Alle elezioni comunali di domenica in Renania Settentrionale-Vestfalia, la CDU del cancelliere Friedrich Merz si è confermata primo partito con circa il 33%, stabile rispetto a cinque anni fa. Il voto, il primo sotto il governo Merz, è stato interpretato come test politico nazionale. L’AfD ha registrato una crescita significativa, passando dal 5 al 15%, risultato rilevante in un Land occidentale. I Socialdemocratici, principale partito di centrosinistra e partner della coalizione di governo, sono scesi dal 24 al 22%, mentre i Verdi hanno perso terreno dal 20 al 13%. In lieve rialzo la Sinistra (Die Linke), ora attorno al 5%.
USA-Venezuela, Washington muove F-35 a Porto Rico
Continua a crescere la tensione tra Stati Uniti e Venezuela. Gli USA hanno schierato cinque caccia F-35 a Porto Rico, come parte del dispiegamento ordinato dal presidente Trump nei Caraibi per rafforzare le operazioni contro il traffico di droga. Caracas ha risposto accusando Washington di aver sequestrato un peschereccio venezuelano e ha definito la missione “una provocazione militare inaccettabile”. Il governo venezuelano ha chiesto spiegazioni formali e minacciato rappresaglie diplomatiche se non verranno restituiti il natante e l’equipaggio. All’inizio di settembre l’esercito degli Stati Uniti aveva sparato contro un’imbarcazione partita dal Venezuela e sospettata dalla Casa Bianca di trasportare droga, uccidendo 11 persone.
Cassazione: annullato licenziamento Stefano Puzzer, leader portuali Trieste
La Cassazione ha annullato il licenziamento di Stefano Puzzer, portuale di Trieste e leader delle proteste contro il Green Pass del 2021. La Suprema Corte ha stabilito che le motivazioni presentate dall’Autorità portuale non giustificavano la misura adottata. Il caso torna ora alla Corte d’Appello di Venezia, che dovrà decidere se disporre o meno il reintegro. Puzzer, noto per il suo ruolo nelle manifestazioni che portarono Trieste al centro dell’attenzione nazionale, aveva contestato il provvedimento fin dall’inizio. Con questa decisione la Cassazione apre la strada a un nuovo esame della vicenda, che potrebbe avere conseguenze anche in altri procedimenti simili. In attesa del giudizio di merito, resta sospesa la posizione lavorativa dell’ex sindacalista portuale, che ha definito la pronuncia un riconoscimento delle proprie ragioni e di quelle di chi partecipò alle mobilitazioni.
Nepal: nominata nuova prima ministra Sushila Karki
Sushila Karki, 73 anni, ex presidente della Corte Suprema, è la nuova prima ministra ad interim del Nepal. Durante il discorso d’insediamento ha promesso che il suo governo “non resterà in carica più di sei mesi”, in attesa delle elezioni previste per il 5 marzo 2026. Nella prima uscita pubblica, Karki ha annunciato che intende rispondere alle rivendicazioni della generazione “Gen Z”, chiedendo trasparenza, azione contro la corruzione e maggiore uguaglianza economica. Le autorità nepalesi hanno revocato il coprifuoco nella capitale Kathmandu e nelle zone circostanti, dopo che è tornata la calma con la fine delle proteste che hanno causato la morte di almeno 51 persone e il crollo del governo.
IDF rade al suolo grattacielo a Gaza City, Rubio oggi a Gerusalemme
Nelle prime ore di oggi un raid dell’aviazione israeliana ha colpito e completamente distrutto un edificio nel cuore di Gaza City. Lo riporta il Times of Israel. Poco prima, l’IDF aveva diffuso un avviso di evacuazione per i palestinesi residenti nel quartiere Rimal. I testimoni parlano di gravi danni anche alle abitazioni circostanti. Non è ancora chiaro il numero delle vittime, ma i soccorsi sono al lavoro tra le macerie. In un altro incidente, quattro palestinesi sono stati uccisi e decine di altri sono rimasti feriti quando le forze israeliane hanno aperto il fuoco su un gruppo di civili in attesa di aiuti nel nord di Rafah, nella parte meridionale della Striscia. Nel frattempo, il segretario di Stato americano Marco Rubio è arrivato a Gerusalemme per incontrare Netanyahu. Secondo il Dipartimento di Stato americano, lo scopo del viaggio è quello di assicurare a Israele il sostegno degli Stati Uniti malgrado il raid dell’Idf contro la leadership di Hamas a Doha e di discutere della possibilità di un’annessione israeliana di parti della Cisgiordania occupata in risposta all’annunciato riconoscimento dello Stato di Palestina da parte di numerosi Paesi occidentali.
