giovedì 30 Ottobre 2025
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Secondo uno studio il DNA umano cambia molto più velocemente di quanto ipotizzato

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Non solo esistono alcune regioni del nostro DNA che mutano significativamente, ma ne esistono diverse che lo fanno a velocità sorprendenti e, soprattutto, decisamente superiori a quanto ipotizzato finora: è quanto emerge da un nuovo studio guidato da un team internazionale di ricercatori delle Università dello Utah e di Washington, sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista scientifica Nature. Attraverso l’analisi del DNA umano di quattro generazioni di una stessa famiglia che ha deciso di condividere i propri dati genetici dagli anni ’80, i ricercatori hanno realizzato quello che ritengono un “atlante genetico senza precedenti”, il quale identifica regioni del genoma “quasi intoccabili” fino ad ora, dove le mutazioni si presentano con una frequenza altissima, in certi casi quasi una per nuova generazione. Si tratta di scoperte che, secondo gli esperti, aprono nuove prospettive sia nello studio dell’evoluzione che in quello delle malattie genetiche, in quanto potrebbero aiutare a valutare meglio i rischi per le generazioni future. «Sono le mutazioni che in ultima analisi ci differenziano dalle altre specie», ha commentato la genetista e coautrice Lynn Jorde.

Per decenni, spiegano gli scienziati, gli studi sulla mutazione del DNA umano si sono concentrati sulle aree del genoma più facili da analizzare, tralasciando quelle più instabili e complesse come i cosiddetti centromeri o le regioni ripetute. Per questo motivo, i ricercatori hanno deciso di provare a colmare questa lacuna e, in particolare, lo hanno fatto sfruttando cinque diverse tecnologie di sequenziamento per ottenere una mappa ad altissima risoluzione delle variazioni genetiche in una famiglia dello Utah, la stessa che dagli anni ’80 collabora con tali esperti. I genomi dei 28 membri, distribuiti su quattro generazioni, sono stati sequenziati e confrontati per identificare le cosiddette mutazioni “de novo”, cioè quelle non presenti nei genitori ma comparse nei figli. Questo confronto diretto ha permesso di determinare con precisione la frequenza delle nuove mutazioni e di osservarne la trasmissione tra le generazioni, analogamente a quanto la “velocità della luce” permette in fisica, spiegano i coautori.

In particolare, secondo i risultati ogni persona presenterebbe in media circa 200 mutazioni genetiche non ereditarie rispetto ai propri genitori, di cui molte localizzate in regioni del genoma difficili da esaminare con le tecnologie tradizionali. Includono cambiamenti singoli di base, ma anche piccole inserzioni e delezioni, alterazioni strutturali complesse e variazioni nei tratti ripetuti del DNA. Alcune aree, inoltre, risultano talmente instabili da presentare mutazioni quasi a ogni generazione, mentre in molti casi tali variazioni sono sorte nei cosiddetti “punti caldi” del DNA e non sono state ereditate, il che implicherebbe un rischio minore per le famiglie di trasmettere malattie genetiche a più figli. «Abbiamo visto parti del nostro genoma incredibilmente mutevoli. Quasi una mutazione ogni generazione», ha spiegato Aaron Quinlan, genetista e coautore dello studio. La ricerca, infine, ha anche rivelato una forte predominanza delle mutazioni di origine paterna, e l’influenza dell’età del padre sul numero di variazioni genetiche: secondo i risultati l’81,4% delle mutazioni “de novo” germinali avrebbe origine paterna, e ogni anno in più del padre è mediamente associato a 1,55 mutazioni germinali aggiuntive. In tutti i casi, si tratta di dati resi pubblici che, secondo gli autori, costituiranno una risorsa tutt’altro che indifferente per gli studi futuri: «Ci aiuta a comprendere la variazione e i cambiamenti del genoma nel corso delle generazioni in modo incredibilmente dettagliato. Anche se rimane una domanda: Quanto sono generalizzabili questi risultati tra famiglie diverse quando si cerca di prevedere il rischio di malattie o l’evoluzione dei genomi?», concludono i ricercatori.

