martedì 4 Novembre 2025
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Autobomba in Russia: ucciso un ufficiale militare

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Un’esplosione di un’auto nella città di Balashikha, vicino a Mosca, ha ucciso Yaroslav Moskalik, Vice Capo della Direzione Generale delle Operazioni dello Stato Maggiore delle Forze Armate russe. A dare la notizia è la portavoce del Comitato Investigativo Russo Svetlana Petrenko, ripresa dall’agenzia di stampa governativa russa TASS. L’esplosione, si legge nel comunicato, è stata causata da un «ordigno improvvisato». Il Comitato Investigativo Russo ha avviato un procedimento penale sull’incidente.

WEF, Schwab indagato si dimette: subentra l’ex CEO di Nestlé che voleva privatizzare l’acqua

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«Con l’ingresso nel mio 88esimo anno, ho deciso di dimettermi dalla carica di presidente e di membro del Consiglio di amministrazione, con effetto immediato». È la fine di un’era. Klaus Schwab, fondatore e presidente esecutivo del World Economic Forum, ha annunciato ufficialmente le sue dimissioni, con effetto immediato. Al suo posto subentrerà Peter Brabeck-Letmathe, ex direttore di Nestlé, famoso per aver sostenuto che l’acqua non sia un bene pubblico, ma che vada privatizzata. La decisione di Schwab è stata comunicata al Consiglio di fondazione nel corso di una riunione straordinaria e resa pubblica attraverso una nota ufficiale del WEF. Una mossa simbolica, certo, ma anche altamente strategica, dopo l’ennesimo scandalo che sta travolgendo in questi giorni il Forum di Davos.

L’uscita di scena del Grande Vecchio avviene, infatti, nella polvere sollevata da ben due inchieste. Lo scorso anno, infatti, il Wall Street Journal aveva svelato casi di discriminazione, mobbing e abusi. Sotto la supervisione decennale di Schwab, il Forum avrebbe fatto proliferare un ambiente di lavoro tossico, ostile alle donne e alle persone afroamericane. Dopo aver risposto a una richiesta di commento da parte del Wall Street Journal, Schwab aveva deciso di lasciare la presidenza del World Economic Forum restando solo nel board.

Le indagini in corso

Ora si scopre che il World Economic Forum ha aperto un’indagine formale su Schwab, dopo aver ricevuto una lettera anonima contenente gravi accuse di natura finanziaria ed etica a carico suo e della moglie, Hilde. Il documento, inviato la scorsa settimana al Consiglio di amministrazione del Forum, denuncia un uso improprio delle risorse dell’organizzazione e una governance opaca. Le accuse parlano di prelievi di contante effettuati da dipendenti su richiesta diretta di Schwab, utilizzo di fondi del Forum per massaggi privati in hotel e viaggi di lusso camuffati da missioni ufficiali da parte della moglie. In particolare, Hilde Schwab, ex dipendente del Forum, avrebbe organizzato riunioni di facciata per giustificare viaggi personali spesati con fondi dell’organizzazione.

Schwab ha inizialmente tentato di derubricare le accuse, definendole infondate e annunciando l’intenzione di querelare gli autori della lettera e chiunque contribuisca a diffondere queste informazioni. Tuttavia, dopo una riunione straordinaria del consiglio tenutasi a Pasqua, ha deciso di rassegnare le dimissioni con effetto immediato dalla carica di presidente.

Alla notizia delle sue dimissioni, sui social qualcuno ha festeggiato: il “pifferaio di Davos” si ritira, e con lui – sperano in molti – anche il discusso progetto del Great Reset, lanciato nel 2020 nel pieno della pandemia. Con il Grande Reset, ci troviamo dinanzi a un progetto che aspira a traghettare la popolazione globale verso una “rinascita”, attraverso l’istituzione di un “nuovo ordine” tecnologico, automatizzato, “green”, in cui nessuno avrà privacy né possiederà nulla, ma sarà “felice” (citando Ida Auken). Uno scenario distopico che prevede la creazione di una “algocrazia” in cui ogni aspetto della nostra vita rischierà di essere predisposto, controllato, automatizzato e sorvegliato da un occhio ben più crudele e spietato di quello del Grande Fratello orwelliano.

La chiusura di un capitolo?

