mercoledì 5 Novembre 2025
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A Venezia si sta allargando la protesta contro il turismo di lusso

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Monta la protesta veneziana contro il matrimonio di lusso del magnate statunitense Jeff Bezos. L’evento si svolgerà dal 26 al 28 giugno, ma i dettagli della maxi-festa restano ancora poco chiari. Sin dal lancio dell’iniziativa, sui media generalisti e su quelli specializzati sono apparse diverse ipotesi sulla quantità di risorse mobilitate dal multimiliardario, che avrebbe organizzato concerti ed eventi esclusivi in tutta la città. Contro il matrimonio, i lagunari si sono riuniti in un comitato apposito, organizzando manifestazioni e flash mob e promettendo di boicottare l’evento: in piazza San Marco è comparso uno striscione con scritto «se puoi affittare Venezia per il tuo matrimonio, puoi pagare più tasse». La protesta contro il matrimonio del magnate si colloca all’interno di un movimento che da tempo reclama una città che torni ad essere pensata per i cittadini, opponendosi a quel modello che inquadra la laguna come una vetrina privatizzabile per masse di turisti e feste di super ricchi.

Il matrimonio di Jeff Bezos a Venezia è stato annunciato mesi fa, e ha sin da subito attirato l’attenzione dei media di tutto il mondo. Per quanto i giornali speculino da settimane su sede della cerimonia, eventi e budget della maxi-festa, i dettagli non sono noti. Alla festa parteciperanno oltre 200 invitati, la maggior parte nomi noti, che dovrebbero atterrare all’aeroporto Marco Polo tra oggi e domani, mercoledì 25 giugno. Per il matrimonio, Bezos avrebbe “affittato” l’intera isola di San Giorgio, cosa che, secondo informazioni verificate da L’Indipendente, comporterà la chiusura anticipata di alcuni spazi della Fondazione Cini, una delle sedi della festa. Pare inoltre che l’evento principale, che si sarebbe dovuto tenere alla Misericordia il 28 giugno, sarà spostata all’Arsenale. Nei giorni c’è chi ha scritto che Bezos avrebbe prenotato l’intera flotta di taxi acquatici (informazione poi smentita dall’amministrazione comunale) e le migliori suite degli alberghi di lusso, affittato interi spazi ed edifici, organizzato concerti ed eventi esclusivi, provato a portare in laguna uno dei suoi yacht privati, pianificato l’allestimento di buffet extra-lusso con posate placcate in oro, chiamato diverse agenzia di sicurezza. La sposa cambierà 27 abiti e la cifra di spesa stimata è di 30 milioni di euro.

Malgrado le innumerevoli speculazioni dei media, tutte le informazioni sulla celebrazione sono riservate, e si sa davvero poco del matrimonio. Quello che è certo è che in un modo o nell’altro sarà coinvolta l’intera città, tanto che sarebbe in programma la chiusura di alcune strade e di parte dei canali. È proprio contro questo che i cittadini protestano: «Contro l’arroganza degli oligarchi e dei loro lacchè», e contro quel sempre più pervasivo «modello di gestione della città come una vetrina svuotata di abitanti». I lagunari hanno messo in piedi il comitato No Space for Bezos, a cui hanno aderito realtà variegate che spaziano dai gruppi locali come il comitato No Grandi Navi, ai movimenti ambientalisti come Extinction Rebellion. Il comitato ha organizzato diverse proteste, l’ultima delle quali si terrà in varie aree della città proprio sabato 28 giugno per boicottare i festeggiamenti. Gli attivisti rivendicano una città con maggiori spazi dedicati ai cittadini, contro la logica di turistificazione che la affligge da anni.

