno coinvolti emotivamente parlando, nel condannare Israele. 

Il genocidio dei palestinesi viene ridimensionato nel tessuto collettivo ed emotivo per il semplice fatto che il palestinese non viene percepito come un essere umano a tutti gli effetti. La Storia è intessuta di categorie di persone, gli indios, i neri, gli ebrei, che furono percepiti come esseri inferiori, e dunque soggetti sui quali era possibile esercitare una violenza inaccettabile per la società civile. L’unico modo per far perdere terreno alla propaganda israeliana è nel riumanizzare il popolo palestinese, restituendogli quella complessità che la Storia gli ha sottratto. Peccato, che quando ciò avverrà, sarà comunque troppo tardi.

Perché a Gaza è un genocidio: cosa dice il rapporto della Commissione d’inchiesta ONU

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Quello commesso a Gaza dall’esercito israeliano contro la popolazione civile palestinese è giuridicamente “genocidio”. È quanto afferma senza mezzi termini il rapporto stilato da una commissione d’inchiesta internazionale indipendente delle Nazioni Unite, istituita dal Consiglio dei Diritti Umani (OHCHR) e guidata da Navi Pillay: per la prima volta un organo ufficiale dell’ONU qualifica come genocidio le azioni condotte da Israele nella Striscia di Gaza e negli altri territori occupati. Secondo il documento, ciò che è accaduto dal 7 ottobre 2023 in avanti non può essere ridotto alla logica di una guerra asimmetrica o a un’operazione antiterrorismo. Si tratta, al contrario, di una campagna sistematica che ha comportato la distruzione deliberata delle condizioni di vita della popolazione palestinese, con l’obiettivo di annientarla in parte significativa.

Le accuse del rapporto

Navi Pillay, giurista sudafricana, ex Alta Commissaria ONU per i Diritti Umani e attuale presidente della Commissione d’inchiesta internazionale indipendente delle Nazioni Unite (OHCHR).

Il dossier stabilisce non solo che vari atti qualificabili come genocidio sono stati compiuti, ma che tali atti sono stati associati a un “intento genocida”, ravvisabile nelle azioni, nella strategia militare, nei danni arrecati e nei discorsi di figure chiave dello Stato israeliano. Il rapporto, di 72 pagine, non si limita a elencare dati e numeri. Ricostruisce invece il quadro normativo, richiama la Convenzione del 1948 per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio e applica i criteri giuridici ai fatti documentati sul terreno. Ne risulta un’accusa precisa e fondata, destinata ad avere conseguenze politiche e legali di lungo periodo. Secondo la Commissione, le autorità e le forze di sicurezza israeliane hanno commesso «quattro dei cinque atti genocidi» definiti dalla Convenzione del 1948 per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio. Gli investigatori delle Nazioni Unite hanno stabilito così che, quanto commesso da Israele a Gaza dall’ottobre 2023, è stato fatto con «l’intento di distruggere i palestinesi» presenti nel territorio. La commissione in questione non è un organo legale, ma i suoi rapporti possono aumentare la pressione diplomatica e servire a raccogliere prove da utilizzare nei tribunali dato che ha anche un accordo di cooperazione con la Corte penale internazionale (Cpi), con la quale «abbiamo condiviso migliaia di informazioni». Israele respinge le accuse «categoricamente», definendo il rapporto in questione come «parziale e mendace».

La definizione giuridica di genocidio

Per capire la portata delle conclusioni della Commissione, è necessario ricordare che la Convenzione sul genocidio e lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale individuano cinque atti che, se commessi contro un gruppo nazionale, etnico o religioso con l’intento di distruggerlo, configurano il crimine più grave del diritto internazionale. Non basta, dunque, la gravità dei fatti: ciò che trasforma un conflitto in genocidio è la prova dell’intento di eliminare, in tutto o in parte, il gruppo preso di mira. È questo l’elemento soggettivo, l’“intento genocida”, che spesso si rivela il più difficile da dimostrare. La Commissione afferma però che, nel caso di Gaza, tale intento risulta evidente sia dalle modalità dell’offensiva israeliana sia dalle dichiarazioni dei suoi vertici politici e militari. Secondo il rapporto, dai discorsi di alcuni leader israeliani e dalle modalità con cui sono state condotte le operazioni militari (tipo di armi, tipi di attacchi, distruzione sistematica di infrastrutture civili, blocco degli aiuti) emerge che l’intento genocida è l’unica inferenza ragionevole dati i fatti. Non si tratta, dunque, di un’interpretazione forzata, ma della conclusione a cui si giunge considerando l’insieme delle prove raccolte.

