giovedì 11 Settembre 2025
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I professori della Columbia si schierano con gli studenti pro-Gaza contro la repressione

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Il corpo studentesco del Columbia College mentre approva a stragrande maggioranza un referendum che chiede all’Università di disinvestire da Israele, annullare l’apertura del Tel Aviv Global Center e porre fine al programma di doppia laurea dell’Università di Tel Aviv.

L’amministrazione Trump ha accusato la Columbia University, una delle istituzioni accademiche più prestigiose degli Stati Uniti e teatro negli scorsi mesi di rumorose proteste studentesche pro Palestina, di ostacolare le indagini federali sugli studenti coinvolti nelle manifestazioni. Secondo la portavoce della Casa Bianca Karoline Leavitt, l’università avrebbe ricevuto una lista di nomi ma si sarebbe rifiutata di aiutare il Dipartimento di Sicurezza Interna a identificarli all'interno del campus. Nel frattempo, alcuni professori dell'istituto hanno apertamente preso posizione in difesa dei pr...

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Torino: 39 attivisti indagati per aver difeso il parco del Meisino dalle ruspe

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A Torino 39 attivisti sono indagati con l’accusa di violenza privata aggravata e danneggiamento per avere difeso il parco del Meisino dalla distruzione. Nello specifico, la Procura indaga su un totale di quattordici episodi in cui i dimostranti, persone di età compresa tra i 23 e i 79 anni, hanno danneggiato le recinzioni dei cantieri per entrare nei siti di costruzione e impedire il lavoro di operai, ruspe e camion. «I 39 indagati sono stati selezionati nel mucchio» scrive il Comitato “Salviamo il Meisino”, evidenziando il tempismo con cui è arrivata la denuncia, giunta alla vigilia della distruzione di una parte di parco che sarà sostituita dalla passerella ciclopedonale.

La protesta è nata dalla ferma opposizione dei comitati ambientalisti al progetto finanziato con 11,5 milioni di euro del PNRR. Secondo il Comune, la struttura offrirà spazi dedicati alla formazione ambientale e alle attività sportive, con 20 impianti immersi nel verde. Gli attivisti, invece, denunciano il rischio di una cementificazione selvaggia che comprometterebbe uno dei polmoni verdi più importanti della città. Il nodo del contendere è l’abbattimento di circa 50 alberi, tra salici, pioppi, carpini, aceri e robinie, che secondo il comitato ‘Salviamo il Meisino’ è avvenuto senza un’adeguata condivisione con la cittadinanza. Nei giorni scorsi gli attivisti avevano chiesto una sospensione dei lavori almeno fino al 18 marzo, data in cui era attesa l’udienza sul ricorso presentato contro il progetto. Tuttavia, i lavori sono proseguiti senza attendere il giudizio del tribunale.

Gli attivisti non arretrano di un passo e denunciano quella che definiscono una «criminalizzazione del dissenso». In una nota, il Comitato ha scritto che, dovendo affibbiare alla condotta degli attivisti un articolo del Codice Penale, «paradossalmente è stato scelto il 610, violenza privata, quando sono loro e il resto della cittadinanza a essere vittime di violenza pubblica continuata: in questo progetto si è opportunamente schivata ogni fase di partecipazione, il suo iter è disseminato di irregolarità, l’esecuzione non rispetta le norme di sicurezza e devasta irrimediabilmente la riserva naturale protetta del Meisino, un bene comune». Inoltre, aggiunge il Comitato, «questa violenza si perpetra sprecando fondi pubblici del PNRR da restituire con interessi, cui si aggiungono i costi delle Forze dell’Ordine schierate a fare da guardie giurate dei cantieri».