Il World Economic Forum è molto più di Schwab. È una rete globale di potere che intreccia multinazionali, banche centrali, governi, fondazioni, università e media. Il suo obiettivo? Riprogettare la governance mondiale, superando i modelli basati sulla piccola e media impresa nazionale. Una visione tecnocratica, pianificata, centralizzata che strizza l’occhio alla tesi del saggio commissionato dalla Trilaterale, La crisi della democrazia, e mira ad automatizzare la società e ad avviare quella quarta rivoluzione industriale tanto cara proprio a Schwab. Su questo, il fondatore del WEF è molto chiaro nel descrivere nel suo La quarta rivoluzione industriale uno stravolgimento globale della nostra società in una direzione post-umana che «combina diverse tecnologie, dando luogo a cambi di paradigma senza precedenti».

In foto: Il neo-presidente ad interim del World Economic Forum ed ex presidente e amministratore delegato del gruppo Nestlé, Peter Brabeck-Letmathe

A succedere a Schwab, ad interim, è un nome non meno controverso: Peter Brabeck-Letmathe, già presidente della Nestlé. Austriaco, classe 1944, è noto per le sue posizioni radicali sull’ambiente, la tecnologia e i diritti fondamentali. Tra queste, una delle più discusse: l’idea che l’acqua non sia un diritto umano, ma un bene da pagare. Nel documentario del 2005 We Feed the World, parlando di acqua, ha affermato: «La questione è se privatizzare la normale fornitura idrica per la popolazione. E ci sono due opinioni diverse sulla questione. Un’opinione, che ritengo estrema, è rappresentata dalle ONG, che insistono nel dichiarare l’acqua un diritto pubblico. Ciò significa che, in quanto essere umano, dovresti avere diritto all’acqua. Questa è una soluzione estrema. L’altra visione sostiene che l’acqua è un alimento come qualsiasi altro e, come qualsiasi altro alimento, dovrebbe avere un valore di mercato». Ha poi aggiunto: «Personalmente, credo sia meglio dare un valore a un alimento in modo che tutti siano consapevoli del suo prezzo, e poi adottare misure specifiche per la parte della popolazione che non ha accesso a quest’acqua». Un punto di vista coerente con gli interessi di Nestlé, che controlla brand come Sanpellegrino, Vera e Panna. Ma anche una visione che suscita allarme: l’idea che l’accesso a un bene essenziale come l’acqua possa diventare oggetto di speculazione finanziaria.

A seguito delle polemiche scaturite per le sue dichiarazioni, Brabeck-Letmathe si è giustificato dichiarando di credere che l’acqua sia effettivamente un diritto umano e che le sue parole erano state estrapolate dal contesto del documentario.

Non è tutto: Brabeck è un supporter della quarta rivoluzione industriale, investitore in Moderna, sostenitore degli OGM e direttore della GESDA, un ente svizzero che promuove tecnologie emergenti come l’mRNA per “il progresso dell’umanità”.

Insomma, cambia il volto, ma non la direzione. Il WEF si conferma una delle centrali di pensiero e influenza più potenti del mondo, con un’agenda che punta dritto verso una governance globale tecnocratica. Il fatto che Schwab si faccia da parte, schiacciato sotto il peso degli scandali, non significa che l’era del Great Reset sia finita. Al contrario: potrebbe solo aver trovato nuovi interpreti, nuovi frontman altrettanto autorevoli.

Non è detto che Peter Brabeck-Letmathe rimanga a lungo presidente del WEF, ma è già chiaro che chiunque siederà in quel ruolo, non si distanzierà affatto da tali posizioni. Nel grande teatro globale, i protagonisti cambiano. Ma il copione resta lo stesso.

La storia dimenticata dei nativi americani che lottarono in Italia contro il nazifascismo

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Il tenente Ernest Childers, il tenente Jack Montgomery e il tenente Thomas Van Barfoot sono tre soldati statunitensi che hanno ricevuto la medaglia d’onore al Congresso per le azioni compiute durante la seconda guerra mondiale, nel corso della Campagna d’Italia condotta dagli Alleati per liberare la penisola dal nazifascismo. Seppure possa sembrare un fatto degno di non troppo conto, la provenienza dei militari rivela un dettaglio poco conosciuto: questi tre soldati erano nativi americani, i primi dei propri popoli a ricevere la più alta onorificenza che si possa ottenere negli Stati Uniti. Ch...