Gli atti accertati

Il documento elenca quattro atti previsti dalla Convenzione che sarebbero stati effettivamente commessi. In primo luogo, vi è l’uccisione diretta di migliaia di civili, donne e bambini compresi, attraverso bombardamenti e attacchi indiscriminati. Secondo la Commissione, «Israele ha utilizzato munizioni pesanti non guidate, con un ampio margine di errore, in aree residenziali densamente popolate. L’esito di questi attacchi è coerente con la strategia dichiarata impiegata da Israele. Come ha affermato un portavoce delle forze di sicurezza israeliane, “ci concentriamo su ciò che provoca il massimo danno”». La Commissione ha osservato che «le forze di sicurezza israeliane hanno ripetutamente sottoposto le aree urbane della Striscia di Gaza a pesanti bombardamenti con armi esplosive ad ampio raggio, anziché con armi di precisione (o “intelligenti”), portando alla distruzione completa di interi quartieri». In secondo luogo, viene sottolineato il danno fisico e mentale arrecato alla popolazione: ferimenti, amputazioni, traumi psicologici, malattie non curate per il collasso del sistema sanitario. La Commissione ha anche dettagliato nei suoi precedenti rapporti «l’uso sistematico, da parte di Israele, della violenza sessuale e di genere». Un terzo atto riguarda l’imposizione di condizioni di vita insostenibili, dal blocco degli aiuti umanitari alla distruzione di ospedali e infrastrutture essenziali, fino alla mancanza di acqua potabile e cibo. Infine, la Commissione cita episodi in cui sono state colpite e smantellate le strutture mediche per la fertilità e la riproduzione, interpretandole come misure volte a impedire la nascita di nuovi membri della comunità palestinese. Il quinto atto tipico del genocidio, cioè il trasferimento forzato di bambini, non è stato invece accertato con lo stesso livello di evidenza. Ciò non riduce, tuttavia, la gravità delle conclusioni: quattro su cinque atti previsti dalla Convenzione sono stati considerati realizzati.

L’intento genocida

Il punto centrale del rapporto è la dimostrazione dell’intento. Gli investigatori sostengono che l’unica inferenza ragionevole che si può trarre dal complesso delle prove è che Israele abbia agito con l’obiettivo di distruggere, almeno in parte, la popolazione palestinese. A supporto di questa affermazione vengono riportati i discorsi di esponenti israeliani di primo piano, in cui si parla di “guerra santa” o si evoca l’annientamento e la cancellazione della Striscia, del calibro di: «Li ridurremo in macerie… andatevene ora perché opereremo con forza ovunque» (Netanyahu, 7 ottobre 2023), «È un’intera nazione laggiù ad essere responsabile… Non è affatto vero che i civili non fossero coinvolti» (Isaac Herzog, 13 ottobre 2023) o «Polverizzeremo ogni maledetta porzione di terra… la distruggeremo e la sua memoria… fino a quando non sarà annientata» (Brigadiere Generale David Bar Khalifa). Dichiarazioni di questo tipo non possono essere liquidate come “retorica politica”: per la Commissione rappresentano segnali concreti di incitamento al genocidio. A queste parole si aggiunge uno schema di condotta militare difficilmente spiegabile come semplice azione difensiva. La sistematicità dei bombardamenti su infrastrutture civili, la distruzione di scuole e ospedali, il blocco degli aiuti, l’assedio che impedisce alla popolazione di rifugiarsi o sopravvivere dignitosamente delineano un disegno coerente, incompatibile con l’idea di limitare il danno collaterale in un’operazione militare: «Tali azioni hanno creato condizioni di vita calcolate per provocare la distruzione fisica del gruppo palestinese, in tutto o in parte». È questo insieme di elementi a costituire la prova dell’intento genocida.