Le proteste dei cittadini, insomma, non si limitano a contestare la presenza di un ultraricco in città, ma si oppongono all’intero sistema di svendita degli spazi urbani promosso in prima battuta dall’amministrazione comunale. «Il fatto», ci dice un attivista locale che ha preferito rimanere anonimo, «è che se qualcuno affitta un’intera città è perché qualcun altro la mette in vendita; è naturale che Bezos, o chi per lui, compri Venezia per qualche giorno, se qualcuno glielo permette». La relegazione degli spazi pubblici – e privati – a luoghi di intrattenimento per miliardari, la messa a vigilanza di un’intera città, l’interruzione dei servizi, la chiusura delle strade, dei canali, delle biblioteche, delle mostre, «sono cose che non dovrebbero accadere da nessuna parte, ma non è questo il punto». Il punto è che «c’è un sistema che promuove» la messa in vetrina dii questi spazi, a scapito dei cittadini, innescando così un «inarrestabile» circolo vizioso. «Più spazio viene dato al turista, più ne viene tolto al cittadino», sottolinea infatti l’attivista; e a sua volta, «più spazio viene tolto al cittadino, più ne viene dato al turista». Destinando tutte le risorse al turismo, insomma, «il tessuto sociale viene gradualmente eroso».

La maxi-festa di Bezos, in questo, è solo il più eclatante dei casi che hanno interessato Venezia nell’ultimo periodo: già ad aprile dell’anno scorso, un’attivista di Assemblea Sociale per la Casa criticava su L’Indipendente l’introduzione del ticket d’accesso, sottolineando come esso non facesse altro che accelerare il processo di trasformazione degli spazi urbani in un sostanziale «parco giochi» per turisti. A settembre, è poi scoppiato il caso degli studenti cacciati dalle abitazioni a loro riservate per fare spazio ai turisti, che gli stessi universitari ci hanno confermato essere una pratica sistematica. A novembre, siamo tornati sulla questione, evidenziando come il turismo di massa stia annientando la città di Venezia. Per quanto possa apparire diametralmente opposto, il caso di Bezos non è davvero differente a questi altri: «Turismo di lusso e overtourism sono la stessa cosa; cambia la forma, ma resta invariata la sostanza». Il meccanismo speculativo che c’è dietro, infatti, rimane sempre lo stesso: quello di «svendere completamente la città e togliere spazio alla vita locale».

USA, Corte Suprema: ok a espulsione migranti in Paesi terzi

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La Corte Suprema ha accolto la richiesta d’urgenza del presidente Donald Trump di riprendere le espulsioni dei migranti verso Paesi terzi, come il Sud Sudan, anche con un preavviso minimo. La decisione sospende un’ordinanza del giudice Brian Murphy, che aveva giudicato incostituzionali le espulsioni senza avviso e possibilità di contestazione, in particolare in caso di rischio di tortura. I tre giudici progressisti della Corte hanno dissentito. Il caso passerà ora in appello. Intanto, gruppi legali rappresentano migranti anonimi che denunciano la violazione del diritto al giusto processo da parte dell’amministrazione.

Meloni incatena l’Italia ai diktat della NATO: “Rispetteremo il 5% del PIL alla difesa”

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Mentre in Europa crescono le voci contrarie, con il governo slovacco che si è affiancato a quello spagnolo nel rifiutare il vertiginoso aumento delle spese militare al 5% del Prodotto interno lordo come richiesto dagli Stati Uniti e dalla NATO, la premier italiana Giorgia Meloni dà ancora una volta prova di obbedienza alle direttive di Washington. Quelli richiesti sono «impegni importanti e necessari che l’Italia rispetterà», ha detto davanti ieri, lunedì 23 giugno, al Parlamento. Per giustificarlo ha citato con un mezzo secolo di ritardo la leader liberista del Regno Unito degli anni 1980 Margareth Thatcher: «Non dimentichiamoci mai che il nostro stile di vita, i nostri valori, non saranno assicurati da quanto sono giuste le nostre cause ma da quanto è forte la nostra difesa». Una frase in cui riecheggia la retorica militarista della pace da ottenere attraverso la forza, potenzialmente in grado di giustificare spese militari senza fine.