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Papa Francesco, fino a stamane 128mila visite a San Pietro

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La Sala Stampa vaticana ha comunicato che, dalla mattina di mercoledì 23 aprile alle 11:00 fino alle 8:00 di questa mattina «si sono recate nella Basilica di San Pietro per rendere un saluto a Papa Francesco oltre 128mila persone». Nella notte in migliaia si sono messi in coda per un ultimo omaggio alla salma di Bergoglio nella Basilica, che è stata chiusa alle 4 e riaperta in anticipo, alle 5.45. L’Ente Bilaterale del Turismo ha riferito che, in occasione della celebrazione dei funerali di Francesco, nelle strutture ricettive di Roma è stimato l’afflusso, tra oggi e domani, di circa 154 mila arrivi che effettueranno circa 320 mila presenze.

Le Università tornano a mobilitarsi contro il Bando MAECI e l’accordo con Israele

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Lavoratrici e lavoratori dell’università tornano a protestare contro il Bando MAECI e l’Accordo di Cooperazione tra Italia e Israele, chiedendone la sospensione per «rischio di violazione del diritto internazionale e umanitario». Dopo le mobilitazioni del 2024, una nuova lettera aperta è stata inviata al Ministero degli Affari Esteri (MAECI) e della Cooperazione Internazionale e alla Conferenza dei Rettori delle Università italiane (CRUI), accompagnata da una raccolta firme che ha già superato le 1.350 adesioni. I firmatari denunciano il legame tra il sottofinanziamento della ricerca in Italia e i fondi destinati a Paesi in guerra, come Israele, accusato di violenze indiscriminate contro i palestinesi. «Questo 25 Aprile intendiamo opporci a guerre, violenze e genocidi per difendere la dignità del lavoro e della vita di tutti», si legge nella missiva.

«Ci ritroviamo per il secondo anno a rivolgerci al MAECI, e stavolta anche alla CRUI, per chiedere che venga sospeso il bando per progetti congiunti di ricerca sulla base dell’Accordo di Cooperazione Industriale, Scientifica e Tecnologica tra Italia e Israele», scrivono gli accademici nell’apertura della lettera. Il Bando MAECI, nello specifico, prevede progetti di ricerca congiunti negli ambiti della tecnologia del suolo, dell’acqua e dell’ottica di precisione. «Apprezziamo l’esplicita esclusione dal bando di progetti che producono tecnologia dual use. Apprezziamo la cautela (già un obbligo, tuttavia, secondo la legislazione vigente) ma questa rimane una misura insufficiente di fronte al crescente disastro umanitario di Gaza (in cui la carestia e i bombardamenti sono esplicitamente rivendicati dal governo israeliano come strumenti di pressione politica legittima), al trasferimento forzato di civili, alle espulsioni e all’incessante opera di espansione territoriale in Cisgiordania, che costituiscono assodati crimini di guerra e azioni genocidarie». All’interno del documento, oltre agli oltre 51mila palestinesi uccisi dalle bombe israeliane, il blocco totale degli aiuti umanitari e l’annientamento del sistema sanitario, educativo e infrastrutturale, si ricorda come, negli ultimi 19 mesi, «le più importanti istituzioni internazionali» abbiano «rilevato un plausibile rischio di genocidio», nonché «condannato le innumerevoli violazioni del diritto internazionale da parte di Israele» e «riconosciuto l’illegalità nella quale Israele opera nei Territori Palestinesi Occupati, siano questi la Cisgiordania, Gerusalemme Est o Gaza». I firmatari evidenziano come numerosi studi e documenti abbiano provato che «le azioni genocidarie dello stato israeliano a Gaza sono rese possibili dai trasferimenti finanziari e tecnologici e al commercio di armamenti degli stati stranieri verso e con Israele».