Le responsabilità dei vertici

La Commissione non si ferma a un’analisi astratta. Indica con chiarezza le responsabilità politiche di Benjamin Netanyahu, Primo Ministro, di Isaac Herzog, Presidente dello Stato, e di Yoav Gallant, già Ministro della Difesa. Le loro dichiarazioni, secondo gli investigatori, hanno contribuito a incitare al genocidio, mentre le autorità israeliane non hanno adottato alcuna misura efficace per prevenire gli atti o per punirne i responsabili. Si tratta di un’accusa diretta che apre scenari inediti: per la prima volta, i massimi vertici di uno Stato alleato dell’Occidente vengono formalmente accusati da una Commissione ONU di aver istigato un genocidio. Leggiamo, infatti, nel rapporto: «Le dichiarazioni dei leader israeliani, incluso il Primo Ministro, costituiscono una prova diretta dell’intento genocida. La Commissione conclude che il modello di condotta delle operazioni militari, considerato unitamente al linguaggio ufficiale, non lascia altra inferenza plausibile che l’intento fosse quello di distruggere, almeno in parte, il gruppo palestinese a Gaza».

Il metodo dell’inchiesta

Il lavoro della Commissione si basa su interviste a vittime, testimoni, operatori sanitari e umanitari, integrate da dati forniti da ONG, agenzie delle Nazioni Unite e organizzazioni indipendenti. Le immagini satellitari hanno consentito di verificare la distruzione sistematica di interi quartieri, mentre la raccolta di documenti open-source ha permesso di incrociare testimonianze e fonti. Israele non ha collaborato con l’inchiesta, ma secondo la Commissione questa mancanza non intacca la solidità delle conclusioni raggiunte. Anzi, il rifiuto di fornire dati e accesso può essere interpretato come un ulteriore ostacolo alla trasparenza. Non sorprende che Israele abbia respinto il rapporto, definendolo un attacco politico e negando qualsiasi intento genocida.

Le implicazioni internazionali

Il rapporto richiama anche gli obblighi della comunità internazionale: nessuno Stato può rimanere complice, sia attraverso forniture di armi sia con sostegni diretti o indiretti a un conflitto qualificato come genocidio. Da qui la raccomandazione di sospendere immediatamente assistenza e cooperazione militare con Israele, di adottare sanzioni mirate e di rafforzare il sostegno agli strumenti della giustizia internazionale, dalla Corte Penale Internazionale alla Corte Internazionale di Giustizia. L’appello è rivolto anche alle Nazioni Unite, cui si chiede di monitorare costantemente la situazione, riferire al Consiglio di Sicurezza e valutare la creazione di meccanismi di protezione internazionale per la popolazione di Gaza. La portata del documento è, quindi, duplice. Da un lato, fornisce una base giuridica autorevole per eventuali procedimenti giudiziari che potrebbero influire sui procedimenti già avviati, come la causa del Sudafrica presso la Corte Internazionale di Giustizia e che potrebbero coinvolgere direttamente la leadership israeliana, dall’altro obbliga gli Stati a prendere posizione. Il rapporto della Commissione ONU segna, pertanto, un passaggio decisivo e rompe un tabù diplomatico: quello che avviene a Gaza e nei territori occupati non è l’“effetto collaterale” di una guerra: è un crimine assoluto che richiede prevenzione, punizione e cessazione immediata.

Sanità pubblica: in Italia la spesa è la più bassa del G7

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Nel 2024 l’Italia si colloca al 14° posto tra i 27 Paesi OCSE europei per spesa sanitaria pubblica pro-capite e ultima tra i membri del G7. La spesa si ferma al 6,3% del PIL, sotto la media OCSE (7,1%) ed europea (6,9%), con un gap di 43 miliardi di euro rispetto agli altri Paesi UE. Secondo la Fondazione Gimbe, il sottofinanziamento è ormai strutturale e genera crescenti tensioni politiche e difficoltà regionali nel garantire i livelli essenziali di assistenza. Le conseguenze ricadono sui cittadini, costretti a fare i conti con liste d’attesa infinite, pronto soccorso al collasso, carenza di medici, disuguaglianze territoriali e spese sempre più frequenti di tasca propria.