La legge europea sul Chat Control è a un punto di svolta
Il regolamento sul cosiddetto “EU Chat Control” è arrivato a una fase decisiva: l’UE si prepara a votare una norma che imporrebbe alle piattaforme di messaggistica di installare algoritmi capaci di scansionare messaggi, immagini e file privati, anche cifrati end-to-end, per scandagliare messaggi, immagini, video, note vocali alla ricerca di abusi sessuali su minori. Presentata come una misura necessaria per proteggere i bambini online, l’iniziativa comporterebbe, però, un controllo preventivo e generalizzato delle comunicazioni private. Non si tratterebbe, infatti, di indagini mirate, ma di una sorveglianza estesa a ogni cittadino, con il rischio di errori, falsi positivi e intrusioni indebite. Le istituzioni europee giustificano il progetto con l’aumento dei casi di pedofilia, pedopornografia e adescamento di minori, fenomeni in crescita in diversi Stati membri, soprattutto tra adolescenti. Esperti e attivisti avvertono, invece, che forzare la cifratura esporrebbe milioni di utenti a vulnerabilità sfruttabili non solo dalle autorità, ma anche da hacker e criminali informatici. Il pericolo è che le chat private vengano trasformate in spazi sorvegliati per definizione, dove la promessa di sicurezza si traduce in sorveglianza di massa e in un indebolimento sostanziale dei diritti fondamentali. Se approvato, il regolamento creerebbe un obbligo per le piattaforme, compreso il caricamento di contenuti sospetti su database centralizzati per confronti con materiale illecito.
Sul piano politico, il campo si sta dividendo con chiarezza, senza che vi sia ancora una maggioranza certa. Allo stato attuale, oltre la metà dei Paesi appoggia la proposta, avanzata per la prima volta nel maggio 2022 dall’allora Commissaria UE per gli Affari interni, Ylva Johansson. Attualmente, 15 Stati sostengono la proposta, 8 Stati si oppongono ufficialmente, e 4 sono indecisi, come riporta la piattaforma online Fightchatcontrol.eu. Tra quelli contrari ci sono Austria, Belgio, Germania, Lussemburgo, Repubblica Ceca, Finlandia, Paesi Bassi e Polonia. Dopo alcune titubanze, il governo tedesco guidato dal cancelliere Merz ha confermato l’opposizione espressa con forza dal precedente esecutivo Spd-Verdi-Liberali. Nei Paesi contrari emerge una crescente consapevolezza tecnica: si avverte che l’introduzione di meccanismi di scansione preventiva comprometterebbe gli standard di sicurezza, trasformando la cifratura end-to-end in un guscio fragile. Le backdoor o i bypass necessari per consentire i controlli aprirebbero inevitabilmente varchi a intrusioni, abusi e attacchi da parte di soggetti malintenzionati. Tra i sostenitori figurano Italia, Francia e Spagna. Gli indecisi comprendono Estonia, Grecia, Romania e Slovenia. Nel Parlamento Europeo la difficoltà non è solo nazionale, ma parlamentare: critiche arrivano da gruppi che normalmente non si schierano insieme – Verdi, Alleanza Libera Europea, parte dei social-liberali, alcuni eurodeputati identitari o “populisti” – tutti accomunati dalla convinzione che «proteggere i bambini online è possibile senza una sorveglianza di massa». Sul fronte dei conservatori, anche l’europarlamentare finlandese del Partito Popolare Europeo (Ppe), Aura Salla, ha affermato che il regolamento «pone un rischio enorme di esporre le nostre comunicazioni e foto private». Le opposizioni non negano la gravità del fenomeno degli abusi su minori, ma rifiutano che la risposta debba passare necessariamente attraverso un controllo generalizzato e obbligatorio delle comunicazioni private. Secondo uno studio disposto dal Parlamento Europeo e presentato alla Commissione su Libertà Civili, Giustizia e Affari Interni, il regolamento rischia, infatti, di avere un impatto negativo per l’elevato tasso di errore sul rilevamento degli abusi nei messaggi e nei file, a partire dai contenuti diffusi dagli utenti in modo consensuale.