Da qui si arriva dunque al cuore della denuncia. «La cooperazione in ambito accademico può rendere le università complici in crimini di guerra e violazioni del diritto internazionale – si legge nel documento –. Come discusso e dimostrato da colleghi israeliani e palestinesi, il sistema universitario israeliano è parte integrante del sistema militare, di apartheid e di occupazione illegale dei Territori Palestinesi. Per evitare ogni complicità, sono decine le università nel mondo che hanno interrotto la cooperazione con le istituzioni accademiche israeliane. Per il secondo anno consecutivo vi chiediamo di fare altrettanto, partendo dalla sospensione di questo bando». Mettendo in luce come il rapporto di co-dipendenza in atto tra il sistema accademico e il sistema militare israeliano renda «potenzialmente illegale» la cooperazione istituzionale con gli atenei italiani, i firmatari entrano nei dettagli: «Per esempio, la Elbit System e l’Israel Aerospace Industry (IAI) non solo sviluppano le tecnologie militari e le armi attualmente utilizzate a Gaza, ma sono nate come spin-off di istituzioni accademiche israeliane e attualmente coinvolte in progetti di ricerca internazionali. Inoltre, diverse istituzioni di ricerca israeliane hanno istituito programmi di sostegno finanziario ai soldati – per esempio, l’“Enhanced financial package”, adottato dall’Università ebraica di Gerusalemme, i “benefit” adottati dal Weizmann Institute of Technology, le iniziative di beneficenza dell’Università di Tel Aviv a favore delle truppe impiegate a Gaza e l’acquisto di equipaggiamento da parte dell’Università di Haifa per l’esercito operante a Gaza. Le università giocano un ruolo importante nella costruzione della difesa di Israele nel procedimento portato dal Sudafrica alla Corte Internazionale di Giustizia: presso l’Institute for National Security Studies (INSS) dell’Università di Tel Aviv da mesi si incontrano giuristi, esperti e funzionari del Ministero della Difesa per formulare la linea difensiva del Paese». I firmatari chiedono dunque al MAECI di «sospendere il bando» e ai rettori della CRUI «che le loro università non partecipino a questo bando» e di «non stipulare nuovi accordi con le università israeliane e sospendere quelli in corso».

Già l’anno scorso migliaia di accademici avevano sottoscritto una lettera indirizzata al ministero degli Affari Esteri per richiedere che il nostro Paese interrompesse l’accordo di cooperazione industriale, scientifica e tecnologica in vigore con Israele. Successivamente, ricercatori e universitari italiani erano scesi in piazza contro la militarizzazione degli atenei e la collaborazione con Tel Aviv nell’ambito della ricerca, portando alcuni atenei a non rinnovare la partecipazione al bando e molte università ad aderire agli appelli, chiedendo lo stop agli accordi. Per mesi, in decine di città italiane sono andati in scena presidi e occupazioni da parte degli studenti e scioperi del personale universitario. Quest’anno la lotta ricomincia da dove si era interrotta.

Gaza, massacri senza fine: oltre 70 palestinesi morti da ieri

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Sono almeno 12 le persone morte a Gaza dagli attacchi israeliani dalle prime ore di questa mattina. Tra queste, un’intera famiglia di cinque persone uccisa in un attacco a una tenda nel sud della Striscia: lo ha reso noto l’agenzia di stampa palestinese Wafa, secondo cui tra le vittime si contano un uomo, una donna incinta e i loro tre figli, che vivevano nel campo profughi di al-Mawasi. Solo nella giornata di ieri, le ondate di attacchi aerei israeliani su Gaza hanno ucciso almeno 61 palestinesi. I raid più distruttivi si sono verificati nella parte settentrionale della Striscia.

Abiti gratis: da Atacama l’iniziativa per liberare il deserto

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Il deserto di Atacama, in Cile, è un lugo noto non solo per il fascino naturalistico, ma anche per il suo essere una delle più grandi discariche a cielo aperto dei prodotti moda dismessi da tutto l’occidente, al punto da essere visibile addirittura dallo spazio. Nonostante il costante afflusso di abiti,  le idee e le azioni per denunciare questo disastro ecologico non si fermano: dopo la Atacama Fashion Week arriva Re-Commerce Atacama, un’inziativa sfrontata e rivoluzionaria che recupera gli abiti dismessi illegalmente rimettendoli in circolo. Gratuitamente.

Tra le montagne di abiti riversati nelle sabbie del Cile, infatti, non ci sono solo seconde scelte e capi malandati. Anzi. Una grande quantità di questi capi sono nuovi di zecca, dotati di cartellini ed in perfetto stato. Molti provengono direttamente dai magazzini dei marchi che, invece di venderli a prezzi più bassi o regalarli, preferiscono buttarli via (anche questo è il sistema moda). Per questo, ogni settimana, Bastián Barria, 32enne co-fondatore della fondazione Desierto Vestido, si incammina nel deserto di Atacama alla ricerca di indumenti persi tra le dune, li seleziona, li preleva e aggiunge alla pila di abiti raccolti (che ammonta già a circa due tonnellate).

