La Cassazione ha confermato l’ergastolo per l’ex NAR Gilberto Cavallini, già condannato alla massima pena in primo e secondo grado, per la strage del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna, in cui morirono 85 persone. Cavallini, 72 anni, era in regime di semilibertà a Terni, dove sta scontando diversi ergastoli per omicidi e banda armata. In questo processo, Cavallini era accusato di aver fornito un alloggio a Francesca Mambro, Giuseppe Valerio Fioravanti e Luigi Ciavardini nella fase immediatamente precedente alla strage, aver falsificato il documento intestato a Flavio Caggiula, consegnato da Ciavardini a Fioravanti, e aver messo a disposizione un’auto per raggiungere il luogo della strage.
Per la Cisgiordania niente tregua: nuovo massacro israeliano a Jenin

JENIN, TERRITORI OCCUPATI PALESTINESI- Non c’è pace in Cisgiordania, dove la guerra silenziosa di Israele continua a mietere vittime. Per Jenin sono state 24 ore di sangue: in due distinti attacchi aerei i droni di Tel Aviv hanno ucciso 12 persone e ferito numerose altre. Ieri, martedì 14 gennaio, tre missili israeliani hanno preso di mira un gruppo di giovani palestinesi riuniti fuori da una casa, nella città già stretta da oltre quaranta giorni nell’assedio dell’Autorità Palestinese. Solamente nella giornata di ieri sono sei i palestinesi uccisi, tra i quali un ragazzino di 15 anni e tre fratelli colpiti davanti alla loro casa. Al nostro passaggio, il sangue era ancora fresco sul cemento, i buchi dei missili ben visibili a due metri dalla porta della famiglia stretta in lutto. Centinaia di persone si sono radunate per accompagnare i corpi al cimitero del campo rifugiati di Jenin, mentre la città si è chiusa in uno sciopero generale, una protesta silenziosa contro l’ennesimo massacro. Nemmeno si era finito di piangere i sei morti che, ieri sera, un altro attacco aereo ha centrato due case nel campo rifugiati, mentre tutti aspettavano l’annuncio imminente del cessate il fuoco. Sono almeno altri sei i morti, numerosi i feriti tuttora in condizioni critiche.
Il funerale di ieri è stato l’ennesimo corteo funebre nella città forse più colpita dalla violenza dell’esercito di Tel Aviv, che ne ha distrutto sistematicamente le strade e le infrastrutture nelle decine di raid di questi ultimi due anni. Vari cori si sono levati contro le atrocità israeliane in corso in Cisgiordania, che hanno ucciso oltre 840 persone nel territorio occupato in poco più di un anno, mentre le incursioni proseguono senza sosta. Ma ben presente al funerale è anche la rabbia contro l’Autorità Palestinese, accusata di essere complice di Israele nell’attaccare la resistenza e i campi profughi del Nord. Dal 5 dicembre, infatti, Jenin, capitale della resistenza armata in Cisgiordania, è stretta nel più lungo assedio mai vissuto, e non da parte di Israele: sono i militari dell’Autorità Palestinese a bloccare gli accessi del campo rifugiati e sono palestinesi i poliziotti che in poco più di un mese hanno ucciso 8 abitanti della città, la maggior parte civili. L’Autorità palestinese ha anche sabotato le infrastrutture del campo per forzare la popolazione ad andarsene, ricordando le stesse pratiche portate avanti dai militari di Tel Aviv.
Anwar Rajab, portavoce delle forze di sicurezza dell’Autorità Palestinese, ha dichiarato che l’attacco israeliano ha lo scopo di «disturbare gli sforzi» dell’autorità per raggiungere la sicurezza e la stabilità a Jenin. Secondo Rajab, Israele non dovrebbe interferire sul territorio e lasciare l’Autorità continuare il suo sforzo di perseguire i «fuorilegge», ossia la resistenza. Le forze di resistenza riunite nella cosiddetta Brigata Jenin hanno dichiarato più volte che il loro nemico non era l’Autorità Palestinese, ma che i loro fucili erano puntati contro l’occupazione israeliana. Avvisano però che se le violenze contro gli abitanti del campo profughi non cesseranno, aumenteranno il livello di risposta armata. Intanto ribadiscono che l’assedio deve cessare immediatamente.