Gaza, almeno 30 palestinesi uccisi da attacchi israeliani

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All’alba di oggi, sabato 3 maggio, nuovi attacchi aerei israeliani hanno colpito la Striscia di Gaza uccidendo almeno 30 palestinesi. Lo riferiscono fonti mediche e reporter sul campo di Al Jazeera, aggiungendo che due persone sono state uccise in un attacco con drone nel quartiere Daraj di Gaza City e una in un altro attacco con drone a sud della città di Khan Younis. Nel frattempo, una neonata è deceduta a causa della malnutrizione e disidratazione nell’ospedale Rantisi, a ovest di Gaza City, più di due mesi dopo l’inizio del blocco israeliano sulla Striscia.

Spagna, le aziende private cercano di insabbiare le loro responsabilità nel blackout

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BARCELLONA – Dopo il blackout senza precedenti che ha interessato l’intera penisola iberica e alcune zone del sud della Francia, la situazione è rientrata quasi completamente. Ritirato lo stato d’emergenza, la circolazione dei treni a lunga e media distanza gestita dall’azienda nazionale RENFE è ripartita con regolarità, mentre i convogli ferroviari di breve distanza, come Rodalies in Catalogna, continuano a soffrire di vari disservizi. Mentre il governo spagnolo cerca ancora una risposta a una delle più gravi crisi mai verificatesi nel Paese, le aziende responsabili della distribuzione dell’energia elettrica non starebbero collaborando per aiutare a far luce sulle cause.

Nei giorni scorsi, Sánchez ha annunciato la creazione di una commissione d’investigazione gestita direttamente dalla ministra della Transizione Ecologica Sara Aagesen, mentre la Commissione Europea sta realizzando un report indipendente per fare luce sulla situazione. Non si scarta alcun tipo di ipotesi e a tal riguardo il tribunale della Audiencia Nacional e l’Istituto Nazionale di Cybersicurezza (INCIBE) hanno aperto un’indagine per escludere ufficialmente l’eventualità del cyber attacco.

In tale contesto, i media locali riferiscono come la Moncloa abbia denunciato la scarsa collaborazione delle aziende che gestiscono la produzione e la gestione della rete elettrica nazionale. Leader del settore è l’azienda privata Red Eléctrica, della quale solo il 20% delle azioni sono di proprietà statale, contro un 80% composto da capitale flottante. Nonostante a capo vi sia Beatriz Corredor, ex ministra de la vivienda durante il secondo mandato socialista di José Luis Zapatero e vicina a Pedro Sánchez, la compagnia elettrica sembra mantenere ancora grande riserbo sulle informazioni su quanto accaduto lunedì, tanto da negare ai tecnici del Governo l’accesso ai dati necessari alle indagini.

Questa situazione di impasse mette benzina sul fuoco della politica. Ogni partito dell’arco parlamentare si è ormai pronunciato sulla questione. Il Partito Popolare ha sfruttato l’occasione per scoraggiare l’impegno del Governo sullo sviluppo delle centrali di energia rinnovabile e fare propaganda sull’utilizzo del nucleare. Santiago Abascal, leader del partito di estrema destra VOX, ha attaccato direttamente il presidente del Governo, accusandolo di celare le origini del blackout e chiedendo le sue dimissioni. A sinistra, invece, la totalità dei partiti, con maggiore o minore veemenza, reclama a gran voce la nazionalizzazione delle imprese elettriche, puntando il dito proprio contro la privatizzazione del sistema e la protezione degli interessi economici ai danni dei servizi alla cittadinanza.