Ravenna si ribella: migliaia al porto per bloccare le armi dirette a Israele

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Nel momento in cui Israele compie un ulteriore passo nell’offensiva nella Striscia di Gaza, occupando Gaza City, e mentre la comunità internazionale continua ad esitare nel fare dei passi decisivi ancora dopo due anni di genocidio contro la popolazione civile, da Ravenna si alza forte la voce dei cittadini. Ieri, martedì 16 settembre, migliaia di persone sono scese in piazza contro l’invio di armi dal porto romagnolo, da cui continuano a partire forniture a sostegno dell’esercito di Netanyahu.

Il caso è emerso il 30 giugno, quando un carico partito su gomma dalla Repubblica Ceca è stato successivamente imbarcato e ha fatto tappa a Ravenna con un carico di munizioni, esplosivi e altro materiale bellico, per poi ripartire diretta a Haifa, dove è giunta il 4 luglio. Tutto ciò sarebbe avvenuto senza alcuna autorizzazione da parte dell’UAMA, l’autorità che regolamenta il transito di armamenti. A scoprirlo sono stati alcuni operai del porto, che hanno poi girato l’informazione all’osservatorio Weapon Watch e alla giornalista de il Manifesto, Linda Maggiori: «Abbiamo fatto un accesso agli atti — ha spiegato a L’Indipendente — e l’autorità delle dogane ha confermato quanto accaduto, sostenendo che si trattava di un transito intercomunitario e che quindi non fosse necessaria alcuna autorizzazione. Cosa palesemente non vera, ed è il motivo per cui abbiamo presentato un esposto in Procura per la violazione della legge 185 del 1990».

La vicenda di Ravenna non è isolata, né unica in Italia, ma è emblematica delle modalità con cui armi ed esplosivi continuano a muoversi verso Israele anche dal nostro Paese, nonostante il governo continui a ripetere di aver sospeso le licenze a partire dal 7 ottobre 2023. Il tutto alla luce del sole: secondo la Relazione annuale dell’UAMA 2024, l’Italia ha infatti autorizzato esportazioni militari verso Israele per circa 21 milioni di euro. Armi che partono da Ravenna, come dai porti di La Spezia, Genova e Livorno.

«Noi ci rifiutiamo di essere coinvolti, anche indirettamente, in quello che oggi è diventato uno sterminio di massa, un genocidio» ha detto al microfono Alex Viroli, portavoce del comitato autonomo dei portuali. Davanti a lui, migliaia di persone: membri dei comitati contro la guerra, collettivi studenteschi, ma anche semplici cittadini desiderosi di manifestare la propria indignazione. «Basta armi a Israele», «Fuori Israele genocida dal porto di Ravenna», «Fine dell’occupazione, Palestina libera», si leggeva negli striscioni che aprivano il corteo. La manifestazione, organizzata da BDS, ha ottenuto una prima vittoria parziale: l’annuncio del corteo ha infatti causato l’annullamento di un incontro programmato nell’ambito del progetto UnderSec, cofinanziato dall’Unione Europea nel quadro di Horizon Europe e che vede il porto di Ravenna collaborare con Israele e con l’azienda militare Rafael nello sviluppo di sistemi di sorveglianza e sicurezza marittima. «Israele è leader mondiale in questo campo — ha spiegato a L’Indipendente Ionne Guerrini di BDS —: dove ci sono progetti che richiedono lo sviluppo di dispositivi militari, Israele c’è, perché ha la possibilità di testarli direttamente sul campo, sulla pelle dei palestinesi». «Ufficialmente l’incontro di UnderSec è stato annullato per mancanza di iscritti — continua Linda Maggiori —, in realtà noi pensiamo sia accaduto perché la città si è ribellata».