Sul fronte politico, è arrivata la solidarietà del Movimento 5 Stelle, che ha criticato aspramente la gestione della vicenda da parte della giunta comunale. «Questo progetto è stato avviato senza alcuna condivisione con la cittadinanza e senza trasparenza sui reali impatti ecologici», dichiarano i consiglieri pentastellati Andrea Russi, Dorotea Castiglione e Valentina Sganga. «Non si trattava solo di abbattere una ventina di alberi, come dichiarato inizialmente, ma di radere al suolo un boschetto con una cinquantina di piante sane e vitali. Non è così che si fa educazione ambientale». Anche Sinistra Ecologista critica il ricorso al diritto penale per gestire il dissenso. «Non si può reprimere la protesta con le denunce», affermano i consiglieri Sara Diena ed Emanuele Busconi. «Sin dall’inizio avevamo chiesto un confronto più ampio, per evitare uno scontro che ora appare insanabile».

Per gli attivisti, il caso Meisino non è un’eccezione, ma l’ennesima dimostrazione di come a Torino venga sistematicamente repressa la protesta sociale, mentre non si arresta la spinta alla cementificazione. Dallo sgombero dell’Asilo Occupato ai processi ai militanti No Tav, fino alle recenti mobilitazioni sui temi ambientali, si evidenzia come la città sia diventata un laboratorio di criminalizzazione del dissenso. «Si parla di educazione ambientale, ma si abbattono alberi senza ascoltare chi quella natura la vive e la tutela», denunciano gli ambientalisti. «Si vuole forse far passare il messaggio che il green è accettabile solo quando conviene a chi governa?». Nel frattempo, mentre i 39 indagati attendono di conoscere il loro destino a livello processuale, le ruspe continuano a scavare e gli alberi a cadere. Intanto, i membri del Comitato hanno convocato una conferenza stampa nel cortile del Campus Luigi Einaudi per lunedì 17 marzo al fine di far sentire la propria voce sulla questione di fronte ai giornalisti e all’opinione pubblica.

[di Stefano Baudino]

Bosnia, emessi mandati d’arresto per capi della Repubblica Srpska

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La Procura di Stato della Bosnia ed Erzegovina ha emesso dei mandati di arresto per esponenti politici della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina (o Repubblica Srpska), entità a maggioranza serba del Paese. Il mandato, nello specifico, colpisce Milorad Dodik, Radovan Viskovic e Nenad Stevandic, rispettivamente presidente, premier e presidente del Parlamento della Repubblica Srpska, accusandoli di avere “attaccato l’ordine costituzionale”. Precedentemente, i tre erano stati chiamati a rispondere in tribunale in un’indagine a loro carico. Il ministro degli Interni dell’entità bosniaca, Sinisa Karan, ha affermato che la polizia della regione agirà in conformità con la legislazione della Repubblica Srpska e che per tale motivo «nessuno sarà arrestato».

Perché L’Indipendente non smetterà di pubblicare sul social X

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Le redazioni di molti giornali più o meno mainstream pare abbiano scoperto un nuovo tema che li assilla e li preoccupa: la censura sui social media. Un tema che non li aveva mai riguardati, abituati come sono a sedersi sistematicamente dalla parte “giusta” della barricata istituzionale. Il problema riguarda, in particolare, X, il social di cui è proprietario il multimiliardario e braccio destro del presidente americano Elon Musk. Nelle ultime settimane decine di testate giornalistiche, italiane ed estere, hanno annunciato la sospensione delle pubblicazioni sulla piattaforma, accompagnando la decisione con accorati messaggi di sdegno contro la gestione e le simpatie politiche del magnate. E L’Indipendente che fa? Ora, non è che vogliamo per forza fare sempre i bastian contrari, però a noi pare che la censura sui social sia un problema di lungo corso. O siamo gli unici a ricordarsi del blocco dei contenuti sulla Palestina da parte di Instagram? O dell’accurata selezione delle informazioni autorizzate a essere diffuse operata da Facebook ai tempi del Covid (e ammessa dallo stesso Zuckerberg)?