Secondo l’opinione di esperti come il fisico e matematico Antonio Turiel, a causare il problema è infatti stata l’avarizia dei gruppi privati, che hanno preferito ritardare gli investimenti nella stabilizzazione della rete fotovoltaica a causa di un prezzo dell’elettricità attualmente troppo basso per riuscire a rientrare nella spesa investita. Nonostante queste operazioni siano di vitale importanza per la sicurezza della rete, la legge impone che solo gli impianti installati dal 2022 necessitino obbligatoriamente dei sistemi di stabilizzazione, ma la gran parte di quelli attivi nel Paese risalgono ad epoche precedenti. L’oligopolio energetico, composto da solo cinque aziende (Endesa, proprietà dell’italiana ENEL, Iberdrola, Naturgy, Repsol y Acciona), trova protezione tra i banchi del Congresso spagnolo e salva così capra e cavoli, da un lato beneficiando solo nel 2024 di undici miliardi di euro complessivi e, dall’altro, restando esenti da tassazioni aggiuntive, grazie al voto di partiti come il Partito Nazionalista Basco, il Partito Socialista e il Partito Popolare. Il panorama mediatico del Paese, posseduto in gran parte dalle stesse aziende, ha così il compito di spazzare la polvere sotto il tappeto e sceglie coscientemente di fare luce sulle origini tecniche del blackout e intanto celare le responsabilità sociali di chi sta alla base di un sistema fallace. Gli stessi che firmano la busta paga a chi si occupa di informazione. A soffiare sull’incendio della disinformazione, oltre ai social network (che hanno raccolto le teorie più disparate diffuse dagli ormai noti influencer di estrema destra), la stessa stampa generalista non ha perso l’occasione per parlare, senza fonti accertate, di complotto ordito da Sánchez o delle presunte responsabilità russe.

Mentre vari giornali (anche italiani) raccolgono affannosamente le testimonianze di chi ha vissuto un idilliaco esempio di slow life, occultando i disagi di tutte quelle persone che vivono in una condizione di grave precarietà lavorativa (come i riders) o di chi ha patito l’assenza di servizi per rispondere ad esigenze sanitarie di vitale importanza, Sánchez è stato chiamato a rispondere per il 7 maggio prossimo davanti al Congresso dei ministri su quanto successo lunedì e sul controverso piano di riarmo. In uno scenario di quiete prima della tempesta, il Governo ha meno di una settimana di tempo per fare luce sui vari interrogativi ancora irrisolti.

L’Opec+ aumenta la produzione di petrolio a giugno

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L’Opec+ ha stabilito un nuovo aumento della produzione di petrolio per giugno, con l’aggiunta di 411mila barili al giorno, proseguendo l’accelerazione già avviata a maggio. Secondo fonti di Bloomberg, la decisione riflette specifiche strategie di alcuni Paesi chiave che guidano il gruppo, in particolare Arabia Saudita e Russia, che gestiscono la produzione e incidono fortemente sugli equilibri del mercato. Tale trend costituisce una drastica inversione di tendenza rispetto alla posizione di lunga data del cartello, che sosteneva di voler difendere i prezzi del petrolio.

 

 

Raid dei paramilitari sudanesi vicino al confine con l’Eritrea

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Un drone dei paramilitari sudanesi ha preso di mira una città di confine vicino all’Eritrea. Lo hanno reso noto fonti governative sudanesi. Nello specifico, i paramilitari sudanesi avrebbero effettuato un raid attraverso l’utilizzo di un drone sulla città orientale di Cassala, come dichiarato una fonte dell’esercito governativo rivale, che ha sottolineato all’Afp che il drone ha «preso di mira l’area di stoccaggio del carburante all’aeroporto di Cassala», attribuendo la responsabilità dell’attacco alle Forze di Supporto Rapido paramilitari. Al momento, le autorità non hanno segnalato vittime.

“Il seminatore”, una poesia di Humberto Ak’abal (1998)

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Muore la sera ingoiandosi
l’ultimo sguardo del giorno.

Il seminatore
appende la sua bisaccia di speranze
al corno di cervo
che ha inchiodato alla parete.
Si siede a sognare, a seminare
sogni nel sogno.