Nel suo discorso, Meloni ha rivendicato il raggiungimento da parte del suo governo del 2% del PIL in spese per la difesa richiesto dalla NATO nel 2014, «rispettando così la parola data dall’Italia a livello internazionale». La premier ha poi confermato un completo allineamento anche sui nuovi impegni: «Attualmente la proposta presentata prende atto della valutazione aggiornata che la NATO fa delle minacce e dei rischi per l’Europa, dei conseguenti piani di Difesa, della possibile riduzione del contributo in termini di forze e capacità da parte degli Stati Uniti», il che «si traduce in un impegno per tutti i membri dell’Alleanza ad arrivare al 3,5% del PIL in spese di difesa e al 1,5% in spese di sicurezza – ha detto Meloni -. Sono impegni importanti, certo, sono impegni necessari, che finché questo Governo sarà in carica, l’Italia rispetterà restando un membro di prim’ordine della NATO». Le parole di Meloni sono arrivate mentre ancora non era stata annunciata la tregua tra Israele e Iran. Anzi, la premier non aveva nemmeno escluso l’idea di concedere le basi italiane agli Stati Uniti, seppur precisando che, nel caso, avrebbe dovuto prima avere luogo un passaggio parlamentare.

I numeri recentemente forniti dall’osservatorio Milex chiariscono le vere dimensioni dell’impegno finanziario: oggi l’Italia spende complessivamente circa 45 miliardi di euro tra difesa e sicurezza (pari al 2% del PIL), mentre per raggiungere il 5% nel 2035 la spesa annuale salirebbe a circa 145 miliardi, ovvero un incremento netto di 100 miliardi rispetto ad oggi, con aumenti medi di 10 miliardi all’anno nel decennio 2025–2035. Se si confrontano i due scenari in termini cumulativi, per la spesa decennale fino al 2035 servirebbero quasi 1 000 miliardi con l’obiettivo del 5%, contro poco più di 500 miliardi mantenendo il 2% con una crescita fisiologica: la differenza è dunque superiore a 400 miliardi in dieci anni, pari in media a 40 miliardi in più ogni anno. Un balzo di spesa per difesa e sicurezza di queste dimensioni non potrà che impattare enormemente sulla spesa sociale. Ogni miliardo “dirottato” verso la difesa è infatti un miliardo tolto a welfare, politiche attive per il lavoro e sostegni alle fasce più deboli, ma anche a sanità, istruzione, infrastrutture, cultura e ricerca.

L’Iran ha attaccato le basi USA in Medio Oriente

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Lunedì 23 giugno. Dopo che, domenica 22 giugno, gli Stati Uniti sono entrati in guerra contro l’Iran a fianco di Israele (qui il nostro flusso di ieri), continuano gli attacchi di Tel Aviv contro Teheran. Prosegue la nostra diretta del conflitto.


Diversi ufficiali statunitensi starebbero rivelando in condizioni di anonimato ai media del Paese che l’Iran avebbe informato in anticipo gli USA degli attacchi. La notizia è uscita da fonti diversificate su CNN, e sul New York Times, che riportano che Washington non avrebbe intenzione di rispondere a Teheran. La stessa CNN riporta che l’inviato speciale USA per i Medio Oriente, Steve Witkoff, sarebbe tornato in contatto con le autorità iraniane dopo l’attacco di ieri. L’agenzia di stampa Reuters, intanto, riporta di un funzionario iraniano che avrebbe affermato che il Paese sarebbe pronto a sedersi al tavolo dei negoziati, ma senza accettare una pace imposte dall’alto.


I Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Kuwait, Bahrein, Oman) hanno condannato l’attacco iraniano sulle basi militari statunitensi nel Golfo Persico. L’annuncio arriva dal segretario del gruppo, Jasem Mohamed Albudaiwi, e segue una analoga dichiarazione di condanna rilasciata dal Qatar. Doha, di preciso, ha affermato che si riserva il diritto di rispondere agli attacchi iraniani. L’Arabia Saudita ha annunciato che sarebbe pronta a fornire sostegno al Qatar in caso di risposta.


Nel frattempo, le sirene di allarme hanno iniziato a suonare nei centri iraniani di Tabriz (nell’area nord-occidentale del Paese), Esfahan (ieri colpita dagli USA), Karaj (a circa 40 chilometri da Teheran) e Teheran. L’attacco è stato lanciato attorno alle 19:45, ma gli aggiornamenti disponibili sono ancora ridotti. Nella capitale, Israele ha lanciato un attacco sui quartieri di Ekbatan (a ovest) e di Narmark (a nordest), e sono state udite due esplosioni nel centro della città.