Il 20 gennaio scorso Jérôme Fenoglio, direttore di Le Monde (uno dei più prestigiosi quotidiani francesi), scriveva un acceso editoriale nel quale spiegava che «l’alleanza di Donald Trump con i boss delle piattaforme come Elon Musk e Mark Zuckerberg rappresenta una minaccia globale al libero accesso a informazioni affidabili», motivo per il quale il giornale ha deciso di «non condividere più i suoi contenuti su X e raddoppiare la vigilanza su piattaforme come TikTok e Meta». Qualche mese prima, a novembre, era stata la volta del britannico The Guardian: «è un’idea che abbiamo preso in considerazione da tempo, visti i contenuti spesso inquietanti della piattaforma». E poi ancora il catalano La Vanguardia, i francesi Libération e Mediapart, ai quali si aggiungono un numero non indifferente di aziende e personalità politiche e del mondo della cultura – divisi tra chi ha proclamato l’abbandono della piattaforma e non l’ha mai messo in pratica e chi lo ha lasciato per davvero. In Italia, tra i giornali che hanno fatto questa scelta c’è Internazionale («è arrivato il momento di lasciare gli spazi inospitali» scriveva il 23 gennaio il direttore Giovanni De Mauro).

Ora, comprendiamo che in un mondo così complesso e che si muove rapidamente tenere traccia di tutto sia difficile, ma non è poi passato tanto tempo da quando, l’anno scorso, Instagram ha cercato di bloccare i contenuti di natura politica, in un tentativo nemmeno troppo velato di rimuovere l’informazione dai social – peraltro in un periodo storico decisivo per la politica mondiale, con gli strascichi della pandemia ancora evidenti, due guerre in corso, l’instabilità politica ed economica, le europee in vista e le presidenziali americane dietro l’angolo. O da quando Twitter e Instagram insieme tentavano di nascondere le immagini delle violenze israeliane contro i palestinesi, eliminando gli account degli utenti che condividono contenuti critici sugli sgomberi delle famiglie dalle loro case. O da quando, sempre Instagram, ha iniziato a oscurare la circolazione dei contenuti che riguardano l’aggressione israeliana a Gaza o considerati di natura antisionista?. Non a caso gli utenti hanno da tempo cominciato a digitare le parole sensibili con apparenti errori di scrittura (come G4z4 o P4l3stin4): anche se viene il dubbio che nelle redazioni dei giornaloni abbiano pensato fosse il risultato di una sbornia collettiva e non il tentativo di resistere alla censura. E di quando Meta ha messo al bando i media russi accusandoli di fare propaganda per Mosca? Possibile poi che sia successo solo a L’Indipendente di vedersi censurare dei contenuti da parte di TikTok (sempre, pensate il caso, per post sulla Palestina)? Per il Covid non serve nemmeno rivangare gli innumerevoli casi. è stato direttamente il proprietario di Meta, Mark Zuckerberg, ad ammettere di aver rimosso milioni di post a seguito delle pressioni del governo americano.

Per tutte queste ragioni ancora una volta non ci allineiamo: L’Indipendente non rimuoverà i propri contenuti da X e continuerà a utilizzare il proprio profilo sul social media. Il nostro sforzo rimane dedicato a produrre un’informazione degna di essere chiamata tale, denunciando con forza le storture del sistema e lavorando per il diritto a un’informazione onesta, libera e critica. Che poi dovrebbe essere la missione di ogni giornale. E il nostro lavoro continueremo a diffonderlo attraverso le principali piattaforme social senza stupide distinzioni visto che, tutte quante, sono di proprietà di multimiliardari tendenzialmente antidemocratici e con evidenti aspirazioni oligarchiche.

Vietnam e Singapore rafforzano la cooperazione sui cavi sottomarini

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Singapore e Vietnam hanno concordato nella giornata di oggi di rafforzare i legami e la cooperazione nei settori dei cavi sottomarini, della finanza e dell’energia, in occasione di una visita del leader del Partito comunista vietnamita To Lam alla città-Stato. Singapore è la terza nazione del Sud-Est asiatico, dopo Malesia e Indonesia, con cui il Vietnam ha stabilito una «relazione strategica globale». I Paesi del sud-est asiatico, importante snodo per i cavi che collegano Asia ed Europa, mirano ad espandere le loro reti per soddisfare la crescente domanda di servizi di intelligenza artificiale e data center. Il Vietnam prevede di lanciare 10 nuovi cavi sottomarini entro il 2030.