Alla soglia del voto, la questione non è più soltanto tecnica, ma politica e culturale: se approvata, la norma introdurrebbe per la prima volta un sistema di controllo preventivo e obbligatorio sulle comunicazioni private. L’impatto sarebbe dirompente: ogni messaggio, anche tra cittadini privi di qualsiasi sospetto, verrebbe sottoposto a un filtro algoritmico, svuotando il principio stesso della riservatezza sancito dagli articoli 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE. Dal punto di vista della sicurezza, l’imposizione di backdoor o sistemi di scansione all’interno delle piattaforme cifrate aprirebbe vulnerabilità che potrebbero essere sfruttate non solo dalle autorità, ma anche da hacker, criminali e potenze straniere. Il monitoraggio generalizzato produrrebbe, inoltre, una mole enorme di dati sensibili da gestire e archiviare, con il rischio di abusi, fughe di informazioni e perdita di controllo da parte degli utenti. La fallibilità degli algoritmi non è un dettaglio tecnico: falsi positivi potrebbero portare a segnalazioni ingiuste (come già avviene con la “polizia predittiva”), criminalizzando conversazioni private, immagini innocue o scambi professionali tutelati dal segreto medico, legale o giornalistico. Un simile contesto favorirebbe l’autocensura e inciderebbe sulla libertà d’espressione, trasformando il diritto a comunicare in un’attività sottoposta a sorveglianza preventiva. A queste criticità si aggiunge il rischio politico: un regolamento percepito come invasivo eroderebbe la fiducia dei cittadini nelle istituzioni europee, aprendo la strada a un modello di sospetto generalizzato. Anche sul piano economico, gli operatori tecnologici si troverebbero a fronteggiare costi elevati, nuovi rischi legali e una concorrenza alterata. Senza un controllo parlamentare stringente, trasparenza assoluta e tutela effettiva della crittografia, il regolamento rischia di trasformarsi in un apparato di sorveglianza istituzionalizzato, più che in uno strumento di protezione. Dall’11 settembre a oggi, in nome della sicurezza, si stanno erodendo privacy e diritti fondamentali, legittimando norme draconiane e imponendo misure liberticide. Al di là della retorica, non tutto ciò che promette protezione garantisce sicurezza, e non tutto ciò che proclama sicurezza tutela davvero la libertà.
Romania denuncia sconfinamento di un drone “russo”, nuovo allarme in Polonia
La Romania ha denunciato la violazione del proprio spazio aereo da parte di un drone russo che avrebbe violato lo spazio aereo della Romania durante un attacco sull’Ucraina occidentale, costringendo i caccia rumeni e F-16 dell’Alleanza a decollare per intercettarlo prima che sparisse dai radar vicino a Chilia Veche. Il drone sarebbe stato rilevato nella contea sudorientale di Tulcea, vicino al confine con l’Ucraina, dove era stata diffusa un’allerta alla popolazione. In contemporanea, la Polonia ha schierato i propri caccia insieme a jet NATO in un’operazione preventiva, a causa della minaccia di attacchi con droni nelle zone limitrofe dell’Ucraina, chiudendo per ore l’aeroporto di Lublino. Le autorità di Varsavia hanno confermato che la minaccia è poi rientrata e che i sistemi di difesa e ricognizione terrestri sono tornati alla normalità. L’allerta è durata circa due ore.
L’Etiopia inaugura la diga che mette a rischio la pace con Egitto e Sudan
Ad Addis Abeba è stata inaugurata la cosiddetta Diga della Rinascita (Grand Ethiopian Renaissance Dam – GERD). La diga più grande del continente africano, posta sul corso del Nilo Azzurro che, all’altezza di Khartoum, si unisce al Nilo Bianco formando il fiume più lungo del mondo. Costata quasi 5 miliardi di dollari, misura 175 metri in altezza e 1,8 chilometri in lunghezza e, con una potenza di 5.500 megawatt, produrrà circa 15.700 gigawattora all’anno. Un’infrastruttura che diventerà la centrale idroelettrica più grande dell’intero continente, fornendo corrente a più di 6 milioni di famiglie etiopi, ma che creerà anche un surplus vendibile agli altri Paesi della regione. L’opera, tuttavia, rischia di compromettere gli equilibri geopolitici dell’Etiopia con Egitto e Sudan i quali, fortemente dipendenti dall’acqua del Nilo, accusano Addis Abeba di non tenere conto delle conseguenze che la costruzione di un’opera simile può avere su di essi.