Lo scorso 17 marzo, circa 300 articoli sono stati messi in vendita online sul sito recommerceatacama.com gratuitamente. L’unica spesa per i clienti è stata quella di spedizione. Tra i capi messi in vendita (e andati esauriti nel giro di cinque ore) c’erano oggetti brandizzati Nike e Adidas, Calvin Klein, gonne di pelle e abiti di disegnatori e marchi blasonati – il cui ultimo desiderio, probabilmente, è sapere che le persone hanno ottenuto gratuitamente le loro creazioni. I capi in questione sono volati in Brasile, Cina, Francia, Stati Uniti e Regno Unito. Per supportare e spingere il primo lancio, influencer e personalità sensibili all’argomento si sono fatte portavoce in rete per amplificare la notizia. Ulteriori uscite sono previste in questi mesi: sul sito è possibile lasciare la propria mail per essere avvisati dei lanci successivi. 

Re-commerce Atacama è una provocazione, parte di una campagna per sensibilizzare l’opinione pubblica sulle montagne di abiti abbandonati in Cile e sulla situazione ingestibile dei rifiuti tessili a livello globale. L’organizzazione di Barria ha collaborato con i rappresentanti di Fashion Revolution Brazil, con l’agenzia pubblicitaria brasiliana Artplan e la piattaforma di e-commerce Vtex, per mettere in piedi l’azione e renderla efficiente. Tutta l’operazione, tutt’altro che semplice, prevede la selezione, il restauro, il lavaggio e tutto il necessario per garantire le “buone condizioni” dei capi messi in vendita, più la messa online sulla piattaforma digitale.

L’iniziativa non vuole incentivare all’acquisto compulsivo, quanto piuttosto far riflettere sul problema, sulla necessità di sviluppare soluzioni alternative e circolari, ripensando il modello di business della moda. Una forma di attivismo che ripaga con la stessa moneta i brand: loro mandano tonnellate di vestiti in maniera indiscriminata nel deserto, il deserto li rimanda fuori, gratuitamente. Ripulire tutto a furia di “lanci” è quasi un’impresa impossibile ma, come è scritto sul sito, «Tutti i brand, dal fast fashion ai marchi di lusso, sono nostri fornitori. […]Ora, grazie all’indifferenza dell’industria della moda verso l’ambiente, tramite Re-commerce potete trovare capi unici a prezzi che non vi permetterebbero mai di pagare per uno dei loro prodotti. Pertanto, vi incoraggiamo a continuare a recuperare capi di abbigliamento finché non perderemo definitivamente tutti i nostri fornitori». I fornitori potrebbero obiettivamente risentirsi e decidere di gestire i propri rifiuti “in casa”, evitando di spargere il proprio surplus produttivo in giro per il mondo. 

Warraq, l’isola che resiste contro l’occupazione del regime egiziano

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Al centro del Cairo, sulle acque del Nilo, sorge l’isola di Warraq, un’oasi naturale ricca di palme e aree verdi, dove vivono circa 100.000 abitanti da sempre dediti all’agricoltura, alla pesca e al commercio. Dal 2017, l’isola è diventata di interesse commerciale per gli Emirati Arabi Uniti che, attraverso l’azienda KSC Emirates, hanno firmato con il governo egiziano accordi per 500 milioni di dollari destinati a progetti immobiliari che prevedono la costruzione di poli commerciali, alberghi e lussuosi appartamenti. Il governo egiziano ha dichiarato che l’isola diventerà la nuova “Manhattan del Nord Africa”. Tuttavia, il progetto prevede l’abbattimento di tutte le 6.000 abitazioni esistenti e lo sfollamento di migliaia di residenti.

Considerata dal governo Mubarak, nel 1998, come patrimonio naturale da preservare, l’isola di Warraq cambia status nel 2000, a seguito di una modifica alla legge sulle aree verdi che la classifica come terreno di pubblica utilità, dunque espropriabile qualora il governo lo ritenesse necessario. I cittadini insorgono e, dopo diverse battaglie legali, ottengono una vittoria contro lo Stato, dimostrando di essere i legittimi proprietari delle case e dei terreni presenti sull’isola.