Hassan Khraisheh, membro del Consiglio legislativo palestinese, ha affermato che questi attacchi dimostrano la volontà di Israele di uccidere indiscriminatamente i palestinesi. «Questo è un chiaro messaggio dell’occupazione israeliana: ogni palestinese è un bersaglio», ha dichiarato Khraisheh, il quale chiede che l’Autorità Palestinese si ritiri immediatamente dai confini del campo profughi, ricordando le intenzioni e le grosse ambizioni israeliane sulla Cisgiordania. «Il nostro nemico è uno solo – che si tratti di combattenti della resistenza o di forze di sicurezza [dell’AP]», ha detto. «Nessuno è protetto dagli attacchi israeliani». Ha dichiarato che i membri dell’Autorità Palestinese dovrebbero tornare nelle loro caserme e stare con la loro gente, non contro di essa. «Quello che è richiesto ora è di opporsi all’occupazione israeliana, non di combattere gli uni contro gli altri», ha aggiunto. Le dichiarazioni del consigliere Khraisheh sembrano in contrapposizione con la politica repressiva portata avanti dall’Autorità, che negli ultimi mesi ha intensificato gli arresti e i raid contro i fighters e i critici di Abu Mazen.
Poche settimane fa, l’ANP ha anche sospeso l’emittente Al Jazeera nella Cisgiordania occupata, in quello che è considerato un ulteriore silenziamento del dissenso e della libertà di espressione – avvenuto proprio per la copertura dell’agenzia del Qatar di quello che stava succedendo a Jenin. I nuovi bombardamenti sul campo profughi potrebbero a questo punto spingere l’Autorità Palestinese a rompere l’accerchiamento e a mettere in discussione la politica repressiva attuata. Nel frattempo, la guerra silenziosa in Cisgiordania continua, mentre il tutti i territori occupati si festeggia (per lo più silenziosamente) il cessate il fuoco a Gaza. Le bombe, tuttavia, non smettono di cadere e uccidere, nè sulla Striscia nè in Cisgiordania.
[testo e immagini di Moira Amargi, corrispondente dalla Palestina]
Roma, 59 persone denunciate per gli scontri al corteo per Ramy
59 persone sono state denunciate per gli scontri verificatisi durante il corteo dell’11 gennaio a Roma in solidarietà a Ramy Elgaml, 19enne di origine egiziana morto a Milano a novembre durante un inseguimento dei carabinieri. Due sono minorenni. Tra le ipotesi di reato, a vario titolo, manifestazione non preavvisata, radunata sediziosa, violenza e resistenza a pubblico ufficiale, istigazione a disobbedire alle leggi e il getto pericoloso di cose, in concorso e con le modalità aggravate. 39 persone sono state identificate dalla Digos, 20 dai carabinieri. Nel frattempo, sfruttando come pretesto tali disordini, il governo spinge per approvare al più presto il dibattuto DDL Sicurezza.
Cosa sappiamo sui punti dell’accordo di cessate il fuoco a Gaza
Nella sera di ieri, mercoledì 15 gennaio, il presidente uscente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha svelato i contenuti dell’accordo di cessate il fuoco tra Israele e Hamas. Come preannunciato da vari siti di informazione durante i giorni di trattative, il patto siglato è simile (Biden ha detto che presenta «gli stessi termini») a quello presentato a maggio dallo stesso presidente, saltato per l’insistenza israeliana nel voler continuare «la distruzione delle capacità militari e governative di Hamas». L’accordo prevede una risoluzione in tre fasi, delle quali solo la prima, di sei settimane, è stata delineata in maniera più dettagliata. In attesa della formalizzazione dell’accordo, che dovrebbe avvenire domenica, Israele non ha fermato i propri attacchi nella Striscia, e ha anche accusato Hamas, che ha respinto le accuse, di essersi tirata indietro su alcuni punti del patto, ritardando il voto sulla sua adozione, e mettendo a repentaglio la stessa entrata in vigore del piano.