A guardare nell’oscurità
le sue illusioni.

E se ne va volando, volando
come un clarinero,
o come il canto di un tulul.

Si sveglia.
La notte se n’è andata.

Si rimette in spalla la sua bisaccia.

Il poeta è guatemalteco, di etnia quiché come Rigoberta Menchú, appartiene alla tradizione maya. E Rigoberta, premio Nobel per la Pace, 1992, così descrive la semina come una cerimonia nella sua comunità. «È questa una festa speciale, in cui vengono evocati anche la terra, la luna, il sole, gli animali che devono contribuire tutti, assieme alla semente, a darci da mangiare. I membri della famiglia recitano delle preghiere e promettono che non sprecheranno questo cibo. Poi, il giorno successivo, tutti quanti si dan la voce per andare a seminare» (E. Burgos, Mi chiamo Rigoberta Menchú, Giunti 1987, pp. 67-69).

Una volta seminato il mais, i fagioli e le patate, bisogna sorvegliare ogni notte che gli scoiattoli e gli altri animali selvatici non vengano a portarsi via i semi.

Ecco dunque che la notte, come scrive il poeta, è il tempo del sogno di un grande raccolto, perché, come scrive Rigoberta, il mais è il centro di tutto, «è la nostra cultura». E il mais, che è coltura e cultura, va sorvegliato sempre: anche quando spuntano le prime foglie, che sono oggetto, di altri gesti rituali, bisogna stare attenti perché gli uccelli non mangino le gemme.

Anche la poesia è un gesto rituale. I contadini maya chiedono alla terra il permesso di coltivare, di sfruttarla, così da potersi mantenere in vita, e il poeta, dal canto suo, si incarica di mantenere in vita i sogni suoi e le tradizioni millenarie del suo popolo: «Anche i sentieri ci insegnano qualcosa. Un sentiero vecchio resta per sempre un sentiero, che riassume in sé tutta la storia di coloro che vi sono transitati», scrive Rigoberta in un altro suo libro, dove impietosamente rileva che «le Nazioni Unite dovrebbero essere l’organismo di elezione per risolvere i problemi. Ma il fatto è che le vittime hanno non poche difficoltà ad accedervi» (Rigoberta, i Maya e il mondo, Giunti 1997, p.207 e 209).

Così il sogno di un poeta e di una scrittrice ambasciatrice di pace diventa il sogno di un popolo, quel popolo sterminato dagli squadroni della morte e che, nonostante questi orrori, continua a credere che l’intero universo non vada violato e che nessuno possa «comprare e vendere l’aria, la vita, e che questo non si possa fare con moltissime altre cose».

In Italia il giornalismo non se la passa bene

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Come ogni anno, nella giornata della libertà di stampa arriva puntuale la classifica mondiale di Reporter Sans Frontieres (Reporter Senza Frontiere, RSF), che stila la lista dei Paesi in base al grado di tutela della libertà di informazione. Quest’anno, in un generico contesto di peggioramento globale, l’Italia scivola al 49° posto, tra le peggiori in Europa, complice una classe politica che cerca di «ostacolare la libera informazione» con provvedimenti quali la cosiddetta “legge bavaglio” e un gran numero di procedure SLAPP (azioni strategiche volte a reprimere il dibattito pubblico). Seppure questo sia vero, la classifica si sofferma di nuovo su criteri del tutto parziali, incapace di individuare le cause profonde della crisi dell’informazione (basti pensare che quest’anno, come l’anno scorso e quello prima ancora, tra le principali minacce per l’Italia vi sono ancora i no vax).