Anche Iraq e Kuwait hanno annunciato la chiusura del proprio spazio aereo, mentre in Bahrein ha dato ai propri cittadini il via libera per uscire dai propri rifugi. Nel frattempo, sembra che i segnali GPS nell’area del golfo siano tornati a funzionare. In questo momento, dal sito di monitoraggio Flight Radar, sembrerebbe che alcuni degli aerei in volo nei Paesi che hanno chiuso il proprio spazio aereo stiano venendo dirottati altrove.

Un’immagine scattata sul sito di monitoraggio Flight Radar alle 20:04.

Alla notizia di un imminente attacco, il Bahrein ha chiuso il proprio spazio aereo, mentre sembra che gli USA si starebbero preparando all’arrivo dei missili iraniani. Da quanto riportano alcuni media, i jet statunitensi sarebbero decollati dall’Arabia Saudita.


In seguito all’annuncio del possibile attacco iraniano in Bahrein, le sirene di allarme avrebbero iniziato a suonare nel Paese. Secondo media indipendenti, le autorità avrebbero inoltre invitato ai cittadini e alle persone presenti sul posto di trovare rifugio immediatamente.


In seguito alla conferma dell’attacco missilistico da parte dell’Iran anche gli Emirati Arabi Uniti, come il Qatar, hanno annunciato la chiusura del proprio spazio aereo.


Il Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica ha confermato gli attacchi presso le basi statunitensi in Qatar e in Iraq, e sostiene di avere colpito con un missile la base qatariota di Al Udeid. Alcuni media indipendenti rilevano che vicino alla struttura si sarebbe sollevato del fumo. Ancora nessuna conferma degli attacchi alle basi in Bahrein e Kuwait.

Un video dell’attacco iraniano in Qatar condiviso dall’agenzia di stampa iraniana Tasnim.

È stato segnalato un primo lancio di missili iraniani in Medio Oriente. L’agenzia di stampa Reuters riporta di esplosioni a Doha in Qatar, dove l’Iran ha lanciato 6 missili. Secondo quanto riportano i media, sarebbero stati tutti intercettati. In Iraq l’Iran ha preso di mira la base militare di Al Asad, attaccandola con un missile. Anche questo missile sarebbe stato intercettato.


Nelle ultime ore diversi segnali indicherebbero che l’Iran stia preparando un attacco contro la base statunitense di Al Udeid in Qatar. Nella regione si sono verificate interruzioni ai segnali di GPS, e i media segnalano presunti spostamenti dei lanciamissili iraniani nella regione. In risposta, il Qatar ha chiuso momentaneamente lo spazio aereo, dirottando i voli in Arabia Saudita, e ha invitato i cittadini a rimanere al sicuro. Francia, Regno Unito e Stati Uniti hanno inviato aerei nel Golfo Persico, e alcune squadriglie di aerei statunitensi sono state viste occupare lo spazio aereo saudita.


I media israeliani hanno riferito di almeno 4 siti colpiti da missili iraniani nel Paese, ma non è ancora chiaro dove e cosa sia stato danneggiato. Le sirene israeliane hanno suonato per almeno mezz’ora, l’allarme più lungo lanciato dal’inizio del conflitto. Il Times of Israel riferisce che almeno uno dei missili iraniani ha colpito una “infrastruttura strategica” nel sud di Israele, provocando interruzioni di corrente nelle aree vicine.


Per “eccesso di cautela”, l’ambasciata USA in Qatar ha invitato i cittadini statunitensi a mettersi al riparo “fino a nuovo ordine”. Il messaggio è stato inviato via mail a tutti gli americani che si trovano nello Stato del Golfo, dove si trova la base di Al Udeid. Questa, dove si trovano circa 10 mila soldati USA, funge infatti da quartier generale avanzato del Comando Centrale degli Stati Uniti (CENTCOM).