Il piano per il cessate il fuoco a Gaza è stato condiviso da Biden sulla piattaforma social X e delineato parzialmente durante la conferenza stampa in cui il presidente uscente ha annunciato il raggiungimento dell’accordo. Come afferma lo stesso Biden, il piano sembra identico a quello precedentemente presentato a maggio. Quest’ultimo (lo avevamo presentato in un articolo de L’Indipendente) era stato accolto positivamente da Hamas, fino a quando lo Stato ebraico non ha voluto sottolineare che, cessate il fuoco o no, i suoi obiettivi sarebbero rimasti gli stessi. «Le condizioni di Israele per terminare la guerra non sono cambiate: la distruzione delle capacità militari e governative di Hamas, la liberazione di tutti gli ostaggi e l’assicurazione che Gaza non costituisca una minaccia per Israele», si leggeva in una dichiarazione dell’ufficio del primo ministro, in cui veniva specificato che «l’idea che Israele accetti un cessate il fuoco permanente prima che queste condizioni vengano soddisfatte è fuori discussione». Ai tempi, insomma, Israele rifiutò l’accordo per continuare a bombardare.
I tre step condivisi da Biden sono poveri di dettagli, anche perché a partire dalla fine della “fase 1” è ancora tutto da delineare. La prima fase dell’accordo durerebbe 42 giorni. Essa prevede un cessate il fuoco totale, il ritiro delle forze israeliane dalle aree popolate di Gaza, la liberazione di «numerosi» ostaggi tra cui americani, donne e anziani, il rientro dei civili palestinesi nelle proprie case e un’impennata negli aiuti umanitari. Biden non sembra avere fornito ulteriori specifiche sui punti elencati, ma vista la corrispondenza tra questi, il piano di maggio e le indiscrezioni di ieri, illustrate da L’Indipendente, sembra potersi affermare con relativa fiducia che questa prima fase prevederebbe lo scambio di 33 ostaggi israeliani con 250 prigionieri palestinesi, l’entrata di 600 camion di aiuti al giorno, la riapertura degli ospedali e l’installazione di nuove strutture di emergenza, e il ritiro dell’esercito israeliano dal confine di Gaza per una profondità di 700 metri.
Le varie iniziative di aiuti umanitari dovrebbero venire coordinate con la supervisione di almeno Qatar ed Egitto; il piano di maggio affidava tale ruolo anche agli USA, ma né le indiscrezioni di ieri né Biden stesso sembrano averne fatto menzione. Dalle indicazioni di Biden, sembrano mancare anche riferimenti espliciti sui corridoi di Netzarim, che divide l’area settentrionale della Striscia di Gaza, e di Philadelphi, al confine meridionale con l’Egitto. Queste due aree sono state al centro delle trattative per mesi, perché linee cruciali per la gestione di Gaza. La prima isola il Governatorato di Nord Gaza, sotto assedio da mesi; i piani dell’aggressione israeliana del Governatorato, infatti, sfruttavano il controllo del corridoio per fare morire i cittadini di fame, nella prospettiva ultima, ritengono in molti, di un’annessione del territorio. Philadelphi, dal suo canto, permette di controllare la frontiera meridionale della Striscia, da sempre fondamentale nel sistema di controllo israeliano di Gaza. Hamas ha sempre chiesto il completo ritiro di Israele dalle aree, mentre Israele si è costantemente rifiutata di mettere il completo disimpegno delle truppe sul tavolo delle trattative.