Il rapporto di RSF cita il fatto che in Italia esiste un «panorama mediatico ben sviluppato», con «un’ampia gamma di media che garantiscono una diversità di opinioni». Una diversità che «si riflette anche nella carta stampata», che «comprende una ventina di quotidiani (Corriere della Sera, La Repubblica, ecc.), una cinquantina di settimanali (L’Espresso, Famiglia Cristiana, ecc.), oltre a numerose riviste e siti web di informazione». Quello che il rapporto non dice, tuttavia, è che si tratta di una diversificazione solo apparente, in quanto la quasi totalità delle testate più diffuse appartiene a una manciata di gruppi editoriali, a loro volta alle dirette dipendenze di un certo numero di aziende. Solo in chiusura, si fa un rapido accenno al fatto che «i media dipendono sempre più dagli introiti pubblicitari e da eventuali sovvenzioni pubbliche».

Peccato che il problema delle sovvenzioni private sia uno dei più grandi ostacoli all’esercizio di un giornalismo che possa chiamarsi tale. Il fenomeno ha raggiunto in Italia picchi tali da portare le stesse redazioni a ribellarsi contro i propri dirigenti. È stato il caso di Repubblica di qualche mese fa, quando lo stesso Comitato di redazione denunciò la pubblicazione, dietro lauto compenso, di contenuti pressochè dettati dalle aziende e spacciati come giornalistici (l’insofferenza verso Molinari da parte dei suoi stessi dipendenti lo portò ad essere poco dopo silurato dalla direzione del giornale). La manipolazione delle notizie a scopi politici è una costante dell’informazione degli ultimi anni, particolarmente evidente quando si parla di guerra in Ucraina o di aggressione militare israeliana a Gaza (dalle bufale sugli attacchi alle sinagoghe alle innumerevoli fake news sull’esercito russo, passando per la distorsione dei sondaggi e, quando non si riesce a fare di meglio, l’omissione vera e propria – ricordiamo un Mentana balbuziente che non riesce a pronunciare le parole “coloni israeliani” in diretta tv?). Il tutto a scapito della deontologia e dell’onestà intellettuale, che dovrebbero essere la base di questa professione.

Un esempio di tutto ciò lo abbiamo fornito nemmeno 12 ore fa: nel pomeriggio del 30 aprile, a seguito degli incendi che si sono propagati intorno alla città di Gerusalemme, la quasi totalità dei quotidiani italiani ha rilanciato la notizia (falsa) secondo la quale Hamas avrebbe incitato i palestinesi a «bruciare tutto». Una lettura diffusa dai media di informazione israeliani e ripresa acriticamente dai nostri quotidiani, che si sono ben guardati dall’esercitare il dovuto lavoro di verifica.

Se è vero, poi, che il governo Meloni ha messo in atto una serie di provvedimenti che limitano la libertà dei giornalisti di esercitare la propria professione (quali la citata “legge bavaglio”), il rapporto RSF non fa alcun riferimento al fatto che l’esecutivo abbia posto il segreto di Stato sul caso Paragon, il software militare israeliano dal quale un numero crescente di giornalisti ed esponenti della società civile hanno denunciato di essere stati spiati. Pur ammettendo l’esistenza di un legame contrattuale tra l’impresa israeliana e lo Stato, il governo ha risposto solamente con mezze verità, decidendo infine di trincerarsi dietro l’assoluto silenzio. La Federazione nazionale della Stampa italiana (Fnsi) e l’Ordine nazionale dei giornalisti hanno entrambe avviato una denuncia contro ignoti presso la Procura di Roma.

Insomma, i problemi che affliggono la stampa italiana sono ben più complessi, strutturali e profondi rispetto a quanto emerge dalla superficiale analisi di RSF, che sembra appellarsi più a problemi di allineamento politico. In fondo, basta osservare come sono distribuiti i colori sulla cartina per farsi venire qualche dubbio: ancora una volta, tutto ciò che non si trova allineato con le posizioni occidentali (quindi tutta la parte orientale della cartina, più Venezuela, Nicaragua, Honduras e, naturalmente, Cuba) è colorato di rosso – salvo qualche piccola eccezione. E il fatto che gran parte delle sovvenzioni all’organizzazione provengano dagli Stati Uniti, da grandi società con interessi e da enti statali potrebbe fornire una spiegazione più che sufficiente.