Australia: scoperto il più antico cratere creato da un meteorite caduto sulla Terra

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Ha battuto tutti i record precedenti diventando ufficialmente il più antico mai scoperto, si trova nell’Australia Occidentale e potrebbe persino potenzialmente aiutare gli scienziati a correggere la storia geologica del nostro pianeta: è il cratere da impatto scoperto nella remota regione di Pilbara, risalente a 3,5 miliardi di anni fa e dettagliato da ricercatori della School of Earth and Planetary Sciences di Curtin e del Geological Survey of Western Australia in un nuovo studio scientifico sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista scientifica Nature. I ricercatori hanno identificato l’impattante evento grazie alla presenza di particolari formazioni rocciose nella zona, i “coni frantumati”, che si formano solo a seguito di impatti meteoritici di enormi dimensioni e hanno permesso di stimare la velocità dello schianto a oltre 36.000 chilometri all’ora. «Prima della nostra scoperta, il cratere da impatto più antico aveva 2,2 miliardi di anni, quindi questo è di gran lunga il cratere più antico mai trovato sulla Terra», ha commentato Tim Johnson, professore della Curtin University e coautore della ricerca.

Fino ad oggi, la ricerca sui crateri d’impatto antichi ha avuto un percorso tortuoso. I crateri più vecchi conosciuti risalivano a circa 2,2 miliardi di anni fa – come quello di Yarrabubba situato nell’Australia Occidentale – e, secondo alcuni geologi, potrebbero contenere alcuni dettagli capaci di spiegare persino la formazione delle più antiche rocce terrestri. Se da una parte, infatti, esistono ricercatori convinti che le cause siano da ricercare nell’attività dei pennacchi caldi che si sollevavano dal nucleo metallico fuso della Terra o nei processi tettonici a placche dove le rocce si scontrano e si spingono l’una sopra e sotto, altri pensano che l’energia necessaria per formare le zone del Pilbara provenisse dall’esterno del nostro pianeta, sotto forma di una o più collisioni con meteoriti di molti chilometri di diametro. Secondo tale teoria, quando gli impatti sollevarono enormi volumi di materiale e sciolsero le rocce circostanti, il mantello sottostante produsse spesse “macchie” di materiale vulcanico che si evolsero in crosta continentale. Ora, nuove evidenze potrebbero aggiungere un tassello tutt’altro che indifferente: nel sito battezzato “North Pole Dome” sono stati scoperti alcuni coni frantumati, ovvero strutture rocciose che si formano sotto l’intensa pressione causata da un impatto meteoritico. Tali formazioni, unite alla presenza di sferule (goccioline di materiale fuso raffreddato), hanno fornito la prova schiacciante di un impatto planetario di enorme portata, simile per dimensioni a quello che causò l’estinzione dei dinosauri.

I coni frantumati che secondo i ricercatori forniscono la prova inequivocabile di un cratere da impatto. Credit: Tim Johnson/Curtin University

La datazione degli strati rocciosi ha confermato che l’impatto risale a 3,47 miliardi di anni fa, spingendo gli scienziati a rivedere le loro ipotesi sull’evoluzione della crosta terrestre e sull’ambiente primordiale del nostro pianeta. «Osservando la Luna sappiamo che gli impatti di grandi dimensioni erano comuni nel sistema solare primordiale. Fino ad ora, l’assenza di crateri veramente antichi ha fatto sì che fossero ampiamente ignorati dai geologi. Questo studio fornisce un tassello cruciale del puzzle della storia dell’impatto sulla Terra e suggerisce che potrebbero esserci molti altri crateri antichi che potrebbero essere scoperti nel tempo», ha dichiarato il professor Tim Johnson, aggiungendo che l’evento avrebbe causato un cratere largo più di 100 chilometri. Chris Kirkland, anch’egli della School of Earth and Planetary Sciences della Curtin University e coautore, ha aggiunto: «Scoprire questo impatto e trovarne altri risalenti allo stesso periodo potrebbe spiegare molto su come potrebbe essere iniziata la vita, poiché i crateri da impatto hanno creato ambienti favorevoli alla vita microbica, come le piscine di acqua calda. Affina inoltre radicalmente la nostra comprensione della formazione della crosta: l’enorme quantità di energia derivante da questo impatto potrebbe aver avuto un ruolo nella formazione della crosta terrestre primordiale, spingendo una parte della crosta terrestre sotto un’altra o costringendo il magma a risalire dalle profondità del mantello terrestre verso la superficie. Potrebbe aver addirittura contribuito alla formazione dei cratoni, che sono grandi masse continentali stabili che sono diventate le fondamenta dei continenti».