Va inoltre rimarcato che con “cessate il fuoco totale” e “ritiro delle forze israeliane dalle aree popolate di Gaza” non si intende un cessate il fuoco permanente né un ritiro completo. La prima fase, infatti, prevede l’imposizione di un cessate il fuoco temporaneo, valido per le sole prime sei settimane dell’accordo, mentre l’esercito israeliano rimarrebbe ancora nelle zone sensibili (presumibilmente gli stessi corridoi di Netzarim e Philadelphi) per ritirarvisi in un secondo momento. Cessate il fuoco permanente e ritiro completo sono piuttosto i punti principali su cui ruoterebbe la “fase 2”, che prevede anche la fine della guerra e lo scambio dei restanti ostaggi. Essa però, non è ancora stata delineata e verrà discussa solo nei prossimi giorni, in parallelo all’eventuale svolgimento della “fase 1”. Ieri era trapelato che Qatar ed Egitto avrebbero assicurato la transizione tra le fasi, compreso il ritiro israeliano dai corridoi tanto discussi durante i negoziati, ma sul piatto non sembra esserci ancora niente. Al secondo step, seguirebbe la “fase 3”, incentrata sull’elaborazione di un piano di ricostruzione per Gaza e sulla restituzione degli ultimi corpi dei defunti alle famiglie.
L’accordo di cessate il fuoco arriva dopo 15 mesi di massacri, che comunque Israele non sembra intenzionato a fermare, almeno fino all’entrata in vigore dei patti. Ieri, mentre il mondo stava festeggiando il raggiungimento della tregua, l’esercito israeliano ha scagliato un attacco su un edificio residenziale di Nord Gaza, uccidendo almeno una ventina di persone; in generale, da dopo l’annuncio, Israele ha intensificato gli attacchi in tutta la Striscia, uccidendo più di cinquanta persone. Dall’escalation del 7 ottobre, invece, l’esercito israeliano ha ucciso direttamente almeno 46.707 persone, anche se secondo uno studio della rivista scientifica The Lancet, i morti diretti in questo momento ammonterebbero a oltre 64.000. La stessa rivista ha inoltre pubblicato una dettagliata analisi in cui sostiene che, considerando gli effetti indiretti del conflitto come l’interruzione dei servizi sanitari, la mancanza di acqua potabile e servizi igienici, il numero delle vittime potrebbe superare le centinaia di migliaia di persone, come peraltro affermato da una lettera di medici volontari nella Striscia. Stamattina, inoltre, Netanyahu ha già messo in discussione l’approvazione del patto, accusando Hamas di essersi tirata indietro su non meglio specificati punti del piano: «Hamas ha rinnegato gli accordi, creando una crisi dell’ultimo minuto che impedisce il completamento dell’accordo già concordato», ha scritto – smentito da Hamas – l’ufficio del primo ministro, in una dichiarazione che rischia di minare l’entrata in vigore del cessate il fuoco a poche ore dall’annuncio.
[di Dario Lucisano]
Nel Kenya in rivolta gli oppositori stanno scomparendo nel nulla
Il clima politico in Kenya è teso da ormai più di 6 mesi da quando, lo scorso giugno, l’esecutivo guidato da William Ruto aveva approvato in fretta e furia una legge di bilancio che prevedeva un forte innalzamento delle tasse sui beni di prima necessità. Da allora, forti proteste si sono scatenate in tutto il Paese, animate soprattutto dalle fasce più giovani della popolazione, che risentono in maniera particolarmente grave della crisi economica. Se da un lato le manifestaizoni di piazza degli oppositori del governo sono state violentemente represse dalla polizia, con oltre sessanta i manifestanti uccisi dalle forze dell’ordine, più di centotrenta quelli che sono scomparsi nel nulla in questi mesi.
La legge era stata approvata da Ruto mentre il Paese è alle prese con una crescente disoccupazione e diversi scandali di corruzione. L’obbiettivo del governo era quello di riuscire a racimolare 2,5 miliardi di dollari per provare a colmare il deficit di bilancio. Il Fondo Monetario Internazionale, che in primavera ha concesso un altro prestito a Nairobi, aveva posto come condizione per futuri prestiti l’innalzamento delle entrate statali. A questa approvazione sono seguiti giorni di grandi manifestazioni in tutto il Paese, fino ad arrivare all’assalto al parlamento di Nairobi, lo scorso 25 giugno. Le proteste hanno portato il presidente Ruto a ritrattare dichiarando che non avrebbe firmato la finanziaria.