Israele ha lanciato un massiccio bombardamento sull’Iran, che va ormai avanti da oltre un’ora. La città più colpita è la capitale Teheran, dove Israele ha preso di mira obiettivi civili e militari. In un’area della campagna della capitale, lo Stato ebraico ha preso di mira una sede dei pasdaran, le cui condizioni sono ancora ignote; in generale, sono state colpite diverse basi delle IRGC (Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica), su cui tuttavia non abbiamo alcun aggiornamento. Attaccata anche una delle linee di alimentazione elettrica nel distretto di Evin, nel nord di Teheran, dove si è verificato un blackout. Sempre a Evin, Israele ha preso di mira l’omonimo carcere, noto per detenere prigionieri politici, giornalisti, attivisti e cittadini stranieri. Israele ha inoltre bombardato un edificio della emittente di Stato IRIB, uno della mezzaluna rossa iraniana, e uno dell’Università Shahid Beheshti. Ignoti i danni a tali edifici.

Dopo avere colpito Teheran, lo Stato ebraico ha preso di mira lo stabilimento di Fordo, principale bersaglio del bombardamento statunitense di ieri, 22 giugno. L’agenzia di stampa semi-ufficiale iraniana Tasnim, ha affermato che gli attacchi di ieri avrebbero provocato danni ridotti e che anche quelli israeliani non dovrebbero mettere in pericolo la struttura e i cittadini; malgrado ciò, il bombardamento è ancora in corso e non è davvero noto quali saranno le entità dei danni. Israele ha bombardato anche una strada di accesso al sito.

Colonne di fumo si alzano da Teheran.

L’Iran sta lanciando una ondata di missili verso tutto lo Stato di Israele, dove le campane d’allarme suonano da circa un’ora. Nel frattempo iniziano ad arrivare i primi aggiornamenti: nell’area meridionale del Paese, i missili sono riusciti a impattare ad Ashdod, dove tuttavia non è chiaro cosa sia stato stato preso di mira; secondo alcuni dovrebbe essere stata colpita una centrale elettrica. Sempre nel sud, colpita una centrale elettrica ad Ascalona, dove si è è stato segnalato un blackout. I bombardamenti iraniani si sono abbattuti anche sulla capitale Tel Aviv, dove almeno un missile è riuscito a superare le difese israeliane. Nel distretto settentrionale di Israele, almeno due missili sono riusciti a colpire Haifa, mentre uno dovrebbe essersi abbattuto a Safad. Colpita, infine, un’area nel Negev.

L’impatto ad Ashdod.

In un post sul suo social network Truth, il presidente degli Stati Uniti ha adattato il proprio motto “Make America Great Again” all’Iran («Make Iran Great Again»), e iniziato a invocare un ipotetico cambio di regime: «Non è politicamente corretto usare il termine “cambio di regime”, ma se l’attuale regime iraniano non è in grado di rendere l’Iran di nuovo grande, perché non dovrebbe esserci un cambio di regime? MIGA!». La dichiarazione di Trump va contro quanto dichiarato dal proprio vicepresidente JD Vance e dal Segretario di Stato Marco Rubio nella giornata di ieri.


L’esercito israeliano ha dichiarato, in un post apparso sul proprio account X in ebraico, di aver condotto attacchi contro 6 aeroporti nell’Iran centrale, occidentale ed orientale, attraverso aerei pilotati a distanza che hanno distrutto in tutto 15 mezzi da combattimento iraniani. Negli attacchi sarebbero stati distrutti “vie di fuga, bunker sotterranei, un aereo da rifornimeno e aerei F-14, F-5 e AH-1”.

Sudan, attacco in un ospedale: almeno 40 morti

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Nel fine settimana, in Sudan, è avvenuto un attacco a un ospedale, in seguito a cui sono state uccise almeno 40 persone. La notizia è stata data oggi dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, che tuttavia non ha individuato il responsabile dell’aggressione. L’attacco è avvenuto presso l’ospedale Al Mujlad, nel Kordofan Occidentale, area vicino alla linea del fronte tra l’esercito regolare e i ribelli delle Forze di Supporto Rapido. In seguito all’annuncio, il direttore dell’ospedale ha condannato le aggressioni alle strutture sanitarie chiedendo ad entrambe le forze di cessarle immediatamente; neanche il medico ha identificato l’autore degli attacchi.