[di Roberto Demaio]

Il Parlamento Europeo ha approvato il piano “Rearm Europe”

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Con una maggioranza solida, l’Europarlamento ha sancito il suo appoggio al piano “ReArm Europe”, il progetto promosso dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen per rafforzare l’industria della difesa europea. Il testo, passato con 419 voti a favore, 204 voti contrari e 46 astenuti, segna un passo decisivo verso il riarmo, dando il semaforo verde a una proposta che prevede investimenti per 800 miliardi di euro nei prossimi quattro anni per la difesa. I partiti italiani di maggioranza si sono divisi, con il sì di FDI e Forza Italia e il voto contrario della Lega. Spaccato il Partito Democratico, tra astenuti e a favore. Un secco no è invece arrivato dal Movimento 5 Stelle e AVS.

Nello specifico, il Parlamento Europeo non ha direttamente votato sul piano ReArm, esprimendosi invece su una risoluzione che definisce gli indirizzi in materia di difesa e riarmo, accogliendo l’iniziativa di von der Leyen come un primo passo importante per un’azione rapida. Il piano ReArm, che ha recentemente ottenuto l’ok del Consiglio Europeo, prevede una serie di misure volte a rafforzare la capacità militare degli Stati membri attraverso un aumento degli investimenti nel settore della difesa. Uno degli elementi centrali del piano è la possibilità per i Paesi dell’UE di incrementare in modo significativo la spesa militare senza essere soggetti ai vincoli imposti dal Patto di stabilità e crescita. Questo meccanismo consentirà di generare fino a 650 miliardi di euro di investimenti nei prossimi quattro anni. Un’altra misura chiave è l’istituzione di un fondo da 150 miliardi di euro destinato a fornire prestiti agli Stati membri per finanziare progetti nel settore della difesa. Inoltre, il piano apre alla possibilità di utilizzare il bilancio dell’Unione Europea per stimolare investimenti militari, sfruttando strumenti come i programmi della politica di coesione e altre risorse finanziarie comunitarie. Il piano ReArm punta altresì a coinvolgere il settore privato nella produzione e nello sviluppo di tecnologie per la difesa, favorendo un’integrazione tra industria e finanza. A tal fine, è prevista una revisione dello statuto della Banca Europea degli Investimenti, che in futuro potrà fornire finanziamenti diretti alle aziende operanti nell’industria militare.

Il piano ReArm ha sollevato numerose critiche da parte di economisti, forze politiche e associazioni pacifiste. Sul piano geopolitico, si contesta il rischio di una corsa al riarmo che potrebbe alimentare le tensioni internazionali anziché rafforzare la sicurezza del continente europeo. L’inclusione del settore finanziario privato nella produzione di tecnologie belliche solleva inoltre interrogativi sull’effettivo controllo democratico di questi investimenti e sulla possibilità che si crei un’industria della difesa sempre più indipendente dagli Stati. Uno dei principali allarmi riguarda il possibile indebolimento delle politiche sociali: mentre i governi continuano a ricevere richiami per il contenimento del debito pubblico e per la spesa in settori strategici come sanità e istruzione, il piano ReArm introduce infatti una deroga alle regole di bilancio esclusivamente per la difesa, privilegiando il comparto militare a scapito di altre necessità. L’introduzione di incentivi agli investimenti militari attraverso i fondi della politica di coesione, inoltre, potrebbe distogliere risorse da progetti destinati alla transizione ecologica, all’innovazione e al welfare. Inoltre, la revisione dello statuto della Banca Europea degli Investimenti per permetterle di finanziare l’industria della difesa è vista da alcuni come un segnale preoccupante di militarizzazione delle istituzioni economiche europee.

