lunedì 27 Ottobre 2025
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Dentro la resistenza armata palestinese: le storie dei “cattivi” che i media non raccontano

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Tulkarem, Cisgiordania occupata. Siamo davanti alla sede della Croce Rossa, dove ogni settimana si radunano famigliari dei detenuti palestinesi e solidali che gridano per la liberazione dei propri cari, mostrandone le gigantografie stampate su cartelli che tengono in mano. Sorrido a una donna che ho già visto alle scorse proteste, velo nero, abito tutto nero, sembra vestita a lutto. Anche lei mi riconosce. Espressione triste sul viso, tiene in mano le immagini di un ragazzo giovane, quattro fotografie unite che raffigurano momenti di vita: appoggiato alla portiera della macchina, vestito a festa, con maglietta e cappellino in una giornata normale. Terminata la protesta, la donna, con il marito al suo fianco, si avvicina e ci invita a prendere un caffè a casa sua. L’uomo parla un po’ di inglese, lei no. Lui si chiama Ahmad, alla protesta reggeva una foto dello stesso ragazzo, ma in posa diversa. Amni, la donna, ci apre la porta di casa. Ci togliamo le scarpe ed entriamo.

Tutto il muro del piccolo salotto che ci accoglie è ricoperto di foto di ragazzi, molti con le armi al fianco o in pugno. È impressionante. Sono quasi tutti morti, scoprirò poco dopo. Torna Ahmad, chiudiamo la porta. Solo allora mi accorgo di una gigantografia verticale che mostra un giovane sorridente in maglietta a maniche corte, una mano in tasca e l’altra che stringe un fucile M-16. Ibrahim, il loro figlio, è ovunque nella stanza.

Ci sediamo, Amni rimette la foto che aveva alla protesta nel solo buco vuoto rimasto nel muro colmo di immagini. Si siede con noi, dopo averci offerto i succhi appena comprati, barrette di cioccolato e wafer.

Ibrahim è in carcere da quasi due anni. Non hanno sue notizie, non sanno niente. È condannato a 15 anni di prigione. Aveva 20 anni quando l’hanno arrestato.

Gli israeliani avrebbero provato a ucciderlo. «In realtà lo volevano morto», assicurano. È tutto vero, c’è il video. I militari israeliani si filmano spesso mentre compiono le operazioni, per poi pubblicare i video su Facebook. Ce lo fanno vedere. Il raid è di giorno, forse all’alba. Ma c’è luce. «Ecco è qui», indica Ahmad. Intanto ci spiega, nel video non si vede tutto. La porta l’hanno fatta esplodere, poi sono entrati in casa e hanno aperto il fuoco. Volevano uccidere tutti. Ibrahim è saltato dalla finestra del salotto. Gli altri sono morti. Samir e Hamza erano due dei migliori amici di suo figlio. Ci mostra una foto appesa al muro. Quattro ragazzi ridono abbracciati, nemmeno un pelo di barba sul mento. Sono ragazzini. «Loro due sono stati uccisi quel giorno. Lui» indica un terzo «è diventato martire circa un mese dopo». Ibrahim, è stato fortunato. Il video continua. Si vede un ragazzo, faccia al muro, le mani dietro la testa in segno di resa, maglietta bianca pulita e pantaloni neri. È circondato da militari. La telecamera inquadra altrove, si sentono degli spari, qualcuno grida di dolore. «È lui. Gli hanno sparato alla schiena, alle gambe. Volevano ucciderlo ma non è morto».

Amni davanti al muro dei martiri (foto di Moira Amargi)

Cinque proiettili. Poi si vede un ragazzo portato via in barella, sporco di sangue e conciato male. Subito dopo, ci mostra un’immagine di lui all’ospedale.

La madre sparisce un attimo e torna con dei vestiti tra le mani: una maglietta bianca sporca di sangue e dei pantaloni completamente stracciati. Ci fa vedere i buchi dei proiettili nei pantaloni, il sangue sulla maglietta che nel video era chiaramente bianca, la mezza impronta di una scarpa. «L’hanno anche calpestato dopo» dice.

Non si sa se può camminare, Ibrahim. La mamma l’aveva visto a un’udienza qualche giorno dopo l’arresto e perdeva ancora sangue. Non camminava, lo trascinavano a forza. «Non l’hanno curato. L’hanno mandato in prigione pochi giorni dopo, non l’hanno fatto stare in ospedale. Ora da quello che sappiamo qualche passo lo fa, ma non sappiamo se abbia ripreso davvero a camminare», dice Amni, tradotta da Ahmad. La preoccupazione per le condizioni del figlio è palpabile: le galere israeliane, soprattutto dal 7 di ottobre in poi, sono diventate uno strumento scientifico di tortura per le migliaia di persone detenute. Lo ha dettagliato ampiamente, in un rapporto pubblicato ad agosto 2024, l’organizzazione umanitaria israeliana B’Tselem, parlando di forme istituzionalizzate di abusi, torture, gravissimi atti di violenza arbitraria e aggressioni sessuali per umiliare i detenuti palestinesi. Tutti i detenuti politici palestinesi liberati in questi mesi in occasione degli scambi di ostaggi con Hamas sono arrivati in condizioni di salute deplorevoli, magrissimi, spesso non in grado di camminare, con cicatrici e segni di violenze sul corpo. Chiunque esca di prigione ha perso decine di chili a causa dell’assenza di cibo e delle malattie lasciate volontariamente diffondere tra le celle sovraffollate. Per ora sono 63 i palestinesi morti – solo quelli dichiarati – nelle prigioni d’Israele dal 7 di ottobre a oggi. Uccisi dalle torture o dall’assenza di cure.