Questo però non è bastato a placare la popolazione, soprattutto quella giovanile, che soffre molto la grave condizione economica del Paese e che è la spina dorsale delle proteste dette appunto della “GenZ”. Proprio i giovani, che avevano sostenuto la candidatura di Ruto, hanno continuato a chiedere le dimissioni del presidente, che provando a raffreddare gli animi aveva promesso una serie di misure atte ad aumentare l’occupazione e abbassare il costo della vita. Secondo Boniface Mwangi, foto giornalista e importate attivista keniano, queste promesse sono state disattese, portando allo scoppio di nuove proteste.
I movimenti di piazza sono stati repressi violentemente dalle forze di sicurezza con arresti arbitrari e uccisioni extragiudiziali. Da giugno ad oggi, secondo la Commissione nazionale per i diritti umani del Kenya, sono state rapite 82 persone, che si aggiungono ad altre 52 sparite prima di giugno. Solo nello scorso dicembre sono stati rapiti 13 giovani keniani e keniane, alcuni dei quali non sono ancora tornati a casa. La caratteristica che accomuna le persone scomparse, sono le loro posizioni critiche rispetto al governo. Queste azioni mirate delle forze di sicurezza hanno riacceso gli animi della popolazione che è nuovamente scesa in piazza per chiedere la fine dei rapimenti e il rilascio delle persone ancora scomparse.
I gruppi per i diritti umani keniani sostengono che dietro a queste azioni ci sia la polizia del Paese, ma le forze dell’ordine hanno negato ogni coinvolgimento e affermano di aver aperto delle indagini sulle sparizioni. Come la polizia molti esponenti di spicco dell’esecutivo, tra cui il nuovo ministro della sicurezza interna Kipchumba Murkomen, l’ispettore generale della polizia Douglas Kanja e il leader della maggioranza dell’Assemblea nazionale Kimani Ichung’wa hanno negato ogni coinvolgimento del National police service keniano (Nps). «Il National Police Service ci ha confermato di non aver arrestato nessuno Come governo, siamo d’accordo che l’Nps sotto il comando dell’ispettore generale sia indipendente e quindi non interferiremo con il loro lavoro» ha dichiarato Murkomen il 27 dicembre come riporta Africa Report. Addirittura Kimani Ichung’wa ha accusato i giovani rapiti di aver inscenato i loro sequestri per «rovinare l’immagine del governo». Una visione che non sembra essere la stessa del presidente Ruto che nel suo discorso di Capodanno, ha affermato: «Ci sono stati casi di azioni eccessive ed extragiudiziali da parte di membri dei servizi di sicurezza. Allo stesso tempo, bisogna riconoscere che è in corso un giusto processo nelle istituzioni appropriate per garantirne la responsabilità». L’ammissione da parte del presidente è arrivata dopo che le famiglie dei giovani scomparsi hanno pregato il governo di liberare i propri cari.
Oltre ai rapimenti la repressione delle proteste è passata anche attraverso l’uccisione di diversi manifestati, sono più di 60 i morti durante le proteste da giugno, molti dei quali consegnati dalle forze dell’ordine agli obitori adducendo false cause di morte. Un’inchiesta di Reuters ha messo in luce questo modus operandi delle forze di sicurezza keniane durante le proteste di luglio. L’agenzia stampa britannica è riuscita a contattare alcuni ufficiali del Nps, che hanno confermato che la polizia keniana spesso inventa cause di morte “per incidente” per coprire gli omicidi commessi dagli agenti. Uno dei poliziotti impiegati durante le manifestazioni, ascoltato da Reuters, ha dichiarato di aver lavorato insieme ad agenti sotto copertura che si mescolavano alla folla per identificare i capi delle proteste e ottenere i loro numeri di telefono in modo da poterne tracciare gli spostamenti e organizzare i rapimenti.