Nel suo discorso tenuto ieri all’Eurocamera, la presidente della Commissione ha sottolineato la necessità di potenziare la produzione militare e la deterrenza strategica. Von der Leyen ha giustificato il ricorso alla procedura accelerata ex articolo 122 del Trattato UE – che consente di accorciare i tempi dell’approvazione del ReArm Europe, che approderà direttamente al Consiglio dell’UE ed eviterà il passaggio nel Parlamento Ue –, attirandosi critiche da parte del Partito Popolare Europeo e di Renew, che sostengono il progetto ma chiedono il coinvolgimento pieno dell’Eurocamera. I socialdemocratici, pur riconoscendo la necessità di rafforzare la difesa, insistono sulla creazione di debito comune e sulla salvaguardia del modello sociale europeo. Il piano è stato accolto con favore anche da conservatori, verdi e da una parte delle forze sovraniste, seppur con riserve sulla gestione delle risorse e sul rapporto con la NATO. La Sinistra e i movimenti progressisti – tra cui gli italiani AVS e M5S, che ieri ha organizzato una protesta fuori e dentro il Parlamento europeo (mentre il PD si è spaccato) – hanno invece criticato duramente la strategia di Bruxelles, accusando von der Leyen di militarismo e ignoranza della via diplomatica.

[di Stefano Baudino]

All’aeroporto di Montichiari si trasportano armi: la denuncia dei lavoratori

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Dopo mesi di denunce, gli operatori dell’aeroporto commerciale di Montichiari, situato in provincia di Brescia, hanno lanciato un presidio per contestare il presunto impiego militare della struttura. I lavoratori, di preciso, dichiarano di essere costretti a maneggiare materiale esplosivo in quello che, almeno in linea teorica, risulterebbe uno scalo commerciale civile. L’attrezzatura militare, sostiene il personale aeroportuale, verrebbe trasportata per chilometri da lavoratori sprovvisti di patenti idonee alla gestione di materiali pericolosi, transitando vicino a edifici civili. In passato, i lavoratori si erano già mossi per protestare contro l’utilizzo militare delle piste di Montichiari, e uno di loro era stato oggetto di un provvedimento disciplinare da parte di GDA Handling, il gestore dell’aeroporto.

Il presidio contro il traffico militare nell’aeroporto di Montichiari è stato lanciato da Unione Sindacale di Base (USB) e si terrà venerdì 14 marzo in centro a Brescia. Nel comunicato, il sindacato denuncia come, recentemente, i lavoratori abbiano dovuto, maneggiare «materiale bellico di categoria A1», ossia «dispositivi di lancio ed ordigni militari ad effetto esplosivo». Questo lavoro, spiega il sindacato, ha comportato «lo scarico dai camion, la palettizzazione su una piazzola remota diversa dal solito, ai margini dell’area e il successivo posizionamento sui carrelli»; il tutto compiuto da personale sprovvisto di patente DGR per la gestione degli esplosivi che ha percorso «circa due chilometri transitando vicino agli edifici civili”». «I lavoratori non voglio essere parte di questa catena di montaggio di armi, né partecipare a conflitti in giro per il mondo», rivendica il personale di Montichiari, chiedendo che venga tutelata la loro libera scelta di avere un impiego civile e la loro sicurezza.

Non è la prima volta che gli operatori dello scalo di Montichiari denunciano la presenza di merci pericolose nell’infrastruttura: già lo scorso giugno i lavoratori addetti al carico e scarico avevano segnalato attività di trasporto di materiale bellico, tra cui armi ed esplosivi, «con tutti i conseguenti rischi per i lavoratori e le popolazioni limitrofe». A ottobre, invece, Luigi Borrelli, il rappresentante sindacale di USB presso l’aeroporto, ha denunciato pubblicamente i movimenti di carico e scarico di materiale bellico. In seguito a queste dichiarazioni, la società GDA Handling ha mosso nei suoi confronti una contestazione disciplinare.