Ahmad con il ritratto del figlio Jihad, ucciso in un’imboscata (foto di Moira Amargi)

Nella stanza c’è un’altra presenza importante, di cui ci iniziano a parlare. Ahmad porta un quadro dipinto a mano e lo appoggia alla poltrona. «Questo è Jihad, era come se fosse nostro figlio». Il quadro l’ha dipinto lui. Ahmad è un pittore eccezionale. Lavorava dipingendo pareti «nel 48». Quarantotto è un numero che si impara presto a collocare geograficamente nei territori occupati: è il modo in cui spesso i palestinesi chiamano quello che nel resto del mondo chiamiamo Stato di Israele. Lo identificano con l’anno del secolo scorso in cui i coloni ebrei proclamarono la nascita dello Stato e cacciarono centinaia di migliaia di arabi, in quella operazione di pulizia etnica che i palestinesi chiamano «Nakba»: catastrofe.

Da un anno e nove mesi, Ahmad non guadagna un centesimo: nei territori occupati quasi nessuno ha i soldi per comprare i suoi lavori, e «nel 48» non ci può più andare, Israele non gli ha più concesso il permesso d’ingresso. Padre di un combattente arrestato e zio di un martire membro delle Brigate di Tulkarem, probabilmente il permesso di lavoro non lo vedrà mai più. Una delle varie forme di vendetta di Tel Aviv verso le famiglie dei membri della resistenza: togliere – oltre a figli e nipoti – anche le possibilità di sostentamento economico.

La faccia di quel ragazzo, capelli rasati, fascia bianca sulla fronte, mi pare familiare. In effetti, per le strade di Tulkarem l’ho già vista, diverse volte. «Jihad Shehadeh è cresciuto qui. Per vari anni è stato con noi. Suo padre è stato in carcere per 15 anni». Ci mostrano le foto di due bambini che ridono a crepapelle. Jihad e Ibrahim erano come fratelli. Poi le foto di Jihad con Amni, poi Jihad con tutta la famiglia. Il legame tra loro era fortissimo, lo scoprirò meglio la sera, quando tra narghilè, tè e caffè le sorelle di Ibrahim e un altro cugino di Jihad mi faranno vedere video su video e mi racconteranno di quel ragazzo morto ammazzato da Israele nel novembre scorso.

Jihad l’hanno ucciso in un’imboscata in pieno giorno, nel campo profughi di Tulkarem. Mi fanno vedere il video di quando è stato ammazzato. Mi pare incredibile che ci siano video di ogni momento, anche dell’ultimo istante, dove la vita fugge via. Il filmato deve averlo fatto qualcuno che stava alla finestra lì sopra: si vede un furgone, targa palestinese, parcheggiato male di lato sulla strada. Dietro, nascosti, sei militari israeliani, i fucili puntati verso la strada. Una macchina bianca si avvicina da lontano. I militari iniziano a sparare. La macchina che viene ripetutamente colpita e sbanda. Un ragazzino lì sulla strada per terra che non si alza. Sarà uno dei feriti, un bambino di 14 anni che camminava verso casa. I quattro giovani uomini in macchina, invece, sono tutti morti.

Amni accanto al poster che ritrae Jihad armato, simbolo della resistenza di Tulkarem (foto di Moira Amargi)

Secondo i giornali, Jihad Maharaj Shehadeh era al comando dei gruppi di risposta rapida delle brigate di Al-Aqsa, uno dei gruppi della resistenza armata palestinese, nelle Brigate di Tulkarem. Un’altra delle persone uccise era anch’essa parte delle Brigate della città, mentre le altre due vittime non erano identificate nella resistenza. Per Israele, e per il mondo occidentale, sono nient’altro che quattro terroristi uccisi in un’operazione militare. Per la gente palestinese sono martiri, figli del popolo che hanno rinunciato alla propria vita in nome della lotta per l’indipendenza della Palestina.

Era il 6 novembre 2023. Il padre, Mehraj Shehadeh, in un’intervista ad Al Jazeera racconta una vera e propria esecuzione. Al figlio hanno sparato 68 colpi. «La sua testa era vuota. Io e il dottore l’abbiamo dovuta riempire per poterlo riconoscere. Non c’erano nemmeno gli occhi». Aggiunge Shehadeh: «Quando queste nuove generazioni cresceranno vedendo la violenza dell’occupazione – le bombe, le demolizioni, i genocidi, la morte dei loro parenti – sceglieranno a loro volta di resistere».

Non si annienta la resistenza con la violenza e con la repressione, almeno, non in Palestina. È del tutto evidente, parlando con loro. L’idea che la volontà di combattere l’occupazione israeliana con le armi sia prerogativa di gruppi terroristici è una menzogna che ci raccontiamo in Occidente, dove i palestinesi vengono divisi in due categorie: i buoni, che sono solo vittime, e i cattivi, che sono terroristi. La realtà è che la rabbia, il sentimento di rivolta e la voglia di lottare per la liberazione non fanno che crescere. 

È quello che è successo anche a Ibrahim e Jihad. Bambini cresciuti respirando l’oppressione e la violenza dell’occupazione, che da giovani hanno scelto di non accettarla e di combatterla. Anche con le armi, opponendosi con la violenza dell’oppresso a quella dell’oppressore.