Thailandia: chiuso il confine con la Cambogia

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L’esercito thailandese ha chiuso i valichi di frontiera con la Cambogia a quasi tutti i viaggiatori, compresi turisti e commercianti. La chiusura dei confini è stata motivata con motivi di sicurezza, e arriva in un momento di tensione tra i due Paesi del Sud-est asiatico. Il deterioramento dei rapporti è scattato dopo lo scoppio di ridotti scontri armati in una zona di confine, che alla fine di maggio hanno causato la morte di un soldato cambogiano. I Paesi hanno poi adottato misure di ritorsione l’uno contro l’altro, come per esempio la sospensione di tutte le importazioni di carburante e gas dalla Thailandia annunciata dalla Cambogia.

Trump annuncia il cessate il fuoco tra Israele e Iran: “chiamatela la guerra dei 12 giorni”

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Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha annunciato un cessate il fuoco «completo e totale» tra Israele e Iran, che aprirebbe la strada alla conclusione definitiva di quella che ha ribattezzato «Guerra dei 12 giorni». La pace inizierebbe formalmente domani, mercoledì 25 giugno, dopo un cessate il fuoco transitorio diviso in due fasi di 12 ore ciascuna: la prima a smettere di bombardare sarebbe Teheran, e poi toccherebbe a Israele. Poco dopo l’annuncio di Trump, il ministro degli Esteri iraniano Araghchi ha smentito il raggiungimento di un accordo, ma ha affermato che l’Iran avrebbe rispettato la tregua se Israele avesse fatto lo stesso, riservandosi il diritto di rispondere agli attacchi. È esattamente quello che è successo: nella notte, Israele e Iran hanno continuato a scambiarsi attacchi, l’ultimo dei quali è giunto da Teheran attorno allo scoccare dell’ora stabilita. Non risulta insomma chiaro se la tregua annunciata da Trump terrà, ma le rispettive emittenti di Stato hanno riportato l’entrata in vigore del cessate il fuoco, e Israele ha annunciato di avere accettato la proposta di Trump.

Nel proprio annuncio, il presidente degli Stati Uniti ha usato i suoi caratteristici toni entusiasti: «Congratulazioni a tutti», ha scritto Trump interamente in maiuscolo. «È stato pienamente concordato tra Israele e Iran che ci sarà un cessate il fuoco completo e totale». Trump ha pubblicato il proprio post sul social Truth pochi minuti dopo mezzanotte (ora italiana); qualche minuto prima, un ufficiale iraniano avrebbe detto all’emittente statunitense CNN che l’Iran non aveva ancora ricevuto alcuna richiesta di cessate il fuoco. Poco prima delle 3 è arrivata la smentita ufficiale da parte di Araghchi: «Al momento, non esiste alcun “accordo” su alcun cessate il fuoco o cessazione delle operazioni militari. Tuttavia, a condizione che il regime israeliano ponga fine alla sua aggressione illegale contro il popolo iraniano entro le 4 del mattino, ora di Teheran, non abbiamo intenzione di proseguire la nostra risposta in seguito. La decisione finale sulla cessazione delle nostre operazioni militari verrà presa in seguito».

Il ministro degli Esteri iraniano è stato di parola: nella notte Repubblica Islamica e Stato ebraico hanno infatti continuato a scambiarsi missili fino allo scadere del termine fissato da Trump. Proprio mentre Trump rilasciava l’annuncio del presunto accordo, Israele ha lanciato un bombardamento verso Teheran, e l’Iran ha attaccato il Golan. I bombardamenti si sono protratti tutta la notte da ambo le parti; l’ultimo che si registra è stato lanciato dall’Iran pochi minuti prima dello scattare del cessate il fuoco, e sembra essere andato avanti fino a circa mezz’ora dopo. A partire da circa le 6:30, tanto l’Iran quanto Israele sembrano avere cessato gli attacchi. Alle 7, Trump ha condiviso un altro post sul proprio social Truth, in cui annuncia l’entrata in vigore del cessate il fuoco e chiede a Israele e Iran di non violarlo. Non è ancora chiaro se il cessate il fuoco terrà: al momento solo Israele ha accettato ufficialmente la proposta di Trump, mentre l’ultimo aggiornamento dall’Iran risulta quello di Araghchi.