Proprio riguardo i telefoni, Safaricom, la maggiore compagnia telefonica del Paese, è stata presa di mira dalle proteste a causa del suo presunto coinvolgimento nei rapimenti degli oppositori politici. Gli attivisti, secondo quanto riporta Semafor Africa, hanno accusato Safaricom di condividere dati dei suoi clienti con presunti agenti statali, consentendo loro di tracciare e catturare gli obiettivi. La compagnia telefonica a ottobre aveva negato ogni coinvolgimento nei rapimenti, dopo che una delle più importanti testate del Paese, The Nation, aveva accusato Safaricom di aver concesso alle forze di sicurezza un accesso praticamente illimitato ai dati in suo possesso.
Il Kenya si trova a dover affrontare una situazione sociale ed economica esplosiva, con il debito pubblico pari a circa il 70% del pil, un terzo della popolazione che vive sotto la soglia di povertà e l’occupazione sempre più bassa con le generazioni più giovani costrette a vivere di espedienti. A nulla sembra servire l’immagine internazionale che il governo di Ruto si sta dando, unico presidente accolto in visita ufficiale alla Casa Bianca da Biden e che dallo stesso a maggio ha guadagnato per Nairobi lo status di alleato non-Nato. Anzi l’affitto del jet privato per portare la delegazione a Washington, insieme alle nuove macchine per i diplomatici keniani e alla sfarzosa ristrutturazione del parlamento non hanno fatto altro che aumentare la rabbia della popolazione. La risposta a questa rabbia però ricorda tristemente il periodo buio del Kenya quando, sotto la guida del dittatore Daniel Toroitich arap Moi, le sparizioni di avversari politici e gli omicidi erano all’ordine del giorno. Oggi come ieri «stiamo attraversando un momento in cui dobbiamo convivere con la paura» ha dichiarato ad Ap una giovane manifestate, Orpah Thabiti.
[di Filippo Zingone]
Russia e Ucraina: primo scambio di prigionieri dell’anno
Ieri, mercoledì 15 gennaio, si è tenuto il primo scambio di prigionieri tra Russia e Ucraina del 2025. L’annuncio è arrivato rispettivamente dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky e dal ministero della Difesa russo, i quali hanno parlato di uno scambio di 25 prigionieri per parte, mediato dagli Emirati Arabi Uniti. In totale, secondo quanto comunica l’agenzia di stampa governativa russa TASS, i due Paesi hanno condotto 30 scambi di prigionieri di guerra dall’inizio del conflitto, che hanno interessato un totale di 2.466 militari per parte.
Gaza: il Qatar annuncia il cessate il fuoco tra Israele e Hamas
Hamas e Israele hanno approvato l’accordo per il cessate il fuoco a Gaza. La notizia è stata data dal primo ministro del Qatar alle 19:50 di oggi, mercoledì 15 gennaio, dopo giorni di intense trattative che hanno interessato entrambe le parti. L’accordo è stato firmato con la mediazione di Egitto, Qatar, e Stati Uniti, e prevede un primo scambio di prigionieri e un graduale ritiro delle truppe israeliane. Hamas, scrive l’emittente araba Al Jazeera, ha chiesto ai mediatori la garanzia che Israele non continuerà gli attacchi, nonché mappa e cronoprogramma del ritiro delle truppe israeliane, che non è chiaro in che misura siano stati delineati. Dopo una fase preliminare di tre giorni, l’accordo entrerà in vigore di domenica. In seguito all’annuncio, le strade palestinesi si sono riempite di cittadini intenti a festeggiare quella che sembrerebbe la fine di un massacro durato oltre 460 giorni.