«Il padre di Jihad, Mehraj Shehadeh, è stato arrestato quando Jihad aveva due anni», mi racconta Nura, la cugina. «È stato condannato a 15 anni di carcere per il suo impegno nelle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa durante la seconda Intifada». La storia della sua famiglia la narrano gli occhi orgogliosi della madre di Jihad. L’ho incontrata qualche volta, con due bimbi piccoli al seguito. Una volta proprio a casa di Ahmad e Amni. Al campo profughi di Tulkarem era in corso un raid, una delle tante incursioni con cui l’esercito israeliano sta cercando di rendere invivibili i campi profughi del nord della Cisgiordania, distruggendo le infrastrutture per forzare la gente ad andarsene. La famiglia era rimasta bloccata fuori. Si sono rifugiati a casa della sorella di Mehraj, Amni.

Jihad era il primo figlio, i fratellini piccoli avranno sei o sette anni. 18 anni di distanza tra Jihad e il secondo fratellino: poco più degli anni in cui il padre è stato rinchiuso in galera.

«Jihad provava sempre a visitare il padre in prigione. Prima con la madre, poi quando gli israeliani – ulteriore tortura per suo padre – hanno impedito alla madre le visite, con mia madre, sua zia Amni» continua Nura. «Gli israeliani cercavano sempre di fargli problemi, di disturbarlo, anche se era solo un bambino. Tornava sempre nervoso dalle visite in carcere». Quando il padre è stato rilasciato aveva 17 anni. «Ha lasciato gli studi, anche se era bravo a scuola. Ha iniziato a fare molti lavori. Era una persona tranquilla, preferiva ascoltare che parlare, entrava nel 48 illegalmente per lavorare e portare soldi a casa».

«Tra i 20 e i 24 anni è stato arrestato tre volte per vari mesi. E a 24 anni è diventato martire. Quando Amir Abu Khadiji, quello che considerano uno dei capi ideologici della lotta armata a Tulkarem, un suo amico e amico di Ibrahim, è stato ucciso, Jihad ha scelto di seguire le sue orme nella Brigata di Tulkarem. Amir l’hanno ucciso subito, per uccidere l’idea della resistenza. Jihad e altri hanno continuato la formazione del gruppo. Un’idea non si può uccidere».

Poco dopo Ibrahim è stato arrestato, e i suoi amici uccisi. Indica alcuni ragazzi che sorridono dalle foto alla parete. Ci elenca i nomi, le storie: «lui l’hanno ammazzato con un drone, a questi invece hanno sparato i soldati». Tra quegli amici uccisi c’era anche Samir, il promesso sposo di una delle sorelle di Ibrahim. Che non ha nemmeno vent’anni, ma ha già perso il compagno con cui avrebbe voluto sposarsi, il cugino, e ha il fratello in carcere. «Noi non sapevamo che Ibrahim fosse parte della resistenza. L’abbiamo scoperto quando l’hanno arrestato», continua Nura. Dopo quell’attacco Jihad ha scelto di non nascondere più la sua identità. Poi è stato arrestato dalla dall’’Autorità Palestinese per tre mesi. Quando è uscito, si è impegnato ancora di più nella costruzione della resistenza a Tulkarem.

Dopo il 7 ottobre, per quello che stava succedendo a Gaza, per gli attacchi ai campi profughi della Cisgiordania, per delle azioni repressive in particolare verso delle donne ad Al-Aqsa Mosque a Gerusalemme, il gruppo è diventato più effettivo. Ha iniziato a fare operazioni, a fare azioni armate contro le colonie israeliane, ai posti di blocco militari, a rispondere al fuoco durante gli assedi israeliani al campo rifugiati. 

(Foto di Moira Amargi)

«Jihad dormiva per strada nell’ultimo periodo», continua Nura. «Aveva paura che i militari avrebbero potuto uccidere anche i suoi familiari in caso di una irruzione per eliminarlo in casa». Mi fa vedere delle foto. Jihad che dorme con una coperta per strada, o in macchina. «A volte, prima, dormiva a casa mia. Poi ha deciso di non farlo più. Aveva paura per me e per le mie bambine». Era un obiettivo. Lo sapeva. Nonostante tutto non è riuscito a evitare che nella sua esecuzione ammazzassero altre persone. «Era una brava persona, un giusto», dice con orgoglio. «I bambini lo amavano, lo seguivano sempre. Mi aiutava anche a mantenere mia figlia, dopo che mio marito se ne era andato». 

Ci salutiamo, e le sue ultime parole, sull’uscio, sono una preghiera a raccontare questa storia in Italia: «Era un eroe, Jihad. È diventato martire per liberare la sua terra, la Palestina. Non dimenticarti di lui. Racconta la sua storia. È la storia di un partigiano».

India-Pakistan: tregua violata nella notte

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Ieri pomeriggio India e Pakistan hanno raggiunto un accordo di cessate il fuoco su mediazione degli Stati Uniti. L’aria di festa è durata poco. Tra i primi a lanciare l’allarme è stato il primo ministro del Kashmir indiano, Omar Abdullah, postando sui social il video di luci che sfrecciano sopra i tetti di Srinagar. Scene simili si sono registrate in altre località lungo il confine, accompagnate da esplosioni. India e Pakistan si sono scambiate accuse reciproche. Le prossime ore saranno cruciali per capire la tenuta della tregua.

Tuscia: la lotta dei cittadini contro il deposito unico di scorie nucleari

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I cittadini della Tuscia torneranno a manifestare a Corchiano, in provincia di Viterbo, contro la costruzione del deposito unico di scorie nucleari sul territorio. Il progetto contro cui i cittadini si battono è stato avviato nel 2021, quando Sogin (la società di Stato incaricata dello smaltimento dei rifiuti radioattivi) aveva individuato 67 aree idonee (poi diventate 51) a ospitare il deposito, di cui ben 21 nella sola area del Viterbese. Originariamente, il deposito doveva ospitare 95.000 metri cubi di scorie nucleari in un’unica area, ma, dopo una recente dichiarazione del ministro dell’Energia Pichetto Fratin, sembrerebbe che il governo abbia scartato l’idea di stoccare in un unico grande sito nazionale tutte le scorie nucleari, allineandosi alle posizioni dei comitati. Una prima vittoria, ritengono i gruppi della Tuscia, che tuttavia non fa che rilanciare la mobilitazione: dopo le dichiarazioni del ministro, «è arrivato il momento di incoraggiare le istituzioni a mettere un punto definitivo a questa storia», ha dichiarato un rappresentante dei comitati.