Ma è con l’ascesa al potere del generale Al Sisi, nel 2013, che la crisi si acuisce. I primi scontri armati risalgono al 2017, dopo la firma degli accordi commerciali con Abu Dhabi, quando un decreto presidenziale intima ai residenti di abbandonare l’isola in cambio di risarcimenti prestabiliti. Tuttavia, le somme offerte sono giudicate del tutto insufficienti dagli abitanti, che rifiutano lo sfollamento.

In risposta, la polizia egiziana interviene con la forza, abbattendo circa 700 abitazioni e arrestando numerosi manifestanti, contro i quali – secondo quanto riportato da Al Jazeera sarebbero stati esplosi anche colpi d’arma da fuoco. Dal 2018, le operazioni della polizia sull’isola si fanno sempre più intense e violente, con demolizioni sistematiche delle abitazioni nel tentativo di costringere la popolazione ad accettare lo sgombero.

Dal 2020 al 2022, il governo egiziano tenta di riaprire il dialogo con gli abitanti dell’isola, proponendo tavoli di confronto che prevedono risarcimenti più elevati per chi accetta di abbandonare Warraq. Tuttavia, ad accettare sono solo mille abitanti. Nel frattempo, il Ministero degli Interni invia sull’isola un responsabile per lo sviluppo, l’ingegnere Osama Shuki, incaricato di organizzare incontri con la popolazione per illustrare il progetto emiratino.

Corteo funebre in seguito ad uno dei molteplici attacchi della polizia egiziana

Gli abitanti dell’isola, nonostante i ripetuti tentativi del governo, continuano a opporsi al progetto, che giudicano dannoso e inutile. Negli ultimi mesi sono ripresi gli attacchi governativi, ma questa volta è intervenuto anche l’esercito, che ha accerchiato l’isola, interrompendo più volte le forniture di gas, acqua ed elettricità, e bloccando l’unico valico marittimo verso la terraferma.

«Non lasceremo le nostre case e le nostre terre», gridano i manifestanti asserragliati, mentre gli scontri, gli arresti e i morti continuano senza sosta.

La violenza del regime egiziano non è certo una novità. Secondo il report 2025 di Human Rights Watch, il governo egiziano fa uso sistematico della repressione e della violenza contro giornalisti, attivisti e oppositori politici. Le sparizioni forzate e gli arresti arbitrari sarebbero all’ordine del giorno, così come i casi di “morte lenta” nelle carceri: prigionieri ai quali vengono negate le cure mediche e che sono sottoposti a torture fino al decesso. In un altro report, Amnesty International accusa le autorità egiziane di “silenziare” i detenuti che protestano contro le condizioni disumane di detenzione.

È di pochi giorni fa la pubblicazione, da parte della Commissione Europea, della lista dei Paesi considerati sicuri: tra questi figura anche l’Egitto, con grande soddisfazione del Presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Ma più che un Paese sicuro, l’Egitto appare sempre più come un carcere a cielo aperto.

25 aprile: confermate le principali iniziative in tutta Italia

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Nonostante molti Comuni abbiano dato forfait o ridimensionato il programma delle celebrazioni in seguito al decreto con cui il governo ha invitato a svolgere festeggiamenti «sobri», sono state confermate le principali manifestazioni per la Festa della Liberazione. Gli eventi che riuniranno il maggior numero di persone in corteo sono quelli che si terranno nei grandi capoluoghi. Il cuore delle celebrazioni è a Milano, con appuntamento in Porta Venezia. A Roma il percorso sarà da largo Bompiani a Parco Shuster, per poi arrivare in Piazza San Paolo. A Napoli i sindacati si riuniranno a largo Berlinguer leggendo articoli della Costituzione e brani della Resistenza.

In Polinesia sono stati scoperti dei coralli capaci di resistere al caldo

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Nella Polinesia francese, una missione scientifica sostenuta, tra gli altri, anche dall’UNESCO, ha scoperto un “super-corallo” capace di resistere a temperature superiori ai 30 gradi centigradi. La specie si trova nei pressi dell'atollo Tatakoto, situato a oltre 1.000 chilometri da Tahiti. Contro ogni previsione, le ricerche hanno dimostrato che decine di specie di coralli prosperano in questo ambiente instabile, a volte a un solo metro di profondità. La missione mirava a comprendere proprio i meccanismi di resilienza dei coralli di fronte alle pressioni ambientali, in particolare ai cambiamen...

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