Se da una parte i cittadini fanno sentire la propria voce, dall’altra continua il silenzio complice delle istituzioni locali e regionali che, in linea con quanto accade nei governi di tutta Europa, da un lato condannano il massacro a Gaza ma dall’altro non adottano alcuna misura concreta. Sia il sindaco di Ravenna, Alessandro Barattoni, sia il presidente della Regione, Michele de Pascale, hanno dichiarato di voler interrompere le relazioni con Israele e si sono detti sorpresi del passaggio di armi attraverso il porto. In realtà, sottolineano gli attivisti, le istituzioni sono perfettamente a conoscenza sia del progetto UnderSec sia dei traffici che avvengono nello scalo, dove la principale società di gestione, la Sapir, è controllata in maggioranza da Regione, Comune e Provincia.
 
«Questa manifestazione ha proprio lo scopo di obbligare le autorità a uscire dal silenzio — conclude Ionne Guerrini —. Le dichiarazioni della Corte penale internazionale impongono alle istituzioni di prendere provvedimenti. Altrimenti sono complici di genocidio». E purtroppo lo siamo anche noi.

GB: proiettate su Windsor immagini di Trump ed Epstein, 4 arresti

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Immagini che ritraggono Donald Trump insieme a Jeffrey Epstein sono state proiettate sulle mura del Castello di Windsor da un gruppo di attivisti, poche ore prima dell’arrivo in visita di Stato del Presidente USA. Quattro persone sono state arrestate dalla polizia della Thames Valley, accusate di “comunicazioni malevole”. L’iniziativa, firmata dal collettivo “Led by Donkeys”, mostrava articoli di cronaca sul caso Epstein, immagini delle vittime, una foto in cui Trump e il criminale pedofilo appaiono sorridenti insieme e la riproduzione di una presunta lettera di compleanno attribuita a Trump per i 50 anni del finanziere, la cui autenticità è stata smentita dalla Casa Bianca. Secondo la polizia, il Presidente USA e la First Lady Melania non erano presenti al castello al momento della proiezione, ma sono attesi per gli eventi ufficiali con re Carlo III e la regina Camilla.

Il ritrovamento di antiche statuette racconta il ruolo della Sardegna nel Mediterraneo antico

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Un enigma che ha affascinato gli studiosi per decenni sembra aver finalmente trovato una risposta: la provenienza dei metalli con cui furono realizzati i celebri bronzetti nuragici, ovvero piccole statuette raffiguranti guerrieri, divinità e animali, simbolo della Sardegna dell’età del bronzo, era principalmente la Sardegna stessa, anche se talvolta venivano effettuati miscugli con metalli importati dalla penisola Iberica. È quanto emerge da un nuovo studio condotto da un team internazionale, sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista PLOS One. Analizzando 48 bronzetti e tre lingotti di rame provenienti da importanti santuari nuragici con un innovativo approccio chiamato “multi-proxy”, i ricercatori hanno chiarito che non vi fu impiego di rame dal Levante e che lo stagno doveva invece essere importato. «I risultati mostrano che i bronzetti erano realizzati principalmente con rame proveniente dalla Sardegna», spiega Daniel Berger, spiegando che la miscela dei metalli seguiva scelte strategiche.

Nell’età del bronzo la Sardegna era spesso considerata periferica nel panorama mediterraneo, vista più come destinataria di metalli che come produttrice e nodo commerciale. L’ipotesi prevalente attribuiva un ruolo centrale a Cipro e ad altre regioni orientali, ridimensionando l’apporto dell’isola. A complicare il quadro erano le difficoltà nel distinguere le firme isotopiche del rame sardo da quelle iberiche o levantine, oltre all’incertezza sull’uso effettivo delle miniere locali. Il nuovo studio, però, ritiene di aver superato questi limiti con un approccio multi-proxy – cioè l’integrazione di diverse analisi chimiche e isotopiche – che ha combinato isotopi di rame, stagno, piombo e osmio. Quest’ultimo, raramente applicato in archeometallurgia, si è rivelato decisivo per escludere con chiarezza l’uso di metalli provenienti dal Levante, ovvero l’area orientale del Mediterraneo comprendente Israele e Giordania. Le analisi, spiegano gli autori, hanno così permesso di tracciare i flussi di approvvigionamento e di mostrare come le scelte metallurgiche della cultura nuragica fossero più articolate e consapevoli di quanto si pensasse.