La mobilitazione del prossimo 11 maggio intende sfruttare l’apparente apertura da parte del governo alle richieste dei comitati per portare avanti le proprie rivendicazioni. La manifestazione – ha spiegato Famiano Crucianelli, presidente del Biodistretto della Via Amerina e delle Forre, a Radio Onda d’Urto – «acquista un’importanza superiore, perché l’obiettivo appare possibile». I comitati invitano comunque a tenere a freno gli entusiasmi e a rimanere focalizzati su quelle che sono le loro richieste: «Ad oggi – sottolineano – la procedura va ancora avanti sul vecchio programma, che prevede la Carta nazionale delle aree idonee da cui uscirà fuori l’unica area per costruire il deposito». L’annuncio di Fratin è infatti stato dato durante l’evento “Nuove Energie”, svoltosi a Torino e organizzato da La Stampa: «Stiamo studiando nuovi depositi di rifiuti radioattivi a bassa intensità», ha dichiarato il ministro. «Abbiamo ormai scartato l’idea di un centro unico, perché è illogico a livello di efficienza, ma si può pensare di andare avanti con i 22 già esistenti».

Secondo le dichiarazioni del ministro, insomma, l’individuazione dei 51 siti idonei da parte di Sogin sarebbe ormai «superata», perché poco funzionale. Un piano potrebbe essere quello di sfruttare i siti di stoccaggio già esistenti, o quello di edificarne di nuovi, abbandonando l’idea di riunire tutte le scorie in un unico deposito. Il progetto è stato lanciato nel 2021, ma in verità affonda le proprie radici in questioni che risalgono alla fine degli anni ’80, e nello specifico al referendum del 1987 che portò alla chiusura delle centrali nucleari in Italia. Sin da quell’anno, sorse l’esigenza di capire dove mettere le scorie nucleari prodotte dagli impianti italiani, oltre a quelle a minore intensità prodotte da attività industriali o legate alla medicina nucleare. Nel 2003 il governo Berlusconi fu il primo a provare a individuare un’area (in Basilicata) dove collocare il deposito unico delle scorie, che avrebbe tenuto insieme sia quelle ad alta intensità radioattiva, sia quelle a bassa intensità, ma un ampio sollevamento popolare fermò l’iniziativa.

Da allora, il dibattito per individuare il sito dove edificare il deposito si fece più serrato, e la gestione del progetto fu affidata a Sogin. Nel 2015, la società individuò una mappa di aree potenzialmente idonee a ospitare il deposito, pubblicata nel 2021. Inizialmente erano previste 67 aree idonee, poi ridotte a 51. Di queste, 21 sono situate nella Tuscia. Se dovesse essere edificato nella Tuscia, il deposito si estenderebbe per circa 150 ettari e interesserebbe almeno i comuni di Montalto, Soriano nel Cimino, Canino, Tuscania, Tarquinia, Arlena di Castro. Dei 150 ettari, 110 sarebbero destinati all’effettivo deposito e 40 a un parco tecnologico. Dei 110, invece, 10 sarebbero destinati a un’area per lo stoccaggio dei rifiuti a bassa attività radiologica, 10 per quelli a media e alta attività e 90 alle strutture di supporto. Nel complesso, accoglierebbe circa 84 mila metri cubi di rifiuti a bassa e molto bassa attività e circa 14 mila metri cubi di scorie a media ed alta attività.

Spazio, la sonda Kosmos-482 è caduta nell’Oceano Indiano

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La sonda sovietica Kosmos 482, lanciata nel 1972 per raggiungere il pianeta Venere, è caduta oggi, sabato 10 maggio, nell’Oceano Indiano a Ovest di Giacarta. Lo ha riferito l’ente statale russo Roscosmos, aggiungendo che «secondo i calcoli degli specialisti di TsNIIMash il veicolo ha penetrato gli strati densi dell’atmosfera alle 9:24 ora di Mosca, a 560 chilometri a ovest dell’isola di Middle Andaman». La sonda era stata lanciata nell’ambito del programma interplanetario sovietico per esplorare Venere. Lo scopo del lancio era studiare la densa atmosfera, la temperatura, la pressione, l’illuminazione e la composizione della superficie venusiana, ma a causa di un malfunzionamento il dispositivo è rimasto in un’orbita ellittica intorno alla Terra.

Come la comunicazione tra scimpanzé riflette le stesse strutture linguistiche di quella umana

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Gli scimpanzé non si limitano solo ad emettere versi isolati, ma sanno combinarli con una complessità che riecheggia le strutture del linguaggio umano: è quanto documentato in uno studio condotto da un team internazionale di ricercatori francesi e tedeschi, sottoposto a revisione paritaria e pubblicato sulla rivista scientifica Science Advances. Analizzando migliaia di vocalizzazioni di tre gruppi di scimpanzé del Parco Nazionale di Taï, in Costa d’Avorio, gli autori hanno dettagliato come tali animali sappiano modificare o generare significati diversi attraverso differenti combinazioni di due richiami, effettuati secondo quattro schemi distinti. Si tratta di un sistema che, secondo gli esperti, potrebbe persino risalire all’antenato comune tra gli esseri umani e le grandi scimmie e mette in discussione l’idea che la capacità linguistica avanzata sia esclusiva della nostra specie. «La complessità di questo sistema suggerisce o che ci sia effettivamente qualcosa di speciale nella comunicazione degli ominidi o che abbiamo sottovalutato la complessità della comunicazione anche in altri animali, il che richiede ulteriori studi», commentano gli autori.