Siria, raid israeliani su tutto il Paese: morto un civile

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Otre 20 raid dell’esercito israeliano hanno preso di mira stanotte siti militari in tutta la Siria. Lo ha reso noto l’Osservatorio siriano per i diritti umano, che ha parlato degli «attacchi più violenti dall’inizio dell’anno». L’esercito israeliano ha annunciato di avere colpito un’infrastruttura militare. Secondo l’agenzia di stampa ufficiale siriana Sana, un civile è rimasto ucciso negli attacchi. I raid sono avvenuti dopo sanguinosi combattimenti nei pressi di Damasco e nel sud del Paese, al confine con Israele, che hanno coinvolto combattenti della minoranza drusa, supportati da Tel Aviv.

Irlanda, multa da 530 milioni a TikTok

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La Commissione irlandese per la protezione dei dati (DPC) ha annunciato una multa di 530 milioni di euro a TikTok. L’indagine della DPC è stata avviata per «esaminare la liceità dei trasferimenti da parte di TikTok di dati personali», si legge in un comunicato rilasciato dalla stessa Commissione, e intendeva verificare se la fornitura di informazioni agli utenti in relazione a tali soddisfacesse i requisiti di trasparenza previsti dal Paese. TikTok ha dichiarato di rigettare la decisione della Commissione, annunciando un ricorso.

No, Hamas non ha incitato i palestinesi a “bruciare Gerusalemme”

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Il pomeriggio di mercoledì 30 aprile, sulle alture attorno a Gerusalemme si è diffuso un vastissimo incendio che ha interessato un’area di almeno 2.000 ettari e provocato il ferimento di almeno 29 persone. Le fiamme hanno costretto le autorità israeliane a evacuare tre autostrade e oltre 7.000 persone dalle proprie case, a mobilitare 119 squadre di vigili del fuoco e 12 aerei, a dichiarare l’emergenza nazionale e a chiedere il supporto degli alleati internazionali. La notizia non è tardata ad arrivare anche in Italia: Allarme incendi a Gerusalemme. E Hamas chiama la jihad dei roghi: “Bruciate le case, ha titolato il Giornale; Brucia Israele, Hamas minaccia: «Incendiate tutto, boschi e case», l’Avvenire. Insomma, per i giornali italiani è tutto chiaro: Hamas avrebbe incitato i palestinesi a insorgere e bruciare la propria stessa terra, e sfruttato, se non addirittura provocato, lo scoppio dell’incendio per danneggiare Israele. Un’interpretazione, come prevedibile, lanciata e diffusa dai media israeliani, che i nostri giornali hanno preferito prendere per vera piuttosto che esercitare il dovuto lavoro di verifica.

La notizia del presunto appello a «bruciare tutto» di Hamas è stata lanciata dal Jerusalem Post con un articolo uscito alle 16:55 del 30 aprile e aggiornato alle 18:40 dello stesso giorno. Il JP scrive che «mercoledì Hamas ha pubblicato su Telegram un messaggio che incoraggia i palestinesi a “bruciare tutto ciò che possono di boschi, foreste e case dei coloni”». Precedentemente, sostiene il JP, «in un post su Telegram, il canale Telegram della Jenin News Network aveva invitato i palestinesi a “bruciare gli alberi vicino agli insediamenti”». L’appello sarebbe arrivato attraverso una serie di messaggi, un video e una immagine-manifesto entrambi di origine chiaramente grafica. Quest’ultimo dettaglio relativo alla locandina non è stato riportato da nessun quotidiano italiano, neanche da quelli che riprendono l’immagine senza mostrarla ai lettori descrivendola con formule a tratti fuorvianti: è il caso per esempio di Libero e il Tempo, che scrivono – usando le stesse parole – che «nel post è stata anche pubblicata la foto di una persona mascherata che appicca il fuoco a un campo».