L’Australia cancella le discriminazioni per i donatori di sangue

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donare sangue

A partire dal 14 luglio, l'Australia abrogherà il divieto che impediva alle persone omosessuali, bisessuali e transessuali di donare sangue e plasma. Tale decisione, accolta positivamente da molte organizzazioni per i diritti civili, segna un cambiamento significativo nelle politiche sanitarie australiane, che fino ad ora escludevano una parte della popolazione dalla possibilità di contribuire alla donazione di sangue. Il divieto era stato introdotto negli anni '80, quando la diffusione dell'HIV e dell'epatite C attraverso trasfusioni di sangue contaminato aveva sollevato preoccupazioni sanita...

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Russia e Mali rilanciano la cooperazione economica ed energetica

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La Russia e il Mali hanno firmato una serie di accordi per rafforzare i legami commerciali ed economici. La firma è avvenuta a Mosca, in occasione di una visita del leader della giunta militare malese, il colonnello Assimi Goita, al Cremlino. Putin si è mostrato soddisfatto dell’intensificazione dei rapporti con il Paese africano, affermando che ci sono aree in cui la cooperazione potrebbe essere rilanciata: si tratta, in particolare, «dell’esplorazione geologica, dello sviluppo delle risorse naturali, dell’energia, della logistica e del settore umanitario». Uno degli accordi firmati da Putin e Goita riguarda proprio la cooperazione nel settore dell’energia nucleare.

La Global March si sposta a Bruxelles: proteste alla Commissione UE, altri attivisti bloccano due aziende di armi

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Bruxelles, Belgio – La Global March to Gaza, bloccata al Cairo la settimana scorsa, si è spostata a Bruxelles. Centinaia di persone provenienti da diversi Paesi europei si sono ritrovate oggi per una settimana di mobilitazione nella capitale europea, mentre nei palazzi della politica sono previste riunioni e votazioni sugli accordi tra Unione Europea e Israele. Oggi, 23 giugno, la protesta è stata fermata a circa duecento metri dal Parlamento e si è trasformata in un presidio con bandiere e cartelli, tra cori e interventi. «Siamo qui per opporci agli accordi tra l’Unione Europea e Israele» dice a L’Indipendente Andrea, uno dei manifestanti italiani giunti a Bruxelles dopo essere stati al Cairo. «Il sostegno politico, economico e materiale dell’UE al genocidio in corso deve finire. Oggi, dentro quelle mura, il Consiglio dei ministri degli affari esteri discuterà dell’Accordo di associazione tra l’UE e Israele: un accordo che deve essere immediatamente cancellato. Basta complicità con questo genocidio».

In sottofondo riecheggiano i cori per la liberazione della Palestina che da mesi risuonano in tutte le città europee. In discussione oggi era proprio l’accordo di associazione UE-Israele, che alcuni leader, tra cui la Spagna, avevano chiesto di sospendere per la violazione dell’articolo 2 dello stesso accordo, il quale stabilisce esplicitamente come clausola che «le relazioni tra le Parti… si basano sul rispetto dei diritti umani e dei principi democratici, che costituisce un elemento essenziale del presente accordo». Il ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani, ha confermato al suo arrivo a Bruxelles la linea filo-israeliana del governo, dichiarando che l’Italia si sarebbe opposta alla sospensione. Sempre oggi, anche 22 associazioni italiane si sono radunate a Roma per manifestare contro il rinnovo dell’accordo. Nella sede della Commissione europea, intanto, mentre a Gaza il massacro prosegue, è stato accolto anche il ministro israeliano degli Affari esteri.

«Chi bombarda è invitato, chi resiste è ignorato. Questa è complicità» scrivono sui social i manifestanti. «L’Europa guarda altrove mentre Gaza muore. Chiudere gli occhi è una scelta politica. È il momento di farsi sentire». La Global March ha così lanciato una settimana di protesta, iniziata oggi e destinata a proseguire fino al 26 e 27 giugno, giorni del vertice del Consiglio europeo a Bruxelles, durante il quale i leader dell’Unione discuteranno delle priorità politiche e delle relazioni esterne e di sicurezza. Ma senza alcun riferimento a Gaza.