La sintassi, ovvero l’insieme delle regole che determinano come i suoni si combinano per produrre significati, è considerata una delle componenti centrali del linguaggio umano. Finora, infatti, si riteneva che le altre specie si affidassero a un numero limitato di richiami isolati, con poche combinazioni perlopiù riservate a contesti di allarme, come la presenza di predatori. Si tratta quindi di una visione che, per decenni, ha sostenuto l’idea che i sistemi comunicativi dei primati non umani fossero troppo rudimentali per essere considerati precursori del linguaggio. Tuttavia, è lecito congetturare che tali ipotesi saranno presto rivalutate, visto che lo studio appena pubblicato suggerisce che la comunicazione delle grandi scimmie potrebbe essere molto più sofisticata di quanto ritenuto. Secondo gli autori, i primati utilizzerebbero strutture che rispecchiano i principi noti della sintassi e della semantica umane, il che aprirebbe nuovi scenari sull’evoluzione della nostra capacità di parlare.

In particolare, i ricercatori del Max Planck Institutes di Lipsia, insieme a colleghi dei centri CNRS e dell’Université Claude Bernard Lyon 1, hanno registrato migliaia di vocalizzazioni di tre gruppi di scimpanzé selvatici nel loro habitat naturale, esaminando dodici tipi di richiami distinti e osservando come il significato si modificava quando venivano combinati a due a due. Secondo i risultati ottenuti, alcune combinazioni erano “compositive” – ovvero in cui il significato risultava dalla somma dei due elementi (come un richiamo per “alimentazione” seguito da uno per “riposo”, a indicare una situazione che coinvolge entrambi i comportamenti) – mentre altre chiarivano o specificavano il senso del primo richiamo. Infine, le più sorprendenti, ovvero le cosiddette combinazioni idiomatiche non compositive, in cui la sequenza produceva un significato del tutto nuovo e non riconducibile ai richiami originali. «Gli scimpanzé hanno anche utilizzato combinazioni idiomatiche non compositive che creavano significati completamente nuovi (ad esempio, A = riposo, B = affiliazione, AB = nidificazione)», spiegano infatti i ricercatori. «I nostri risultati suggeriscono un sistema di comunicazione vocale altamente generativo, senza precedenti nel regno animale, che riecheggia recenti scoperte sui bonobo, secondo cui complesse capacità combinatorie erano già presenti nell’antenato comune degli esseri umani e di queste due specie di grandi scimmie. Questo cambia la visione del secolo scorso, che considerava la comunicazione nelle grandi scimmie come fissa e legata agli stati emotivi, e quindi incapace di fornirci informazioni sull’evoluzione del linguaggio. Invece, qui vediamo chiare indicazioni che la maggior parte dei tipi di richiamo nel repertorio può cambiare o combinare il proprio significato se combinata con altri tipi di richiamo», conclude il coautore Cédric Girard-Buttoz, aggiungendo che ulteriori studi saranno necessari per indagare se vi sia qualcosa di speciale nella comunicazione degli ominidi, se abbiamo sottovalutato la complessità della comunicazione animale, o se forse siano vere entrambe le ipotesi.

Intesa SanPaolo si conferma la prima banca italiana per investimenti nelle fossili 

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Nel 2024, Intesa Sanpaolo ha rafforzato i propri rapporti con l’industria del fossile, confermandosi la «prima banca fossile italiana». A denunciarlo è uno studio prodotto da ReCommon, associazione che si batte a difesa del territorio. L’ammissione della banca è arrivata in occasione dell’assemblea degli azionisti di Intesa, in cui l’istituto di credito torinese ha risposto alle domande scritte presentate dal gruppo «di fatto ribadendo il suo forte e incessante impegno in favore del comparto fossile». Ad aumentare sono tanto gli investimenti quanto i finanziamenti. In cima alla lista delle multinazionali del fossile più finanziate figura ancora una volta ENI, mentre SNAM sta sempre più «entrando con forza negli interessi della prima banca italiana».

La dichiarazione di ReCommon è stata rilasciata lo scorso 29 aprile. A fare risuonare il campanello d’allarme è stata la constatazione di un aumento da parte di Intesa tanto degli investimenti quanto dei finanziamenti nell’industria del fossile. Di preciso, sostiene ReCommon, nel 2024, i finanziamenti di Intesa a carbone, petrolio e gas sono aumentati del 18%, arrivando alla soglia degli 11 miliardi di dollari. Gli investimenti, invece, sono aumentati del 16% arrivando a 10 miliardi. ENI si conferma la «multinazionale più finanziata da Intesa Sanpaolo tra quelle con i maggiori piani di espansione nell’estrazione di energie fossili su scala globale», mentre SNAM, colosso europeo del trasporto di gas, ha visto un aumento del 60% negli investimenti e sfiorato il raddoppio nei finanziamenti, cresciuti del 96%. «Di fatto», scrive l’associazione, «Intesa Sanpaolo non ha risposto in maniera adeguata alle domande poste da ReCommon sui numerosi progetti fossili sostenuti, ribadendo che non intende apportare significativi aggiornamenti sulle sue policy relative al carbone e all’oil&gas»: insomma, non solo Intesa ha aumentato investimenti e finanziamenti nel fossile, ma non parrebbe intenzionata a diminuirli.