Le parole del JP sono state riprese dalla quasi totalità della stampa italiana, nella maggior parte dei casi senza effettuare alcuna verifica. Nel suo articolo, L’Avvenire scrive che il messaggio su Telegram sarebbe comparso «nelle stesse ore in cui sono divampati i primi roghi sulle colline di Gerusalemme». Anche Sky tg24il Corriere della Sera, il Tempo, Libero, e diversi altri spiegano, usando su per giù le stesse parole, che «l’incendio è scoppiato in concomitanza» con un appello di Hamas, mentre il Messaggero e l’Huffington Post sostengono che l’appello sarebbe stato lanciato prima dei roghi: «l’appello di Hamas sui social prima dei roghi», titola il primo; «“Bruciate tutto”. la minaccia è stata seguita», il secondo.

La questione della coincidenza degli orari è stata, nella migliore delle ipotesi, frutto di una libera interpretazione dei redattori che si sono occupati degli articoli. Lo stesso articolo del JP ripreso da quasi tutte le testate italiane, infatti, sottolinea come «gli incendi boschivi sono scoppiati mercoledì mattina sulle colline della Giudea». I post incriminati di Jenin News, tuttavia, sono usciti alle 15:12 (il video) e alle 15:22 (l’immagine), e lo stesso canale riportava la prima notizia sull’incendio alle 10:30. I pochi che hanno notato il problema cronologico hanno comunque dato per certa la notizia del JP e hanno addossato ad Hamas la responsabilità di avere «approfittato» delle fiamme per lanciare gli appelli: Israele, incendi intorno Gerusalemme. Hamas ne approfitta e lancia l’appello: “Bruciate tutto”, titola per esempio La Repubblica.

I vari messaggi di incitamento a bruciare le colline attorno a Gerusalemme provengono dalla stessa Jenin News, che malgrado quanto sostengono alcune testate, come per esempio Today, non è affiliata ad Hamas, e da altri canali di informazione palestinesi anch’essi svincolati dai vari gruppi palestinesi. La foto e il video postati da Jenin News che hanno fatto tanto discutere la stampa italiana, invece, sono stati originariamente diffusi da un canale privato denominato al-Mutarad (traducibile in italiano con Il Fuggitivo) che ha condiviso i file rispettivamente alle 14:07 e alle 14:11. Neanche questo, contrariamente a quanto sostenuto da molti, risulta legato ad Hamas. Sui canali che invece sono realmente gestiti o affiliati alla firma palestinese, non compare alcun appello, e i media del gruppo palestinese si limitano a dare la notizia dell’incendio.

Hamas, insomma, non ha lanciato nessun appello a bruciare Gerusalemme, e la notizia che sarebbe all’origine degli incendi non poggia su alcuna fonte  attendibile. La causa dello scoppio dei roghi risulta infatti ancora ignota. Una fonte di sicurezza israeliana, tuttavia, ha rivelato al quotidiano israeliano Haaretz che a iniziare gli incedi sarebbero stati gli stessi coloni israeliani. Questa notizia non è verificabile, ma va sottolineato che, se fosse vera, non costituirebbe il primo episodio in cui i cittadini israeliani danno fuoco ai campi palestinesi. Articoli e inchieste giornalistici, rapporti di ONG, studi di movimenti, monografie specializzate, bollettini di istituzioni internazionali, e numerose altre analisi testimoniano infatti che una delle pratiche coloniali comuni in Palestina è proprio quella di dare fuoco ai campi dei palestinesi per espropriare i terreni alla popolazione araba e trapiantarvi flora non autoctona. Lo stesso Jewish National Fund (JNF), che possiede circa il 13% di tutto il territorio israeliano e si occupa della flora locale, ammette che alcuni degli alberi piantati dall’organizzazione non sono autoctoni. Questi, tra l’altro, sono particolarmente sensibili ai climi caldi della Palestina, fattore che li rende soggetti al rischio di incendi.