Il cuore della ricerca è stato lo studio dei bronzetti provenienti da tre santuari principali: Su Monte di Sorradile, Abini di Teti e Santa Vittoria di Serri. In questi luoghi, veri centri politici e religiosi, le statuette erano offerte votive e simboli identitari. Le analisi hanno mostrato che il rame utilizzato proveniva in gran parte dalle miniere locali del distretto Iglesiente-Sulcis, talvolta mescolato con rame importato dalla Penisola Iberica. Al contrario, altri metalli disponibili sull’isola, come stagno e piombo, non furono impiegati: lo stagno necessario per la lega bronzea era importato, probabilmente dalla Penisola Iberica, mentre il piombo locale non venne utilizzato. Secondo i ricercatori, il metallo lavorato nei diversi santuari mostra firme chimiche molto simili, segno di una strategia comune nella produzione. «I metodi archeologici costituiscono una solida base che i più recenti metodi scientifici possono perfezionare e spiegare. Questo porrà fine a vecchie discussioni. Nel nostro caso, le più recenti conoscenze geochimiche indicano l’origine del metallo in specifiche aree geografiche e in determinate miniere. In diversi casi è anche possibile tracciare una miscela strategica di rame di origini diverse, presumibilmente per ottenere determinati effetti come il colore e la resistenza del prodotto», commenta Helle Vandkilde, che ha coordinato lo studio. L’indagine suggerisce inoltre legami con l’Europa settentrionale: «Grazie alle nuove conoscenze sulla provenienza del metallo siamo un passo più vicini a mappare i collegamenti tra Sardegna e Scandinavia», conclude Heide Wrobel Nørgaard.

Gaza, 400 mila in fuga dopo l’inizio dell’offensiva israeliana

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Sono 400 mila i cittadini di Gaza City in fuga dopo che, nella notte tra lunedì 15 e martedì 16 settembre, l’esercito israeliano ha iniziato l’assalto di terra alla città, intensificando gli attacchi contro edifici e civili. Solamente da stamattina sarebbero almeno 17 le persone uccise, oltre un centinaio nelle ultime 24 ore. Lunghe code di persone in fuga verso il sud si sono formate lungo la costa, mentre fonti dell’esercito avrebbero riferito ai media che l’operazione dovrebbe durare “diversi mesi”.

Prato, Italia: operai in sciopero per denunciare lo sfruttamento, pestati dall’azienda

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Succede in Italia, per la precisione nella civile Toscana, anno 2025: 80 anni dopo la fine del fascismo e 55 dopo l’approvazione dello Statuto dei lavoratori, che stabilì la tutela inviolabile della libertà e della dignità dei lavoratori e dell’attività sindacale. Un gruppo di operai di una stireria industriale, nel distretto della moda di Prato, è al sesto giorno di sciopero per denunciare l’uso di contratti pirata e orari di lavori di 12 ore al giorno per sette giorni la settimana. Arriva la titolare della fabbrica, che distrugge i gazebi del presidio sindacale e prende a pugni e calci gli operai. Poi arriva una macchina, dalla quale scendono degli uomini che iniziano a rincorrere gli operai e a prenderli a pugni in faccia e in testa. Un lavoratore rimane a terra, deve portarlo via l’ambulanza. È tutto vero, testimoniato dal video registrato dagli stessi lavoratori. Ed è vero anche che le reazioni da parte del governo sono state pressochè nulle e la ministra del Lavoro, Marina Elvira Calderone, non ha pronunciato una parola sull’accaduto.

È trascorso appena un anno dalla brutale aggressione contro i lavoratori del tessile di Seano, a pochi chilometri da Montemurlo, distretto del tessile di Prato. Nella notte del 9 ottobre 2024, uomini vestiti di nero fecero irruzione al picchetto della pelletteria Confezione Lin Weidong, pestando gli operai con spranghe di ferro. Secondo il sindacato, si trattava di soggetti ingaggiati dall’azienda per “punire” la protesta dei lavoratori che denunciavano turni massacranti da 12 ore al giorno, 7 giorni a settimana, spesso in assenza di contratti regolari. E non era nemmeno la prima volta che si verificavano episodi simili, raccontava allora SUDD Cobas a L’Indipendente. Oggi, la storia torna a ripetersi.