A destare dubbi è anche il potenziale coinvolgimento dell’istituto finanziario in Mozambico. «dove Intesa Sanpaolo potrebbe entrare a sostegno dei nuovi impianti per l’estrazione del gas al largo della costa e su terra promossi da ENI», denominati Coral North FNLG e Rovuma LNG. Su tali impianti UniCredit ha già preso le distanze, affermando pubblicamente che non vi indirizzerà i propri finanziamenti. Da Intesa, invece, manca ancora una risposta. Eppure, «le linee guida che si è data la banca torinese impedirebbero finanziamenti a progetti in Paesi dove sono in atto conflitti armati», ricorda ReCommon. «Intesa Sanpaolo dovrebbe prendere posizione pubblicamente evitando di finanziare nuovi progetti di estrazione e liquefazione in Mozambico, considerata anche la profonda crisi che sta attraversando il Paese, e fare così un passo in controtendenza rispetto ai grandi investimenti nel settore del GNL degli ultimi anni e il forte sostegno a Eni che proprio in Mozambico è capofila dei progetti Coral North FLNG e Rovuma LNG».

India e Pakistan hanno raggiunto l’accordo per il cessate il fuoco

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Il Pakistan e l’India hanno concordato un cessate il fuoco completo ed immediato, dopo i colloqui mediate dagli Stati Uniti. Lo riportano le agenzie di stampa indiane ed internazionali che citano il ministro degli Esteri Ishaq Dar, che ha confermato il tutto. Lo ha confermato anche il presidente americano Donald Trump, che ha scritto su Truth Social: «Dopo una lunga notte di colloqui mediati dagli Stati Uniti, sono lieto di annunciare che India e Pakistan hanno concordato un Cessate il fuoco totale ed immedato. Congratulazioni a entrambi i Paesi per aver dimostrato buon senso e grande intelligenza. Grazie per l’attenzione a questa questione!».

Incendio a Barcellona: misure di confinamento per i residenti

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Nella mattina di oggi, sabato 10 maggio, è scoppiato un incendio in un magazzino industriale nei pressi di Barcellona. Il magazzino conteneva prodotti per la pulizia delle piscine e le fiamme hanno causato l’emissione di una nube tossica di cloro. I residenti dei comuni di Vilanova i la Geltrú, Cubelles, Roquetes, Cunit e Calafell, nelle province di Barcellona e di Tarragona, sono stati invitati a rimanere chiusi in casa o nei luoghi di lavoro, evitando di uscire. La misura di confinamento riguarda circa 160.000 persone. Interrotta anche la circolazione ferroviaria e chiusa l’autostrada.

Se rimangono solo la rinuncia e la rabbia

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Il sequestro delle emozioni è cosa fatta. Aveva ragione Philip K. Dick nel suo profetico romanzo Ma gli androidi sognano pecore elettriche? (1968). Alieni e alienazione vanno di pari passo per rendere inconsapevolmente docili gli umani. Non un occulto potere superiore ma semplicemente una congerie di astuti media servili, di passaparola manipolati, ha cucinato il piatto forte dell’oppressione. Nessun potere centralizzato in effetti reprime alcunché tranne qualche manganellata da ancien régime. Molto meglio della frusta la frustrazione, rendere docili e rassegnati, fare uscire ad esempio di scena chi ha una attività in privato, autonoma, fare cessare sogni, progetti e illusioni che diventano tutti insieme materia del passato. 

Costringere, se ancora ce la fai, a cercarti un lavoro lontano chissà dove così da farti rinunciare agli affetti, alla famiglia se ancora esiste. 

Benvenuti androidi nel mondo dove tutti saranno liberi di cambiare sesso, di morire quando vogliono, di esercitare il cinismo e l’indifferenza ma che diventano pericolosi, soggetti da conculcare se manifestano, se non sono d’accordo con le verità ufficiali, se non vogliono le morti inutili delle guerre, se hanno orrore delle stragi di innocenti. 

Te lo diciamo noi che siamo al governo chi sono gli innocenti, stai bene attento se appoggi quelli sbagliati diventi tu il colpevole e il terrorista. Intanto compra macchine elettriche non pecore elettriche, butta l’incarto nel bidone giusto, disprezza chi non agisce come faresti tu al suo posto, sentiti sempre dalla parte giusta ecc. ecc. 

E io? Semplice donna, semplice uomo che vorrei cavalcare il mio orizzonte, rischiare qualcosa, provare a farcela? Non mi avevate insegnato voi, vecchi liberali, la sacralità della libera imprenditoria, il gusto del rischio, le dure promesse di ogni rinuncia? 

Ma ora il sistema mi dice che io sbaglio prima ancora che faccia qualsiasi cosa mi possa venire in mente, sbaglio qualsiasi vocazione dovessi sentire. Le cose devono andare diversamente, rimani fottuto, sostenibile ma fottuto. 

Affidati allora a una start up, entra nel vortice dei passi obbligati. Hai qualche amico in politica, sei parente di un commercialista senza scrupoli? Fatti guidare. 

Ma se sei soltanto un androide solitario non ti rimane che sognare pecore elettriche, smettere di ridere o di piangere, non ti resta che rinunciare, tirare giù la serranda, vivere di quello che ti è rimasto. 

Attenzione, però, questo non sia pessimismo ma materia viva di una nuova liberazione. Perché, stammi a sentire, quella del 1945 è stata una Liberazione santa, ma ce ne vorrebbero tante altre ancora. Per farci sentire davvero liberi piuttosto che liberati.