Secondo una bozza visionata dall’Associated Press nei giorni scorsi, l’accordo prevederebbe una prima fase di cessate il fuoco di 42 giorni con il graduale rilascio di prigionieri e ostaggi, che verrebbe preceduta, sostiene Al Jazeera, da una fase preliminare della durata di 3 giorni. Domenica dovrebbe così prendere il via la prima fase, in cui le truppe israeliane si ritirerebbero ai margini di Gaza e molti palestinesi potrebbero tornare a ciò che resta delle loro case. Nel frattempo verrebbe riaperto il valico di Rafah, e sarebbe concessa l’entrata di 600 camion di aiuti al giorno nell’ambito di un protocollo umanitario sponsorizzato dal Qatar. Gli ospedali e verrebbero riaperti, e verrebbero installate 200.000 tende e 60.000 roulotte per i ricoveri urgenti. Il Qatar e l’Egitto supervisionerebbero il ritorno degli sfollati dal sud della Striscia di Gaza al nord (che dovrebbe avvenire a partire dal settimo giorno), e l’accesso agli aiuti umanitari ai civili palestinesi. Durante la prima fase, Hamas rilascerebbe 33 prigionieri, e Israele libererebbe circa 250 prigionieri palestinesi condannati all’ergastolo. Secondo Al Jazeera, durante la prima fase dell’accordo, l’esercito israeliano si dovrebbe ritirare dal confine di Gaza per una profondità di 700 metri.
La domanda è se il cessate il fuoco arriverà oltre quella prima fase. Secondo quanto comunica Al Jazeera, Qatar ed Egitto assicureranno la transizione alle fasi successive, che prevederebbero il rilascio di ulteriori prigionieri e un maggiore indietreggiamento delle truppe israeliane. Per quanto riguarda il primo punto, scrive Al Mayadeen, dovrebbe venire liberato un totale di 1.000 prigionieri palestinesi, nonché tutte le donne e i bambini sotto i 19 anni di età. Per ciò che concerne la questione del ritiro dell’esercito dello Stato ebraico, oggetto di contesa nelle trattive sono stati i corridoi di Netzarim, che divide il nord della Striscia dal resto del territorio palestinese, e quello di Philadelphi, che separa il sud di Gaza dall’Egitto. Secondo Al Mayadeen, il ritiro delle truppe dall’asse Netzarim dovrebbe avvenire nel 22esimo giorno; la presenza sull’asse di Philadelphi, invece, riporta Al Jazeera, al ritiro completo gradualmente. L’accordo, sostiene Al Mayadeen, prevederebbe anche l’istituzione di una no fly zone di 10 ore al giorno in tutta la Striscia.
[di Dario Lucisano]
Hamas ha accettato la proposta di cessate il fuoco
Hamas ha detto all’emittente qatariota Al Jazeera di avere accettato la proposta di cessate il fuoco. La direzione di Hamas ha accettato di «fermare l’aggressione sionista contro il popolo palestinese, ponendo fine ai massacri e alla guerra di genocidio a cui sono sottoposti», si legge in una nota diffusa dai media. La risposta è arrivata attorno alle 17:30 di oggi, mercoledì 15 gennaio, dopo giorni di intense trattative che hanno interessato le due fazioni. Ancora incerta la risposta dal governo israeliano; alcuni media riferiscono che Tel Aviv avrebbe approvato l’accordo, mentre altri sostengono che le autorità israeliane lo discuteranno domani.
Benzina e Gasolio in rialzo: “Prezzi ai massimi da agosto”
I prezzi dei carburanti continuano a salire, con medie nazionali ai massimi dalla fine dell’estate scorsa. Lo rivelano le elaborazioni dei dati comunicati dai gestori all’Osservaprezzi del Ministero delle Imprese e del Made in Italy, effettuate da Staffetta Quotidiana. Il prezzo medio nazionale praticato della benzina in modalità self è di 1,81 euro al litro, il massimo dal 9 agosto, mentre per il gasolio la media è di 1,71 euro per litro, ovvero il massimo dal 28 agosto. Sulle autostrade, invece, i prezzi variano: benzina self service a 1,90 euro al litro, gasolio self service a 1,815 euro per litro, Gpl a 0,869 euro a litro e metano a 1,52 euro al kg.