Dopo che la marcia per raggiungere il valico di Rafah è stata bloccata e repressa dalle autorità egiziane, molti attivisti hanno deciso di portare la propria voce nel cuore dell’Europa, dove si stringono gli accordi che consentono a Israele di proseguire indisturbato questa guerra unilaterale, sbarcata da poco anche in territorio iraniano, dove si contano già centinaia di vittime. «Dobbiamo agire qui. L’UE deve prendere posizione contro il genocidio. I popoli del continente sono con la Palestina: i governanti europei hanno il dovere di ascoltarci invece di schierarsi con Israele» continua Andrea.

Le mobilitazioni continuano in tutta Europa; la settimana scorsa, proprio a Bruxelles, sono scese in piazza almeno 75mila persone, a cui si sommano altre 100mila che hanno protestato all’Aia. Vestite di rosso, simboleggiavano «la linea rossa» non tracciata dal governo per fermare Israele. È stata una delle manifestazioni più grandi di sempre a favore di Gaza in seno all’UE, dove la richiesta verso i propri governi era semplice: «basta complicità con Tel Aviv. Fermiamo il genocidio».

Bruxelles è una città molto viva e solidale con la Palestina: ogni sera c’è una manifestazione davanti alla Borsa, e ad oggi le associazioni e i gruppi attivi si sono organizzati per ospitare le centinaia di persone venute dal resto d’Europa per la Global March. Intanto, mentre fuori dalla Commissione continuava il sit-in, un migliaio di attivisti belgi della rete Stop arming Israel hanno bloccato due aziende di armi, responsabili di rifornire Israele di droni e tecnologie.

I manifestanti, molti vestiti con tute bianche e mascherine, hanno bloccato l’accesso alla Syensqo di Bruxelles, lanciato vernice rossa sulla facciata e lasciato numerose scritte per denunciare la complicità dell’azienda nel genocidio in corso. Syensqo, spin-off di Solvay (già al centro dello scandalo PFAS in Piemonte), fornisce materiali alla UAV Tactical Systems Ltd (di proprietà di Elbit e Thales, altro colosso della produzione bellica), rendendo possibile la costruzione dei droni Hermes 450 che Tel Aviv sta impiegando su larga scala. Poche ore prima anche OIP-Elbit, a Tournai, era stata bloccata e colpita con vernice rossa. Nella notte, inoltre, un centinaio di persone si sono introdotte in uno degli hangar dell’azienda, danneggiando alcuni mezzi militari e materiale informatico.

Elbit Systems è la principale azienda di armi israeliana, produttrice di circa l’85% dei droni e della maggior parte delle attrezzature militari terrestri utilizzate dall’esercito di Tel Aviv. «La campagna Stop arming Israel chiede di fermare la produzione di equipaggiamenti militari e il loro transito dal Belgio verso Israele. L’azione mira a rendere effettivo l’embargo militare contro Israele decretato dal Belgio nel 2009 e a chiedere sanzioni contro Israele, tra cui la cancellazione dell’accordo di associazione UE-Israele» scrivono gli attivisti nel comunicato stampa che rivendica l’azione.

E concludono: «Il genocidio inizia qui. Abbiamo il dovere morale di interrompere le catene di approvvigionamento dell’esercito israeliano. L’impunità e i crimini del governo israeliano devono finire. Di fronte alla complicità dei nostri governi, stiamo agendo per applicare noi stessi delle sanzioni e per rendere effettivo l’embargo militare che il Belgio dovrebbe applicare».

Centinaia di persone sono state messe in stato di fermo e portate in questura. Molte delegazioni della March to Gaza hanno raggiunto il presidio in solidarietà ai fermati, anche perché il senso profondo di questi gruppi è lo stesso: agire in prima persona e bloccare la violenza di Israele, anche contro le scelte politiche dei governanti UE.