Gli operai della stireria Alba Srl erano in sciopero dall’11 settembre scorso, «per difendere il posto di lavoro e i diritti conquistati». Fino al gennaio di quest’anno infatti, gli operai (impiegati nella confezione di abiti di alta moda) erano assunti da ForService Srls, pur lavorando per Alba Srl, e nonostante svolgessero mansioni di stiro e cucito veniva loro applicato il CCNL Pulizie – con paghe nettamente inferiori a quelle dovute. Prima ancora, spiega SUDD Cobas, erano impiegati presso ReStiro Srl, sparita dopo alcuni mesi senza pagare stipendi e TFR. Grazie alle lotte sindacali i lavoratori hanno ottenuto di essere assunti direttamente da Alba Srl, ma ad aprile le macchine da cucire sono state nuovamente spostate senza spiegazione in uno stabilimento di ForService. L’intento dell’azienda, spiega il sindacato, era probabilmente quello di svuotare e chiudere lo stabilimento senza dire nulla ai dipendenti, che a fine agosto sono stati anche lasciati a casa tre settimane dopo che le forti piogge avrebbero danneggiato le macchine da stiro (ma senza che l’azienda fornisse al sindacato alcuna prova che questo fosse accaduto). Il tutto, in un contesto lavorativo «drammatico»: i lavoratori venivano «reclutati anche in altre città da un caporale e costretti a turni di dodici ore al giorno oltre che a vivere in una sorta di segregazione tra la fabbrica e l’alloggio fornito dallo stesso caporale».

Da qui la protesta. Alla quale l’azienda ha risposto con la violenza. «I brand committenti non pensino di essere estranei», sottolinea il sindacato, chiamando la popolazione alla mobilitazione, «quello che è accaduto all’Alba Srl li riguarda direttamente». A fronte di una situazione di reiterata violenza, irregolarità e sfruttamento che riguarda un intero comparto, la politica non si è smossa più di tanto. Marco Grimaldi, di AVS, ha parlato di «violenza inaudita nel silenzio del governo Meloni», mentre Cecilia Guerra (PD) ha parlato di «scene intollerabili di violenza e sfruttamento». Dalla ministra del Lavoro Calderone, nemmeno una parola.

L’Università Statale di Milano sospende gli accordi con le università israeliane

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L’Università Statale di Milano ha deciso di sospendere tutti gli accordi in vigore con le università israeliane. La decisione è stata presa dal Senato accademico con un voto unanime, al termine di una seduta straordinaria convocata per discutere la situazione in Palestina. La mozione approvata nasce dall’urgenza di prendere posizione sul conflitto in corso e dalla volontà di assumere misure concrete di fronte alle gravi violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani denunciate da numerose organizzazioni. Con questa scelta, l’ateneo milanese diventa uno dei principali poli universita...

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Zelensky presenta il conto all’UE: altri 100 miliardi per le armi, anche in caso di pace

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Meno di un mese dopo aver commissionato agli Stati Uniti ordini di armi per 90 miliardi che saranno pagati dagli alleati europei, Kiev ha presentato all’Unione Europea un nuovo, mastodontico conto. Il ministro della Difesa ucraino, Denys Shmyhal, ha infatti dichiarato che l’Ucraina avrà bisogno di oltre 100 miliardi di euro per finanziare la sua difesa nel 2026. La richiesta è stata presentata alla conferenza annuale sulla strategia europea con una precisazione che non ammette repliche: tale somma sarà necessaria sia nel caso in cui la guerra continui, sia ove si arrivasse a un accordo di pace. L’invito del governo ucraino mette sotto pressione bilanci già tesi e riapre il dibattito in Europa su quanto sostenere Kiev nel medio termine.