In Romagna, due anni dopo, l’emergenza alluvione non è ancora finita

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Tra le colline romagnole, nell’entroterra lontano dal mare, nel Comune di Bagno di Romagna (provincia di Forlì-Cesena) c’è una diga. È alta 103 metri e ha una larghezza di 432. La sua costruzione, oltre a garantire l’approvvigionamento idrico di tutto il territorio, ha creato un enorme lago artificiale in un contesto naturalistico affascinante, tra alberi secolari, sentieri e fauna selvatica. È uno dei luoghi preferiti dai romagnoli per un’escursione in collina poco distante da casa. La diga di Ridracoli, così si chiama, è tra le più grandi in Italia e contiene circa 33 milioni di metri cubi d’acqua. 

In Emilia-Romagna, tra il 1° e il 17 maggio 2023, sono caduti 4,5 miliardi di metri cubi d’acqua. In pratica, è come se quella stessa diga si fosse rovesciata sul territorio non una ma ben 128 volte in due settimane. 4,5 miliardi di metri cubi d’acqua su una porzione di territorio di 16 mila chilometri quadrati. Il picco massimo si è registrato tra il 16 e il 17 maggio, quando sono esondati quasi contemporaneamente 24 fiumi, in particolare quelli che attraversano i principali centri abitati: il Savio a Cesena, il Montone a Forlì, il Lamone a Faenza e a Ravenna. In poche ore, il livello dell’acqua è salito fino a invadere le città, fuoriuscendo dagli argini, rompendoli, o risalendo dalle fognature, soprattutto dove le abitazioni sono state costruite sotto il livello dei fiumi. 

Anche chi si trovava in zone della città risparmiate dall’acqua ricorda perfettamente l’angoscia della notte tra il 16 e il 17 maggio, passata ad ascoltare i messaggi di aiuto di amici e parenti nelle chat di gruppo, bloccati ai piani superiori delle case, con l’acqua che continuava a salire. Il bilancio finale di quei due giorni è stato di 17 morti. I danni stimati superano gli 8,8 miliardi di euro. Numeri impressionanti che tuttavia raccontano solo una parte della storia. Soprattutto perché, in Romagna, nulla è ancora finito. Anzi, i problemi sembrano appena iniziati

Le alluvioni

Il bacino di Ridràcoli a Bagno di Romagna (FC), lago artificiale formato da una delle dighe più alte in Italia

Tutti ricordano i giorni più drammatici, quelli del 16 e 17 maggio, quando anche i media nazionali iniziarono a dare forte risalto alla notizia degli allagamenti in Romagna. In realtà, già a inizio maggio, un’altra alluvione aveva messo Faenza sott’acqua. Poi, nell’autunno del 2024, si sono verificati altri due eventi, a distanza di appena un mese: il 18 e 19 settembre e il 19 e 20 ottobre, quando furono colpiti duramente Bologna e il suo entroterra collinare, assieme – ancora una volta – alla campagna ravennate. È per questo che in Romagna non si parla più di alluvione, ma di alluvioni, al plurale. E lo si fa sempre al presente. Non come un episodio passato, ma come un fenomeno attuale, con cui si continua a fare i conti ogni giorno. La maggior parte degli interventi realizzati finora sembra però essere in grado di rispondere solo alle emergenze immediate. Lo sanno bene, ad esempio, i cittadini di Traversara di Bagnacavallo, in provincia di Ravenna. Nel 2023, l’argine del fiume Lamone aveva retto alla furia dell’acqua e il paese era stato allagato solo parzialmente. Nell’autunno del 2024, però, le sponde hanno ceduto e il fiume ha invaso le case. Ora l’apprensione è tale che ogni volta che piove per più di un giorno arriva un’ordinanza di evacuazione dal Comune e i cittadini trascorrono la notte da parenti o amici, senza sapere se al mattino troveranno ancora la loro casa. L’ultima volta è successo a marzo, meno di due mesi fa. A Villanova, poco distante, le piogge recenti hanno aperto grosse crepe negli argini e i residenti temono che un nuovo diluvio possa far crollare tutto. Il Comune è intervenuto rattoppando le spaccature ma la paura resta.

Anche nelle zone collinari la situazione è ancora critica. Molte strade, distrutte o bloccate dalle frane del maggio 2023, non sono mai state completamente ripristinate. Il Comune di Modigliana, in provincia di Forlì-Cesena, è stato colpito da quasi 7000 frane. Gli interventi d’emergenza hanno permesso di riaprire almeno in parte la viabilità, ma ogni volta che piove il terreno continua a muoversi. Parliamo di zone dove la chiusura di una strada può isolare decine di case o allungare di un’ora il tragitto verso la scuola o il lavoro. Situazioni d’emergenza che, da due anni, sono diventate normalità.

Il cambio di passo

Da una parte i lavori urgenti per rafforzare gli argini e fermare le frane, dall’altra i piani a lungo termine per mettere in sicurezza il territorio da nuove piogge. In mezzo, i cittadini che hanno perso tutto e aspettano ancora i rimborsi. Sono questi i tre fronti su cui si muovono da due anni Comuni, Governo e Regioni. Con grandi difficoltà. Da qualche mese sono cambiate le due figure fondamentali alla guida della macchina organizzativa: il presidente della Regione, Michele de Pascale, ha sostituito Stefano Bonaccini, mentre Fabrizio Curcio è diventato commissario straordinario all’alluvione al posto del generale Figliuolo, criticato per la scarsa presenza sul territorio. Il cambio al vertice è stata l’occasione per annunciare un “cambio di passo”: niente più commissari in smart working e fondi erogati col contagocce, ma più presenza sui luoghi dell’emergenza e interventi rapidi. 