[di Dario Lucisano]

La Groenlandia alle urne sceglie l’indipendenza graduale del centrodestra

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Con il 99% dei voti scrutinati, il partito dei Democratici (Demokraatit) ha vinto le elezioni in Groenlandia, ottenendo oltre il 30% dei suffragi e triplicando ampiamente i suoi consensi rispetto al 2021, quando ottenne solo il 9% dei voti. I democratici, guidati da Jens Frederik Nielsen, già ministro dell’Industria e delle Materie Prime tra il 2020 e il 2021, hanno ottenuto 10 seggi su 31 nel Parlamento di Nuuk e sostengono un’indipendenza graduale dal Regno di Danimarca, di cui la Groenlandia fa parte, pur avendo ampie autonomie di governo dal 1979. Si tratta di un risultato elettorale inaspettato che ribalta lo scenario politico dell’isola di 57 mila abitanti, proprio alla luce della questione dell’indipendenza, tornata al centro della discussione, dopo le dichiarate mire imperialistiche di Donald Trump:  «Certamente per noi è una sorpresa, siamo felici e sento che le nostre parole hanno aiutato la gente, ma non ci aspettavamo che le elezioni cambiassero così tanto», ha detto Nielsen in un’intervista a KNR TV, aggiungendo che «Il Paese ha bisogno che ci uniamo in un momento di interessi stranieri. Dobbiamo essere uniti, quindi negozieremo con tutti».

Il partito vincitore è sostenitore di un’indipendenza graduale, risultando più cauto rispetto ai suoi avversari politici, anche per proteggersi dalle mire di Trump, e proprio questo approccio gli ha permesso di prevalere sulle altre formazioni, tra cui quelle appartenenti alla coalizione uscente, che hanno registrato un netto crollo: la sinistra di Inuit Ataqatigiit del premier uscente Mute Egede, è scesa dal 36 al 21,62%, e i socialdemocratici di Siumut, sono in calo dal 30 a poco meno del 15%.  Il secondo partito più votato, invece, è stato il partito populista Naleraq, che ha ottenuto il 25% dei consensi, in decisa crescita rispetto ai soli 12% dei voti registrati nel 2021. Il capo del partito social-liberale vincitore alle urne, Nielsen, è schierato su posizioni apertamente anti Trumpiane, nazionaliste e identitarie. Prima delle elezioni, infatti, ha affermato che i progetti espansionistici del presidente statunitense sono «una minaccia alla nostra indipendenza politica», aggiungendo che «Non vogliamo essere americani. No, non vogliamo essere danesi. Vogliamo essere groenlandesi. E vogliamo la nostra indipendenza in futuro. E vogliamo costruire il nostro paese da soli, non con la sua speranza». La gradualità dell’indipendenza dalla Danimarca è vista anche in funzione di difesa rispetto alle ingerenze statunitensi: «Perché Trump sostiene l’indipendenza? Perché può rivolgersi direttamente a noi, evitando la Danimarca, e spera che così saremo facili da influenzare» ha spiegato al quotidiano Sermisiaq.

La Groenlandia, solitamente poco attenzionata dai media, ha conquistato la scena negli ultimi mesi soprattutto per la centralità geopolitica che ha assunto negli ultimi anni la regione artica, al centro delle ambizioni commerciali e strategiche di Russia, USA e Cina, e per la sua ricchezza dei giacimenti di uranio e metalli rari, ragioni che spingono gli USA di Donald Trump ad annettere l’isola, contro la volontà dei suoi abitanti. Secondo l’Economist, dei 50 materiali che il Dipartimento di Stato statunitense considera critici, la Groenlandia ne possiede circa 43. Nel sottosuolo dell’isola ci sono, fra gli altri, il molibdeno, un metallo che fuso in piccole dosi con l’acciaio ne migliora diverse qualità, e il terbio, essenziale per produrre magneti utilizzabili nel settore della difesa.

Con le ultime elezioni, i groenlandesi hanno manifestato la volontà di mantenere la loro autonomia sia da Washington che da Copenaghen, adottando un approccio moderato verso l’indipendenza e continuando quindi a restare una Nazione con piena sovranità all’interno del Regno di Danimarca, da cui Nuuk riceve ogni anno 580 milioni di euro, corrispondenti a circa metà delle entrate di bilancio.