L’inaugurazione è avvenuta in concomitanza con il Secondo vertice africano sui cambiamenti climatici, dove erano presenti diverse delegazioni di Paesi africani. All’evento di apertura della diga hanno partecipato il presidente keniano William Ruto e il presidente somalo Hassan Sheikh Mohamud. Il capo di Stato etiope Abiy Ahmed ha dipinto la grande opera come «un’opportunità condivisa con tutta la regione», ma che alla base ha la necessità per Addis Abeba, chiara anche nel nome, di dare una spinta alla crescita economica del Paese, che, se prima della pandemia cresceva a ritmi incredibili, con picchi del 10%, con gli anni del Covid ha rallentato la corsa, per poi riprendere dal 2022.
Le esplorazioni sul corso del Nilo Azzurro per identificare la zona in cui poter innalzare la diga iniziarono già nel 1956, ma si fermarono con il colpo di Stato del ’74. Da lì non se ne parlò più fino al 2009 e il 31 marzo del 2011 venne posta la prima pietra. Già nel 2010, a Entebbe in Uganda, venne firmato l’Accordo Cooperativo per il Bacino del Nilo, volto a gestire le risorse idriche in modo equo e sostenibile per lo sviluppo della regione. L’Accordo fu firmato da Etiopia, Kenya, Tanzania, Uganda, Ruanda e Burundi, ma forse i due Paesi più interessati, Egitto e Sudan, si rifiutarono di firmare il documento. Negli anni di costruzione della diga si sono susseguite accuse reciproche tra Addis Abeba, Il Cairo e Khartoum. Infatti Egitto e Sudan hanno sempre accusato l’Etiopia di non tenere conto delle conseguenze di un’opera del genere sul comparto agricolo e sulle riserve idriche dei due Paesi a valle, affermando che la costruzione e il riempimento del bacino, da 74 miliardi di metri cubi, sono avvenuti in maniera unilaterale senza che ci fosse un accordo tra le parti per quanto riguarda la gestione del bacino e dei conseguenti flussi d’acqua. Le tensioni tra i tre Stati sono continuate fino alla settimana scorsa, quando Egitto e Sudan hanno rilasciato una dichiarazione congiunta affermando che la diga rappresenta «una minaccia alla stabilità della regione». A luglio Abiy Ahmed ha dichiarato che «l’Etiopia resta impegnata a garantire che la nostra crescita non avvenga a spese dei nostri fratelli e sorelle egiziani e sudanesi». Parole che non convincono Il Cairo, dato che dipende per più del 50% delle risorse idriche dal grande fiume africano e che sul suo corso ha costruito il comparto agricolo fin dal tempo dei faraoni. Stessa problematica è presente in Sudan, che, a soli 15 km dalla diga, sarà il primo a subirne gli effetti, mentre la crisi umanitaria portata dalla guerra civile non fa altro che peggiorare giorno dopo giorno. Ma se da una parte è grande la preoccupazione per Khartoum di vedersi ridimensionate le scorte idriche, è anche vero che dall’altra la GERD contribuirà a limitare le inondazioni nel Sudan occidentale. Dall’avvio dei lavori nel 2011 non è stato trovato un accordo vincolante che garantisse il flusso dell’acqua, il coordinamento operativo e le misure di sicurezza, con l’Egitto che ha sempre ribadito la validità e il necessario rispetto di un protocollo risalente agli inizi del ’900, dove si afferma che il 95% della portata del fiume è di proprietà egiziana con il Sudan in seconda posizione.
Alla mangiatoia della mega infrastruttura però non ci sono solo i Paesi della regione. Infatti nel 2019 Pechino ha chiuso un accordo tra la compagnia energetica etiope Ethiopian Electric Power e la cinese China Gezhouba Group per 40 milioni di dollari sulle attività energetiche della diga. Ma anche l’Italia, ex potenza coloniale in Etiopia, è presente con il gruppo Webuild, che opera nel settore delle costruzioni e si è aggiudicato il contratto da 5 miliardi della mega infrastruttura. «La GERD è molto più di una diga – ha dichiarato l’amministratore delegato di Webuild Pietro Salini – è l’incarnazione dello sviluppo sostenibile per tutta l’Africa». Il CEO della compagnia di costruzioni ha anche affermato che quest’opera «è in linea con la strategia del Piano Mattei: portare acqua, energia, sanità e infrastrutture dove servono, con investimenti che generano sviluppo reale, perciò il coinvolgimento delle imprese italiane risulta strategico».
In una regione da sempre alle prese con guerre fratricide e devastanti per il controllo delle risorse naturali come petrolio e oro, l’acqua potrebbe essere l’ultima goccia.