Dal momento che gli sforzi di pace restano in una fase di stallo, «se la guerra continua, avremo bisogno di almeno 120 miliardi di dollari per il prossimo anno», ha affermato Shmyhal in occasione della conferenza. A ogni modo, anche se i combattimenti cessassero, «avremo bisogno di una somma leggermente inferiore per mantenere il nostro esercito in buone condizioni» in caso di un nuovo attacco russo, ha aggiunto il capo del dicastero ucraino. Una richiesta che equivale a chiedere all’Europa di farsi carico a tempo indefinito del bilancio della difesa di un paese terzo, in uno scenario di pace come di guerra. Secondo la deputata Roksolana Pidlasa, «L’Ucraina spende il 31 per cento del suo PIL per la difesa, la quota più alta al mondo», e a suo parere «un giorno di guerra costa attualmente all’Ucraina 172 milioni di dollari» rispetto ai 140 milioni di dollari di un anno fa.

Per far fronte a questa emorragia finanziaria, le autorità ucraine sostengono da tempo l’utilizzo dei circa 250 miliardi di euro di beni russi congelati in Occidente dall’inizio dell’invasione. Tuttavia, nonostante il disappunto di Kiev, l’Europa si è finora rifiutata di procedere con una confisca diretta, consapevole che si tratterebbe di una violazione senza precedenti del diritto internazionale con ripercussioni devastanti sugli investimenti. L’ex presidente russo Dmitry Medvedev ha rincarato la dose minacciando rappresaglie: «Se ciò accadesse, la Russia perseguiterà gli Stati dell’UE, così come gli eurodegenerati di Bruxelles e i singoli Paesi dell’UE che cercheranno di confiscare le nostre proprietà, fino alla fine dei tempi».

La richiesta ucraina sta già creando tensioni e fratture all’interno dei Paesi membri. In Germania, il ministro della Difesa Boris Pistorius ha segnalato la necessità di un fabbisogno aggiuntivo di oltre 10 miliardi di euro nei prossimi due anni per il sostegno militare a Kiev, rispetto alle risorse già approvate. Un documento interno del ministero, citato da Bild, rivela che per rispettare i tetti di spesa, «diverse misure con scadenza 2027 sono state stralciate o ridimensionate». La leader dell’Alleanza Sahra Wagenknecht (BSW) ha lanciato un forte allarme, sostenendo che l’attuale governo tedesco «sta imprudentemente trascinando il Paese verso un conflitto con la Russia» e avvertendo che un’escalation porterebbe a conseguenze catastrofiche, inclusa la minaccia di un conflitto nucleare. In Italia, il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha ammesso che «gli impegni internazionali, le spese in Difesa e il sostegno all’Ucraina non sono gratis», sottintendendo la necessità di trovare risorse anche a scapito di altre promesse elettorali.

A Bruxelles l’Alto rappresentante (e alcuni esponenti UE) puntano invece a strumenti già disponibili: Kaja Kallas ha richiamato il Fondo europeo per la pace (EPF) come leva per rimborsare gli Stati per gli acquisti di armi, ricordando che «se riuscissimo a sbloccare i 6,6 miliardi dell’Epf, questo potrebbe fare la differenza». Ma lo sblocco è bloccato da veti e timori politici, e resta incerta la disponibilità complessiva dell’Unione a trasformare un sostegno emergenziale in un impegno strutturale. Si è dunque davanti a un bivio: sostenere incondizionatamente Kiev con cifre che fisiologicamente impatteranno sui bilanci e sulle politiche sociali europee o cercare una via più prudente che riduca i costi ma esponga l’Ucraina a un indebolimento militare.

Occorre inoltre ricordare che le forniture di armamenti statunitensi all’Ucraina, incluso l’acquisto da 90 miliardi di dollari recentemente richiesto, sono interamente finanziate dagli alleati europei. Come rivelato dal Segretario al Tesoro statunitense Scott Bessent, gli Stati Uniti applicano un ricarico del 10% su queste vendite, trattenendo così una commissione sui trasferimenti. Questo meccanismo si inserisce in un contesto di impegni finanziari europei ben più ampi verso Washington, che includono 600 miliardi di investimenti negli USA, l’acquisto di energia per 750 miliardi e l’aumento delle spese militari con acquisti di armamenti americani, delineando un rapporto dove l’onere finanziario della difesa ucraina grava interamente sull’Europa, con un chiaro vantaggio economico per gli Stati Uniti.