Il presidente della Regione Emilia-Romagna, Michele De Pascale

«Un piccolo miglioramento c’è stato – spiega Alessandra Bucchi del Comitato Vittime del Fango di Forlì – soprattutto per quanto riguarda il dialogo con le istituzioni. Ma resta il fatto che, dopo due anni, stiamo ancora aspettando i rimborsi e i piani speciali per la messa in sicurezza del nostro quartiere». L’attesa dei piani speciali in Romagna viene ormai raccontata come una barzelletta. Parliamo di interventi strutturali, da 4,5 miliardi di euro, per migliorare il deflusso dei corsi d’acqua, creare casse di laminazione e gestire le piene. Insomma, tutto ciò che serve per evitare che una nuova alluvione faccia esondare i fiumi dentro alle case per la quinta volta. Ma il piano non è ancora stato approvato dalla struttura commissariale. Senza quello, si può solo rattoppare.

«Sono due anni che ne sentiamo parlare – continua Bucchi – doveva uscire a luglio dell’anno scorso, poi più nulla. Ci hanno detto che dovrebbe essere pubblicato a breve, ma nel frattempo è passato un altro mese e mezzo». L’impazienza è tale che alcuni comitati hanno iniziato a presentare progetti autonomi. Nel quartiere Borgo di Faenza, la zona più colpita dalle inondazioni, i cittadini hanno scoperto che la Regione aveva commissionato già nel 2010 uno studio per creare un’area di laminazione del fiume Lamone. «Sono 15 anni che quel progetto giace nei cassetti – spiega Wilmer Della Vecchia, membro del comitato Borgo Alluvionato – se fosse stato attuato, non ci saremmo allagati due volte, a maggio 2023 e poi a settembre 2024». Il comitato ha lanciato una raccolta firme per sollecitare la Regione a riprendere il progetto, ma la risposta è sempre la stessa: prima servono i piani speciali. 

A Borgo, chi abita al piano terra è ancora fuori casa, dopo l’ennesimo allagamento di settembre. Solo nel maggio 2023, in tutta l’Emilia-Romagna, si contano oltre 70.000 abitazioni danneggiate. Eppure i fondi del Governo sono stati erogati col contagocce, anche a causa della lentezza delle pratiche. «Qui chi ha ricevuto di più ha avuto 5000 euro come contributo di immediato sostegno – continua Della Vecchia – per ottenerne altri 5000 deve aspettare che si asciughino i muri e rendicontare tutte le spese». Diecimila euro su spese che spesso arrivano anche a 100.000. «Presentare domanda è complicatissimo – conferma Alessandra Bucchi da Forlì – servono tantissime perizie, i tecnici sono pochi e chi ha subìto danni per 100.000 euro deve anticiparne almeno la metà di tasca propria prima di chiedere il rimborso. Non tutti possono permetterselo. Abbiamo chiesto alla struttura commissariale di poter effettuare i pagamenti attraverso un sistema di rate parziali (SAL) ma non ci è mai stata data risposta». 

Una decisione difficile

Nelle prossime settimane, alcuni abitanti delle zone più colpite potrebbero dover affrontare una nuova scelta: restare, col rischio di allagarsi di nuovo, o abbandonare per sempre le loro case. La Regione sta lavorando a un decreto sulle delocalizzazioni: chi deciderà volontariamente di lasciare casa riceverà un rimborso. Ma chi rifiuterà, non potrà più chiedere indennizzi in caso di nuovi allagamenti. Nella prima bozza del decreto, già compilata ai tempi del commissario Figliuolo, si parlava di 1800 euro a metro quadrato, cifra giudicata del tutto insufficiente. Ora si tratta col governo per aumentarla, ma non è chiaro chi potrà accedere al provvedimento. 

Il presidente De Pascale ha spiegato che, almeno in una prima fase, il decreto riguarderà solo le situazioni più critiche: zone collinari ad altissimo rischio frane e abitazioni costruite nelle golene dei fiumi, come alcune case di Traversara, allagate tre volte dal Lamone nel giro di un anno e mezzo. Anche in questo caso, tuttavia, tutto resta incerto finché il decreto non sarà pubblicato. 

Rincorrere l’emergenza 


Pulizia dei corsi d’acqua, rinforzo degli argini, casse di espansione e delocalizzazioni nelle aree più a rischio: sono queste, in sintesi, le risposte parzialmente messe in campo finora. Ma tutte condividono lo stesso limite: affrontano le conseguenze, non le cause profonde. In Emilia-Romagna si è costruito troppo, ovunque. Il terreno, coperto da strati di cemento e asfalto, non riesce più ad assorbire l’acqua, soprattutto durante i violenti temporali sempre più frequenti e intensi a causa del cambiamento climatico. 

«L’attuale modello ha sfruttato il suolo, costretto i fiumi e costruito edifici in maniera eccessiva – spiega il meteorologo di ARPAE Emilia-Romagna, Federico Grazzini – bisognerebbe fare l’esatto contrario: fermare l’urbanizzazione». Non esiste una bacchetta magica per tornare indietro, ma serve una visione coraggiosa, a lungo termine, che cambi radicalmente il rapporto con il territorio. Purtroppo, però, di quella visione oggi non c’è traccia. Anzi, nonostante una legge urbanistica regionale che dovrebbe teoricamente limitare il consumo di suolo, nel 2023 l’Emilia-Romagna è stata ancora una volta la seconda regione d’Italia dove si è costruito di più.  Ed è così che si continua a rincorrere l’emergenza, tampone dopo tampone, mentre la terra sotto i piedi – e sotto le case – continua a cedere. Perché il vero problema non è la pioggia che cade, ma ciò che l’aspetta quando tocca terra.