[di Giorgia Audiello]

L’Europa presenta il nuovo piano per gestione e rimpatrio dei migranti

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La Commissione Europea ha presentato il nuovo piano per favorire il rimpatrio dei migranti irregolari, aprendo alla possibilità di trasferirli in Paesi terzi. Definite «return hub», le strutture esterne all’UE ospiterebbero i migranti per cui è già in vigore un decreto di espulsione, senza necessariamente rispettare l’obbligo di consenso sancito dall’attuale regolamento. Il piano dell’UE prevede inoltre l’istituzione di una sorta di ordine di espulsione comune, che permetterebbe agli Stati membri di allontanare migranti già respinti da un altro Paese comunitario. In generale, la nuova proposta prevede una deregolamentazione delle procedure e un inasprimento delle politiche migratorie comunitarie, muovendosi in direzione di una progressiva esternalizzazione delle frontiere. Il piano deve ora essere discusso e approvato da Parlamento Europeo e Consiglio dell’Unione Europea.

La nuova proposta della Commissione è stata presentata ieri, martedì 11 marzo, dalla vicepresidente della Commissione Europea Henna Virkkunen. Il piano prevede una semplificazione delle norme per il rimpatrio dei migranti da accompagnare a un generale inasprimento delle condizioni di espulsione, che vengono definite in maniera molto più netta. L’obiettivo sembra essere quello di fornire un quadro legale ai vari Paesi per aprire la strada all’introduzione di nuove procedure definite solo nei termini generali. Le misure più importanti che introdurrebbe sono due: il trasferimento dei migranti in Paesi terzi e la possibilità di riconoscere l’ordine di espulsione di uno Stato membro. Questa seconda misura non sarebbe obbligatoria, ma permetterebbe ai Paesi di ordinare l’espulsione di un migrante senza passare dalle procedure interne. Se per esempio una persona soggetta a ordine di espulsione in Italia dovesse spostarsi in Francia, quest’ultima potrebbe emanare un ordine senza dovere ripetere le verifiche.

Il trasferimento in Paesi terzi, invece, è definito in maniera molto vaga e nella sostanza permette agli Stati membri di siglare accordi bilaterali per esternalizzare le frontiere, rispettando una serie di condizioni basilari. «Un tale accordo o intesa», si legge, «può essere concluso solo con un Paese terzo in cui siano rispettati gli standard e i principi internazionali sui diritti umani in conformità al diritto internazionale, incluso il principio di non respingimento». Oltre a ciò l’accordo con un Paese terzo deve istituire un organismo di controllo che monitori «l’applicazione effettiva dell’accordo o dell’intesa», e può essere siglato solo dopo avere avvisato le istituzioni comunitarie. La struttura, infine, non può ospitare minori e famiglie con minori. Il resto delle regole viene lasciato in mano allo Stato membro: non viene per esempio stabilito alcun criterio minimo riguardo al limite di persone che possono venire ospitate, ai servizi da garantire ai migranti, o al personale specializzato che dovrebbe operare nelle strutture. Il trasferimento in Paesi terzi diversi da quelli di origine dei migranti, inoltre, non prevede più l’obbligo di consenso sancito dagli attuali regolamenti. Saranno insomma i singoli Stati a decidere dove spedire i migranti.

Il piano della commissione prevede anche l’introduzione di norme alternative alla detenzione più severe per i migranti irregolari, tra cui figurano l’obbligo di presentarsi regolarmente alle autorità competenti, l’obbligo di consegnare i documenti di identità o di viaggio, l’obbligo di risiedere in un luogo designato dalle autorità, il deposito di «un’adeguata garanzia finanziaria», e l’assoggettamento al monitoraggio elettronico. In generale, la nuova proposta della Commissione viaggia in parallelo al patto sui migranti approvato lo scorso aprile, confermando l’impostazione securitaria e accelerando l’imposizione del modello di esternalizzazione delle frontiere.

[di Dario Lucisano]